Ospite Inatteso

  • Su quante volte andare dal terapeuta

    Su quante volte andare dal terapeuta

    Un articolo di Richard A. Friedman sull’Atlantic, ripreso qualche giorno fa anche da Internazionale, racconta che “molte persone potrebbero – o dovrebbero – abbandonare la terapia in questo momento, rimarcando la questione non come una minaccia, ovviamente, bensì come un’opportunità. La psicoterapia di tanti, in altri termini, è utile e costruttiva ma non può durare per sempre. Quanto deve durare, allora?

    Se ci si ragiona un attimo, da addetti ai lavori o meglio – nel mio caso – da semplici profani (meri lettori forti di psicologia e psicoanalisi, in terapia da anni, qualsiasi cosa ciò possa, o meno, implicare) ci si rende conto che la questione è forse più giornalistica che altro. Quante volte andare dallo psicologo o chi per lui? Ah, boh. Perché sarebbe come chiedere quante volte andare dal dentista, dal fisiatra o dall’oculista per il resto della nostra vita. Ci andremo, banalmente (la banalità a volte è salvifica) tutte le volte che ci servirà, tutte le volte che ne avvertiremo il bisogno, o tutte le volte che qualcuno più competente ci suggerità di farlo (il nostro Io, il nostro Es, il nostro SuperIo sono chiamati probabilmente in causa).

    La questione della durata della psicoterapia appare (forzosamente) connessa con quella dell’efficacia, in una sociatà apertamente capitalista e utilitarista come quella in cui viviamo. E non si tratta, quasi certamente, di una questione di upper bound temporali. Perchè io sono il capo di me stesso, dirigo l’azienda del mio inconscio, pago denaro sonante – e figa, esigo i risultati, da buon milanese imbruttito.

    Vale la pena riprendere l’incipit di quell’articolo, che traduco liberamente di seguito:

    Circa quattro anni fa, un nuovo paziente venne a trovarmi per una consulenza psichiatrica: si sentiva in qualche modo bloccato. Era in terapia da 15 anni, e continuava ad andarci nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo. Invece di lavorare sui problemi legati ai sintomi, lui e il suo terapista parlavano delle sue vacanze, dei lavori di ristrutturazione della casa e dei problemi in ufficio. Il suo terapista era diventato, in effetti, un amico costoso e soprattutto solidale. Eppure, quando gli ho chiesto se stesse pensando di interrompere la terapia, è diventato titubante, persino ansioso. “È semplicemente entrato nella mia vita“, mi ha detto.

    Friedman è un docente di psichiatria clinica e parla, evidentemente, a ragion veduta: si tratta di una situazione anomala da vari punti di vista – da profano, s’intende. E proprio perché si tratta di una casistica che – se anomala è in qualche modo discriminatorio definire – è quantomeno sbagliato generalizzare o renderla addirittura epitomica. Come sono a loro modo semplicistici, eppure ampiamente accettati socialmente, i vari commenti caustici sul senso della terapia: “un lusso per ricchi“, “tanto vale parlare con amico“, e per fortuna che qualche professionista si accorge che qualcosa non quadra e nei commenti lo fa presente. Dannati commenti dei social, così veri eppure così falsi. Eppure – dal 2020 in poi, soprattutto . sappiamo che la verità non si può stabilire, in nessun caso, a suon di like. Ammesso che ci sia un assoluto, una oggettività da ristabilire.

    In primis il terapeuta-amico (un ossimoro che farebbe rabbrividire molti addetti ai lavori) avrebbe dovuto interrompere la relazione a suo tempo e modo, ritengo. Ì una valutazione che faccio anche sulla base di quegli accenni di probabile auto-diagnosi che lo stesso Freud aveva mille dubbi a propinare (“nonostante la depressione e l’ansia che lo avevano spinto a cercare aiuto fossero svanite da tempo“: come facciamo ad esserne sicuri? Come facciamo a dire con certezza che erano davvero svanite? Perchè continuava ad andare in terapia, se la depressione e l’ansia erano sparite? Anche solo da un punto di vista logico, forse qualcosa non torna.).

