Jennifer viene dagli Stati Uniti per studiare in Svizzera, in una particolare regione detta la “Transilvania” della stessa. Si reca a risiedere in un collegio femminile, dove viene da subito presa di mira da una direttrice ultra-autoritaria (e vagamente cattolico-integralista, come si coglie da una sua battuta) e dalla maggioranza di allieve della scuola. Nel frattempo si stanno consumando dei misteriosi omicidi di ragazze molto giovani, e toccherà alla nostra Jennifer (che possiede un’insolita capacità telepatica di comunicare con gli insetti) riuscire a trovare il bandolo della matassa.
In breve. Phenomena è sicuramente uno dei migliori film del periodo “tardo” argentiano, si parla del 1985 e della splendida (in ogni senso) protagonista Jennifer O’ Connelly.
Vagamente simile per l’ambientazione e alcune scene al celebre Suspiria, vanta una serie di caratteristiche che lo hanno reso uno dei film più famosi ed influenti anche (e forse soprattutto) all’estero. Un’ambientazione prettamente naturalistica, piena di vermi ed insetti di ogni specie – fanno davvero paura, in fondo perchè mai? – in particolare insetti come la mosca cosiddetta “sarcofaga” che viene utilizzata dall’entomologo protagonista per datare i cadaveri.
Si registra la presenza nel film di Dalila di Lazzaro (direttrice) e soprattutto del mitico e rimpianto Donald Pleasence (entomologo). Il film è carico, come raramente in Argento, di simbologie e metafore. In particolare, la figura di Jennifer non sta che a simboleggiare l’umanità persa, quella capace con la sua grande sensibilità di comunicare con gli insetti, ma impossibilitata a dire qualsiasi cosa ed a ricevere fiducia dagli altri esseri umani. Quegli esseri umani crudeli, cinici e senza cuore che la ridicolizzano e la prendono in giro per il suo essere “diversa”. Quel senso di discriminazione che la protagonista appaga soltanto con gli animali, che sono liberi dalle convenzioni ipocrite dell’uomo e non è escluso che vivano ogni cosa più intensamente, ivi compresi l’amore ed il rispetto per i propri simili. Una parabola ambientalista, senza dubbio, libera dai luoghi comuni e dalle ipocrisie che a volte la accompagnano.
Un film assolutamente da vedere e riscoprire.
Colonna sonora: Iron Maiden (Flash of the blade), Motorhead e Goblin.
Cecilia è una giovane donna riluttante al matrimonio, che durante un viaggio in Messico conosce un affascinante architetto, che deciderà inaspettatamente di sposare. L’uomo sta sviluppando una teoria sull’architettura delle camere, che – a suo dire – sarebbero legate a ciò che succede, o è successo, all’interno delle stesse. Cecilia scoprirà una vera e propria collezione di stanze, di cui l’ultima è rimasta chiusa per motivi incomprensibili…
In breve. Thriller d’epoca profetico per forma e sostanza, dai toni che richiamano Hitchcock e a cui molti altri registi sembrano essersi ispirati in seguito. Da un lato troviamo le porte della casa, un elemento portante della storia e con tutto ciò che implicano e sottintendono nella psicologia dei personaggi; dall’altro, alcune ingenuità della storia, ed il tono rassicurante del finale, finiscono per rendere godibile il film per ogni spettatore, più che renderlo fiacco. Rilevante perchè si può considerare quasi un saggio di psicanalisi, perchè il rapporto ambiguo tra i due coniugi è archetipico e anche perchè – in modo parzialmente involontario – molti elementi del film si ritroveranno anche in tantissimi gialli all’italiana.