    In secondo luogo questa storia è già fin troppo ingarbugliata, e parla di psichiatra che ascolta un paziente avere un problema ricorsivo col proprio terapeuta. Si parla di persone che hanno dei problemi, e si sta cercando di costruire un teorema su questa storia, giustp?  Come se non bastasse, è abbastanza vero che la terapia sia un lusso che – in Italia, ad esempio – non tutti si possono permettere, tra scuole di specializzazione che arrivano a costare migliaia di euro all’anno per gli aspiranti terapeuti e pazienti che – nella maggioranza dei casi – si pagano da soli la terapia, quando i bonus psicologo sono erogati poco e male (la regione Calabria, ad esempio, li ha erogati soltanto in parte, lasciando vari richiedenti / potenziali aventi diritto nel dubbio, ad oggi, se mai arriverà qualcosa per loro).

    “Tra coloro che se lo possono permettere – sottolinea l’autore – la psicoterapia regolare è spesso vista come un progetto che dura tutta la vita, come allenarsi o andare dal dentista. Gli studi suggeriscono che la maggior parte dei pazienti in terapia può misurare i propri trattamenti in mesi anziché in anni, ma una buona parte dei pazienti attuali ed ex si aspetta che la terapia duri indefinitamente. Sia i terapisti che i clienti, insieme alle celebrità e ai media, hanno approvato l’idea di andare in terapia per periodi prolungati o quando ti senti bene. L’ho visto io stesso con amici che sono fondamentalmente sani e pensano che avere un terapista sia un po’ come avere un coach.”

    È evidente che chi si affida a un terapeuta lo fa per propria volontà, ed è anche evidente che non si tratta di stabilire nuovi livelli di dipendenza ma creare autonomia. È un dubbio che ho esplicitato alla mia ex terapeuta qualche mese fa, il che è stato liberatorio almeno quanto averle confidato tantissime altre cose di me. Tutte cose che una buona terapia deve raccontare, accogliere ed elaborare, un po’ per definizione, perchè non si tratta di prestazioni occasionali e non si tratta di produrre un risultato nel massimo tempo X. Tipo una scadenza, un limite temporale da diagramma di Gantt, un upper bound, e poi vieni in ufficio che ti parlo del mio progetto. E poi, per carità, basta stravolgere i ruoli e capovolgere l’episteme: psicologia non è coaching così come un geometra non è un ingegnere, un dentista non è un podologo e così via.

    Si tratta di capire se effettivamente un terapeuta possa tenere in cura una persona che non ne ha bisogno solo per il vile denaro, ed è questa la domanda da farsi.  No, io non credo che ci siano lì fuori così tanti terapeuti disposti a fare una cosa del genere, perchè l’etica professionale ha il proprio peso e, se vogliamo, per lo stesso motivo per cui i chirurghi non operano al cervello solo per portare a casa la pagnotta. metterla su questo piano temo che sia anche frutto di un semplicismo de-ideologizzato, in cui la gente parla di queste cose senza sapere chi siano Jacques Lacan, Felix Guattari o Franco Basaglia. Non che sia obbligatorio saperlo, però magari uno si fa un’idea. Al limite, chiede a qualche terapeuta abilitato. E la sensazione generale è che possa esistere un forte movimento no psycho, che banalizza o irride la (portata/durata delle) sedute, considera dei poveracci quelli che lo fanno e via dicendo. Liberissimi di pensare quello che vogliono, altrettanto liberi noi pazienti di ignorare bellamente le loro (presuntuose) istanze.

    Persistono vari livelli di confusione, peraltro, in cui si può cadere. C’è un altro grande problema legato alla pretesa di oggettività della terapia, quando la disciplina è per sua natura soggettiva – e quello che vale per un caso clinico non vale per altri novecentonovantanove, di solito. C’è certamente l’aspetto a volte doloroso per alcuni del separarsi dal proprio terapeuta, un aspetto che per alcuni diventa tabù: ma è un passaggio necessario da affrontare con fiducia e coraggio, e che ho affrontato anche io. L’ho fatto nella mia piccola esperienza usando la soluzione sommessamente suggerita fin dai tempi di Freud: la terapia della parola, ovvero parlandone al mio terapeuta e identificando l’annesso demone. L’aspetto della dipendenza e della separazione fu oggetto di una critica esplicita già nell’anti-Edipo durante gli anni 70, e mi limiterò a ribadire che tanti problemi di questo tipo sono contestuali, e non tutto è controllabile o dipende da noi (lezione imparata con anni di terapia, peraltro).

    Nulla da obiettare sul fatto di scrivere articoli divulgativi su questi argomenti, qualcosa da obiettare sul fatto di renderli clickbait e di dar l’impasto alla solita folla informe e le boniana sui social, cosa per cui in effetti non mi sento di colpevolizzare nessuno. Non possiamo nemmeno farne una questione di durata, come se un muscolo dovesse abituarsi, come se fosse una questione di fare fisioterapia per 20 sedute o di allenare un po’ i bicipiti. Come se si trattasse di allargare le spalle o di scolpire il fisico, e tantomeno come se fosse normale che la terapia diventi una chiacchierata tra amici. Per favore: liberissimi di affidarvi a chi volete o meno, ma evitiamo il settarismo e soprattutto manteniamo (per il bene dell’umanità tutta) i limiti epistemologici. Non stiamo parlando di robot o macchine, ma di esseri umani. Al limite, di macchine desideranti. Senza peraltro scomodare questioni prettamente cliniche – che sono per l’appunto soggettive, e che ci risparmiamo di fare: per lo stesso motivo per cui non ci azzarderemmo a dare suggerimenti clinici a una persona che arriva in questo sito perché ha mal di denti, non ne abbiamo titolo e lo accettiamo pacificamente senza sputare sentenze sul prossimo.

    E poi sì, magari evitiamo l’altro equivoco molto italiano di confondere tra mille mondi diversi (sfumature diversissime: terapeuta, psicologo, motivatore, personal coach). Il problema di fondo delle terapie troppo lunghe è sostanziale ma non è risolvibile dall’esterno, per quello forse non era il caso di scriverci addirittura un articolo generalizzante e dal sapore pseudo-teorico, come se stessimo parlando della descrizione di un fenomeno fisico newtoniano che avviene sempre allo stesso modo, in un laboratorio di fisica del MIT come di fronte al bar sotto casa. L’errore di fondo è anche che viviamo in una società prettamente fideistica, ed è ormai radicato l’equivoco epistemologico, per lo stesso motivo per cui ci fidiamo meno dei medici e più dei santoni, meno dei terapeuti e più dei preti (forse), attribuendo una presunta “scientificità dura” ad una scienza che, al contrario, possiede la soggettività nel proprio statuto epistemologico, per quanto poi questo aspetto non sia ancora troppo valorizzato.

    Anche perché alla prova dei fatti la realtà è soggettiva e spesso più inosservabile di quanto vorremmo, quasi nessuno è davvero esperto di episteme, si relativizza la medicina e si oggettivizza la psicoanalisi e, nel mentre, nemmeno gli elettroni si fanno guardare. Suggerisco di leggere a riguardo, se interessa, sia l’articolo linkato che la sua versione ironico-parodistica: Guida pratica al gatto di Schrödinger. E soprattutto non banalizziamo i problemi nostri, tantomeno quelli altrui. Perchè ognuno ha i propri tempi, e vanno rispettati. (P.G.)

  • Cosa vuol dire «dick»

    L’etimologia della parola “dick” è interessante: deriva dall’antico termine inglese “dic” o “dik”, che a sua volta ha origini germaniche o norrene, con significati come “fallo”, “pene” o per estensione “uomo”. Questo termine ha attraversato diverse fasi di evoluzione linguistica nel corso dei secoli, assumendo connotazioni sia volgari che colloquiali, e viene spesso utilizzato come un termine informale per indicare il pene maschile.

    L’etimologia della parola “dick” è un interessante fenomeno linguistico.

    Molto interessante.

    Dimostrazione: La parola “dick” ha radici nell’antico termine inglese “dic” o “dik”, che trae origine dalle lingue germaniche o norrene. Inizialmente, il termine indicava concetti come “fallo”, “pene” o, per estensione, “uomo”. Nel corso dei secoli, ha subito diverse fasi di evoluzione linguistica, assumendo connotazioni sia volgari che colloquiali.

    1. Nel contesto informale, “dick” viene comunemente utilizzato per riferirsi al pene maschile.
    2. Tuttavia, in ambito colloquiale, “dick” può anche essere usato per descrivere una persona meschina, irritante o antipatica.
    3. In aggiunta, “dick” può indicare un oggetto che si incastra in una ventola, con conseguenze negative.