Incluso nella lista dei 1001 film da vedere prima di morire (1001 Movies You Must See Before You Die, scritto dal critico Steven Schneider, con volume disponibile su Amazon apparentemente solo in inglese), è uno dei padri più importanti e film più influenti per il genere giallistico, di cui eredita molti elementi che saranno poi tipici dei gialli all’italiana. Si tratta del primo film americano dell’attore Michael Redgrave, abbastanza in voga nel periodo e qui presente nella parte di Mark Lamphere, uno dei protagonisti della storia. Storia che Fritz Lang declina con toni hitchcockiani subito dopo aver tentato di realizzare una propria versione del celebre Rebecca – La prima moglie, con risultati tutt’altro che esaltanti, e finendo fuori budget e fuori tempo massimo.
Secret Beyond the Door finisce per essere un film parecchio rilevante per il genere thriller, soprattutto nel proprio essere archetipico, quasi fuori dal tempo, prima di chiunque altro: la storia che racconta è morbosa quanto universale, non è invecchiata fino ai giorni nostri ed è girata con grande gusto per le immagini. Il film verte sulla progressiva scoperta da parte della protagonista (una Joan Bennett particolarmente calata nella parte) dell’identità reale del proprio compagno, dipinto inizialmente come mite ed affabile ed in realtà legato ad una morbosa storia legata, come in una favola nera, a sette stanze di cui una inaccessibile dall’esterno. Il soggetto, poi, è tratto da un racconto di Rufus King, dal titolo Museum Piece Nb.13.
Valgono a molto, a riguardo, le parole di elogio del critico Cesare Sacchi, che sulla rivista Cineforumn.252 definisce “Dietro la porta chiusa” uno dei migliori saggi freudiani mai girati: “uno degli omaggi più seri ed attenti che il cinema abbia fatto alla cultura freudiana. Infatti, un caso clinico, presentato con rigore, sensibilità e competenza, viene contemporaneamente ridefinito, arricchito e trasfigurato in un linguaggio cinematografico allusivo, pregnante, quasi onirico, che risulta non solo molto aderente alla vicenda psicopatologica e terapeutica, ma sembra altresì in grado di suggerire e sottolineare l’intensità e in certo modo l’intimità di talune atmosfere relazionali, quali si producono, specificamente, nel corso di un’analisi“.
Come diretta conseguenza del passaggio di una cometa le macchine (dai cabinati di videogame ai bancomat, passando per camion e coltelli elettrici) impazziscono, e si ribellano agli uomini. Un gruppo di persone si ritrova in una stazione di servizio per provare una disperata fuga.
In due parole. Un classico dell’orrore anni ’80, caratterizzato da una minaccia strisciante e infida che viene fuori dalle macchine, ed è in grado di rivoltarsi violentemente contro l’uomo. King, omaggiando il cinema di genere anni 50 e 60, con Brivido volle simboleggiare la propria inquietudine per l’avvento di una tecnologia in rapido sviluppo in quegli anni, che oggi (peraltro) appare obsoleta: nonostante questo, il film non sembra troppo vecchio rispetto all’età che ha, e presenta vari punti positivi che lo rendono puramente cult (anche se non al top).
Annunciato con scarsa modestia (vedi tagline della locandina) come un masterpiece del terrore diretto da uno dei più grandi scrittori del genere, Brivido si rivela quasi subito, durante la visione, per quello che è: un modesto b-movie che, a seconda dei punti di vista, convince poco o abbastanza – ma diverte, tutto sommato. Anche solo per le situazioni che si vedono, perfettamente riconoscibili per i fan del regista (abituati alla sua scrittura ed agli scenari che descrive): il cinico boss della stazione di servizio, ad esempio, oppure la svampita che lavora ai tavoli, sono senza dubbio tra i più stereotipati.