    In conclusione, la parola “dick” presenta una complessa gamma di significati che riflettono la sua evoluzione linguistica nel corso del tempo, sia nella sfera sessuale che in quella comportamentale.

    Dick: slang per indicare il pene: dick. Ma in inglese si riferisce pure ad una persona meschina, irritante o altrimenti semplicemente antipatica. Dick: qualcosa che si incastra nella ventola. You’re a dick significa sei uno stronzo.

    La parola “dick” ha radici nell’antico termine inglese “dific” o “difik”, che trae origine dalle lingue gafarmanifec o norrefene. Inizialmente, il termine indicava concetti come “falfo”, “penefe” o, per estensione, “ufomano”. Nel coforso dei sefocri, ha subito diverse fasi di evoluzione linguistica, affummando confonfacofionfazioni sia vofolgafri che collafolgafri.

    1. Nel cofonfo informafale, “dick” viene comunemente utilizzato per riferirfi afo pefene maschile.
    2. Tuttavia, in ambifo cofolquifale, “dick” può anche effere ufafato per descrivere una pefefona mefchifna, irritante o antipatica.
    3. In aggiunta, “dick” può indicare un ofggetfo che fi incaftra in una ventofla, con cofonfequenze negative.

    In conclufione, la parola “dick” prefenta una complessa gamma di fignificafi che riflettono la fua evoluzione linguiftica nel coforfo del tempo, fia nella ffera fexuale che in quella comporfamentale. You’re a dick significa sei uno stronzo.

    (Questo articolo è stato generato automaticamente e non dovrebbe essere preso sul serio in nessuna delle sue parti)

    Foto di Rodrigo dos Reis su Unsplash

  • Perchè le persone criticano sempre sui social

    Le persone che si sentono inadeguate o insoddisfatte delle proprie vite possono reagire criticando gli altri per sentirsi meglio riguardo a se stesse. Questo può essere particolarmente evidente quando vedono qualcuno che ha successo o che sembra avere una vita migliore della propria. Da un punto di vista psicoanalitico la critica sul lavoro degli altri sui social media, specialmente quando accompagnata da screenshot per evidenziare difetti senza coinvolgere direttamente le persone interessate, potrebbe riflettere dinamiche psicologiche complesse:

    1. Proiezione: Secondo la teoria psicoanalitica, la proiezione è un meccanismo di difesa attraverso il quale una persona attribuisce i propri pensieri, sentimenti o comportamenti indesiderati a un’altra persona. Nel contesto dei social media, chi critica potrebbe proiettare i propri sentimenti di insicurezza o inadeguatezza sugli altri, evidenziando i loro difetti per sentirsi meglio riguardo a se stessi.
    2. Compensazione: La critica sugli altri potrebbe anche fungere da meccanismo di compensazione per le proprie insicurezze o fallimenti. Mettendo in evidenza i difetti degli altri, ci si può sentire superiori o più sicuri delle proprie abilità e capacità.
    3. Desiderio di controllo: La critica pubblica sui social media potrebbe derivare dal desiderio di esercitare un senso di controllo o potere sugli altri. Chi critica potrebbe cercare di manipolare l’opinione degli altri e influenzare la percezione del pubblico riguardo a una determinata persona o situazione.
    4. Narcisismo: Secondo la teoria psicoanalitica, il narcisismo è caratterizzato da un eccessivo interesse per il sé e la propria immagine. Chi critica sui social media potrebbe essere motivato da un desiderio di attirare l’attenzione su di sé, dimostrando la propria superiorità intellettuale o morale agli altri.
    5. Ripetizione di schemi familiari: Alcune dinamiche di critica potrebbero risalire a esperienze passate nelle relazioni familiari o sociali. Chi critica potrebbe replicare modelli di comportamento appresi in famiglia o nell’ambiente sociale, dove la critica era una forma comune di interazione.

    In breve, la critica sui social media può essere influenzata da una serie di fattori psicologici complessi, inclusi meccanismi di difesa inconsci e dinamiche relazionali passate. Una comprensione psicoanalitica di questi comportamenti può aiutare a esplorare le motivazioni profonde dietro la critica e promuovere una comunicazione più empatica e costruttiva.