“Tesoro, se ho ben capito questa macchina mi sta dando dello stronzo” (S. King)
A cominciare dal bancomat che insulta un cliente, passando per coltelli elettrici impazziti, camion con istinti omicidi, flipper che si muovono da soli, ponti mobili che si aprono senza preavviso e distributori di bibite che sputano lattine, con “Brivido” Stephen King tenta la sua prima ed unica esperienza registica, mostrando da subito una capacità fuori da comune di sintetizzare gli stereotipi dell’orrore. Il più grande pregio di un film del genere, del resto, risiede proprio in questa immensa capacità di sintesi, nel suo saper dire qualcosa senza dire nulla di nuovo. E questo si nota soprattutto nelle classiche situazioni e/o scenette tipiche del genere negli anni ’80: l’apparente normalità che aggredisce l’uomo, l’ambientazione in una stazione di servizio, i personaggi tipici – dal cinico alla svampita, passando per il lavoratore sfruttato nonchè deus ex machina – soprattutto i richiami alla situazione di stallo romeriana: tutti i personaggi restano intrappolati in un edificio per via di una minaccia esterna, trend inaugurato da La notte dei morti viventi.
Questo avviene sia dal punto di vista delle sequenze, delle scene e delle svariate situazioni archetipiche per il genere, che da quello di valorizzare un cinema classico che stava per perdere, suo malgrado, numerosi colpi: un equilibrio globale piuttosto raro nel periodo, che potrebbe interessa il pubblico ancora oggi e fa sentire poco l’età del film stesso. Certamente il fatto che l’autore dello script sia uno scrittore di professione e soprattuto coincida con la figura del regista ha fatto sì che l’intera impalcatura potesse reggere in modo dignitoso, anche se (soprattutto se visto oggi) sembra fuoriluogo parlare di un vero e proprio capolavoro.
Certamente si tratta di uno dei tanti classici del genere horror anni ottanta, per quanto non sia troppo raffinato o sanguinolento, e soprattutto nonostante la situazione base ricordi in parte (e con mezzi molto minori, ovviamente) quella vista nella popolare saga di Terminator o Hardware – Metallo letale – nelle quali, pero’, per macchine che si ribellano agli uomini si intendevano cyborg molto fighi.
In definitiva un film per appassionati “raw & wild” o, se preferite, per onanisti dell’orrore. Colonna sonora affidata interamente agli AC/DC, su esplicita richiesta kinghiana.
“Le nove vite di fritz il gatto” è un cartone animato del circuito underground americano risalente al 1974, tratto dal soggetto originale di Robert Crumb e sceneggiato da Ralph Bakshi. Esso rappresenta una violentissima satira polverosa, dura, sessualmente esplicita e piena di volgarità di ogni genere. Insomma il genere di opera che avrebbe prodotto forse solo un Bukowski in particolare stato di ebbrezza, che fulmina le convenzioni della castissima (almeno all’apparenza) società americana, facendosi gioco di chiunque: del governo, del lavoro, della famiglia, del proibizionismo e anche della stessa cultura underground da cui questo prodotto deriva.
In breve: irriverente, politicamente scorretto, scurrile e sovversivo. Come sarebbero i Simpson e South Park, in altri termini, se fossero stati realizzati da Charles Bukowski.
Si tratta a onor del vero del seguito di “Fritz il gatto“, l’opera prima della serie che non ha avuto molto successo qui in Italia, probabilmente per il discutibile doppiaggio di bassa qualità che venne realizzato: in questo episodio le cose vanno decisamente meglio, Fritz esce fuori in tutta la sua grottesca trivialità, sempre impegnato a fregarsene degli stimoli che vorrebbero che facesse una vita normale ed un lavoro ordinario, e preoccupato esclusivamente di tirare a campare godendosela il più possibile su ogni fronte. Per scansare la moglie conformista che sbraita contro di lui, gli rinfaccia la mancanza di responsabilità ed ammette di tradirlo, Fritz inizia a passeggiare per le strade della sua città in solitaria: incontrerà così i più assurdi personaggi che si possano immaginare.
Essendo un gatto, Fritz ha la possibilità di rivivere le ben note “nove vite”, ed è così che nell’ordine si trova in nove pazzeschi mini-episodi che trasudano psichedelia e pulp da ogni poro. Roba che girava nei primi anni 70, che probabilmente dovevano produrre lo stesso effetto provocato oggi dalle puntate più crude di South Park, per intederci.
Fritz incontra un portoricano (Juan), e si reca a casa della sorella di lui, Chita. Dopo averla convinta a fumare, i due iniziano a fare sesso ma vengono scoperti dal padre di lei, che rincorre Fritz armato di fucile il quale salta giù dalla finestra;
successivamente fa amicizia con un ubriacone che afferma di essere dio in persona;
si ritrova a letto con due ragazze tedesche, e successivamente psicoanalizza Hitler in persona. Il dittatore viene rappresentato da un cane con un solo testicolo;
cerca di barattare un preservativo usato per una bottiglia di liquore, per poi scoprire di aver passato la gonorrea alla moglie del droghiere, con cui ha avuto una relazione clandestina;
fa un viaggio nel tempo totalmente psichedelico e sconnesso negli anni 30, ballando il tip-tap;
si rivolge ad un banco dei pegni gestito da un corvo ebreo, con il quale contratta per avere un assegno in cambio di una tazza del water. Alla fine ottiene in alternativa un casco spaziale;
diventa quindi astronauta della NASA, deciso a partire in missione su Marte; durante l’attesa della partenza fa sesso con una reporter, ma alla fine l’astronave esplode nello spazio;
parla con il fantasma del corvo precedentemente ucciso, ed ha una sorta di flash-forward in cui vede che il New Jersey è diventato “New Africa“, ed ospita solo corvi neri. Inviato lì come corriere, viene accusato ingiustamente di aver ucciso il presidente, di aver provocato la guerra tra New Africa e Stati Uniti e, alla fine, viene giustiziato;
alla fine incontra un guru indiano ed il diavolo in persona dentro le fogne di New York, ma la visione viene interrotta dalla moglie che lo sveglia e lo caccia di casa, mentre il gatto afferma “Questa è la peggiore vita che abbia mai avuto“.
2092: Mister Nobody è ufficialmente l’uomo più anziano al mondo. L’attenzione mediatica è talmente concentrata su di lui che decide di raccontare la propria vita ad un giornalista. Racconto che si rivela, pero’, contraddittorio in vari punti, come se il protagonista non sapesse o non volesse scegliere tra fantasie e realtà.
In breve. Una fantascienza in pieno stile Nolan pregna di originalità ed elementi accattivanti. Una forma che tende pero’ a surclassare la sostanza, vagamente autoreferenziale, diluita e didascalica: troppo per urlare al vero e proprio capolavoro.
Terzo lungometraggio di Jaco Van Dormael, regista belga avvezzo allo sperimentalismo ed influenzato apparentemente dai salti spazio-temporali di Nolan – come dalle trovate grottesche di Terry Gilliam, che scrive e dirige Mr. Nobody presentando un universo non lineare composto di possibilità di ogni tipo. L’intreccio racconta, a ritroso o mediante flashback disordinati, la storia della vita di Nemo Nobody, chiaramente nomen omen interpretato da Jared Leto, simbolo dell’uomo in generale e “signor nessun” per eccellenza. Il protagonista è al centro dell’attenzione all’interno di una società futuristica del 2092 , che viene solo accennata (e che non sembra diversa dagli scenari modello Blade Runner o The zero Theorem). La cosa essenziale, che rende il focus della narrazione profondamente umano e fonte di facile identificazione per il pubblico, è che sembrerebbe trattarsi dell’ultimo mortale rimasto sulla terra (mentre il resto della popolazione sembrerebbe composta da androidi semi-immortali).