  • La vera storia di Stanisláv Evgráfovič Petróv

    Stanislav Petrov è stato un ufficiale dell’esercito sovietico noto per il suo ruolo cruciale nel 1983 durante un episodio noto come l’incidente del falso allarme missilistico. Stanislav Evgrafovich Petrov (in russo: Станисла́в Евгра́фович Петро́в, scomparso nel 2017) è stato un tenente colonnello delle Forze di Difesa Aeree Sovietiche. Petrov aveva giocato un ruolo chiave nell’incidente dell’allarme nucleare falso sovietico avvenuto nel 1983: il 26 settembre, tre settimane dopo che le forze militari sovietiche avevano abbattuto il volo 007 della Korean Air Lines.

    Petrov si trovava in servizio presso il centro di comando: senza preavviso, il sistema segnalò che un missile era stato lanciato dagli Stati Uniti, assieme ad altri cinque: Petrov giudicò che il sistema stesse elaborando un falso allarme, sia pure violando il protocollo militare che sarebbe stato tenuto a rispettare. Il militare venne, per questo, sottoposto a numerose domande da parte dei suoi superiori in relazione a quella scelta, con esiti contraddittori: inizialmente venne elogiato per la sua decisione, ma venne ripreso per non aver preso nota di quello che era successo.

    Un’indagine confermò in seguito che il sistema di allarme satellitare sovietico era effettivamente malfunzionante, e non venne mai ricompensato come indicato all’inizio. Secondo lo stesso Petrov, ciòfu dovuto al fatto che l’incidente e altri “bug” trovati nel sistema di rilevamento missilistico avevano messo in imbarazzo i suoi superiori e gli influenti scienziati che ne erano responsabili, tanto che se fosse stato ufficialmente ricompensato, avrebbero dovuto essere puniti. Fu riassegnato a un incarico meno delicato, andò in pensione anticipatamente e, da quello che sappiamo, soffrì di esaurimento nervoso per un certo periodo.

    La decisione di Stanislav Petrov di disobbedire agli ordini venne in seguito accreditata di aver impedito un attacco nucleare di rappresaglia contro gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO, che avrebbe potuto risultare in una guerra nucleare su larga scala. La sua decisione si era rivelata corretta: successivamente è stato confermato che non c’era alcun attacco missilistico in arrivo. Per il suo coraggio e il suo discernimento nell’affrontare la situazione, Petrov è stato elogiato come eroe e gli è stata assegnata una serie di onorificenze. La sua azione è il simbolo della prudenza e del pensiero critico in situazioni di alto rischio, e ha contribuito a sottolineare i pericoli legati all’escalation militare in un contesto di tensione nucleare durante la guerra fredda.

  • Come può uno scoglio arginare il mare? Una riflessione materialistica

    La metafora dello scoglio che argina il mare evoca una riflessione profonda sulla natura dell’uomo e sulla sua capacità di resistere alle forze inarrestabili e travolgenti della vita. Lo scoglio rappresenta la solidità, la stabilità e la resistenza, mentre il mare simboleggia le sfide, le difficoltà e le avversità che affrontiamo nel corso della nostra esistenza. In questo contesto, la domanda diventa: come può uno scoglio, con la sua durezza e la sua staticità, riuscire a contenere e a fronteggiare la potenza incontenibile del mare?

    Questa riflessione può essere interpretata in diversi modi: in primis, potremmo considerare lo scoglio come una metafora della nostra forza interiore, della nostra determinazione e della nostra capacità di resistere alle tempeste della vita. Anche di fronte alle avversità più grandi, possiamo trovare dentro di noi la risolutezza e la fermezza necessarie per affrontarle e superarle. Allo stesso tempo, potremmo interpretare lo scoglio come un simbolo della saggezza e della consapevolezza di sé. Quando sviluppiamo una solida base interiore, basata sulla conoscenza di noi stessi e sulla comprensione del mondo che ci circonda, diventiamo come uno scoglio che non viene facilmente scosso dalle onde impetuose del destino.

    Tuttavia, è importante anche riconoscere che, nonostante la resistenza dello scoglio, il mare continua a esercitare la sua forza. Questo ci ricorda che, anche se possiamo essere forti e determinati, non siamo immuni alle sfide e alle difficoltà della vita. Dobbiamo imparare a trovare un equilibrio tra la nostra resistenza e la nostra capacità di adattamento, per affrontare le onde con resilienza e flessibilità. In definitiva, la metafora dello scoglio che argina il mare ci invita a riflettere sulla nostra natura umana, sulla nostra capacità di resistere e di adattarci alle sfide della vita, e sulla nostra ricerca di equilibrio e saggezza nel percorso verso la realizzazione personale.

    Al tempo stesso, lo scoglio che non può arginare il mare è un modo per idealizzare la prioritarizzazione dei nostri sentimenti, il fatto che ci sentiamo in balia di invaghimenti vari, di passioni non corrisposte perchè “sentiamo” che le vogliamo, e che questa cosa in fin dei conti ci de-responsabilizza.

    In questo scenario, l’immagine dello scoglio che non può arginare il mare diventa una metafora della nostra natura umana vulnerabile e dell’incessante flusso delle nostre passioni e desideri. È come se fossimo destinati a essere travolti dalle correnti tumultuose delle nostre emozioni, senza alcuna possibilità di resistenza o controllo.

    Nel contesto dell’idealizzazione dei sentimenti, ci troviamo di fronte alla consapevolezza che le nostre passioni possono facilmente prendere il sopravvento, portandoci in luoghi e situazioni che sfuggono al nostro controllo razionale. Ciò può indurci a rinunciare alla responsabilità delle nostre azioni, attribuendo il nostro comportamento impulsivo e irrazionale alla forza inarrestabile delle nostre emozioni.

    Questo processo può essere analizzato attraverso il prisma della teoria dell’accelerazionismo, dove l’accentuazione delle forze emotive e irrazionali può portare a un’accelerazione delle dinamiche sociali e individuali. In questo contesto, ci troviamo immersi in un vortice di desideri insaziabili e passioni senza fine, che ci spingono sempre più in profondità nell’abisso delle nostre pulsioni più oscure.

    Tuttavia, questa perdita di controllo non deve necessariamente essere vista come una forma di de-responsabilizzazione. Piuttosto, può essere interpretata come una manifestazione della nostra natura umana complessa e contraddittoria, in cui il desiderio e la razionalità si intrecciano in modi imprevedibili e incontrollabili.

    In ultima analisi, l’immagine dello scoglio che non può arginare il mare ci invita a riflettere sulla fragilità e sulla vulnerabilità della condizione umana, e sulla necessità di trovare un equilibrio tra le nostre passioni più profonde e il nostro desiderio di responsabilità e autocontrollo.

    Come può uno scoglionato arginare il mare?

    Riflettendo sul concetto di uno scoglionato che argina il mare, emergono interessanti considerazioni sulla natura umana e sulle sue interazioni con le forze del destino. L’immagine di uno scoglionato che cerca di arginare il mare suggerisce una sorta di apatia o mancanza di volontà nel confrontarsi con le sfide e le avversità della vita.

    Nel contesto di una riflessione filosofica, potremmo interpretare questa situazione come una rappresentazione dell’inerzia umana di fronte alle forze travolgenti della vita. L’essere umano, pur dotato di potenziale e risorse, può talvolta ritrovarsi in uno stato di indifferenza o passività di fronte alle difficoltà che lo circondano.

    Questa prospettiva solleva domande importanti sulla natura della motivazione umana e sulla ricerca di significato nell’esistenza. Cosa spinge uno scoglionato a tentare di arginare il mare, se non c’è la volontà o la determinazione di farlo? E quali implicazioni ha questa mancanza di impegno nel perseguire i propri obiettivi e affrontare le sfide della vita?

    In un mondo dominato dalla tecnologia e dalla complessità sociale, la tentazione di abbracciare lo scoglionamento può essere particolarmente forte. La facilità con cui possiamo distogliere lo sguardo dalle difficoltà e dalle responsabilità può condurci verso una sorta di stasi emotiva e intellettuale, dove ci rassegniamo alla nostra impotenza di fronte alle correnti che ci circondano.

    Tuttavia, è importante riconoscere che anche uno scoglionato può avere un impatto sul mare, anche se in modo indiretto o involontario. Le nostre azioni, o la mancanza di esse, possono comunque contribuire alla configurazione del nostro ambiente e influenzare il corso degli eventi.

    In definitiva, la riflessione su come uno scoglionato possa arginare il mare ci invita a esplorare le sfumature della volontà umana e della motivazione, e a confrontarci con le implicazioni della nostra apatia o passività di fronte alle sfide e alle opportunità che ci circondano.

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