L’autobiografia di Nemo, tuttavia, è contraddittoria in vari punti, dato che contempla 3 matrimoni diversi, circa 4 modi diversi in cui sarebbe morto ed una serie di problemi da affrontare di ogni ordine e grado (tra cui un probabile disturbo bipolare di una delle consorti). La sliding door principale sembra comunque essere legata al divorzio dei genitori, che lo pongono fin da bambino in una situazione impossibile da dover scegliere: stare con il padre o con la madre, il tutto – forse in modo vagamente didascalico, in una stazione dal nome Choice. Ma l’autentica stranezza è rappresentata dal racconto di più storie in parallelo, dove in ognuna attraversa eventi differenti, si innamora di donne diverse, fa lavori differenti (dal fisico divulgatore al tecnico pulitore di piscine) e sembra, peraltro, “ricordare” o collegarsi alle possibili identità che lo avrebbero caratterizzato. Nemo sembra anche morire più volte durante la storia, per i motivi più vari: per uno scambio di identità, per annegamento, per via di un incidente stradale. In alcune versioni della propria vita Nemo è stato felice, innamorato e appagato lavorativamente, in altre era insoddisfatto e covava rabbia nei confronti della moglie.
Se la storia tende ad indurre un discreto livello di confusione nello spettatore, è possibile quantomeno rimanere ancorati ad una narrazione centralizzata, che è sempre ricollegata ad un protagonista ultra-centenario che racconta, compone, ricombina le storie (e sembra anche divertirsi a farlo), mandando sempre più in crisi il povero giornalista che vorrebbe saperne di più. Sembra di avere a che fare con un mix di ricordi autentici e falsi ricordi del protagonista, tanto più che il tempo trascorso è parecchio, in alcuni frammenti familiarizza con personaggi che non riconoscere in successivi episodi e c’è di mezzo, peraltro, un significativo viaggio su Marte (per fare il quale Nemo si è dovuto ibernare per qualche mese).
Mr. Nobody e i suoi pregi
A livello registico ci sono un paio di cose da osservare: le riprese sono accattivanti, incuriosiscono e catturano lo spettatore – giocando su allusioni, richiami e non detti. È uno stile che cerca, forse un po’ troppo pedissequamente, di imitare quello di Nolan, cosa apprezzabile quanto in parte poco soddisfacente, dato che Van Dormael non sembra disporre della sistematicità e delle “regole” che caratterizzano quei film. Il livello di storie intrecciate è fin troppo fitto, considerando la morale del film che viene affidata ad una celebre citazione di Tennessee Williams, che funziona discretamente, in effetti, un po’ a prescindere da quello che si vede sullo schermo. Se questo depone a favore della grandiosità del messaggio, lascia la vaga sensazione che potesse andar bene anche la storia di Giannino il tecnico del gas, al posto di quella di Nemo fisico, fotografo o operaio addetto alla pulizia delle piscine. Cosa che rimane come considerazione ironica e mera apparenza, dopo aver visto il film, ma che lascia comunque la sensazione di aver visto due ore di film-impossibile zeppo di salti temporali in lungo, in largo ed in diagonale in cui sostanzialmente non puoi capire cosa sia reale e cosa, invece, non lo sia (ancora peggio: sono i personaggi stessi che si interrogano apertamente sull’essere reali o meno!). In ottica spirituale – testimoniata dall’antefatto degli angeli che segnano i bambini “dimenticandosi” di Nemo – sembra quasi che la realtà finisca per non avere alcuna importanza, dato che ogni storia, in fondo, merita di essere raccontata (per carità, nessuno dica una cosa del genere ad un qualsiasi aspirante scrittore).
Non tutto, nel film, funziona davvero
Non mancano alcune banalità altisonanti, per la cronaca (un paio di uova di colombo del tipo: Finché non scegli, tutto è possibile), ma alcuni intermezzi come quello in cui si spiega l’effetto farfalla sono davvero deliziosi. Sono notevoli anche le sequenze simil-lynchiane, come quello di Nemo bambino dentro un teatro, o ancora Nemo adulto che batte a macchina la propria storia intrecciandola con teorie sugli universi paralleli. C’è anche un riferimento al gioco degli scacchi, in cui si applica il concetto desueto di zugzwang, parola tedesca che indica la situazione in cui il giocatore è obbligato a fare una mossa – e qualsiasi mossa farà, dovrà necessariamente subire una perdita o subire uno scacco matto. In genere il film da’ una discreta impressione in positivo per quanto, alla fine, i dubbi restino e sia difficile emettere un giudizio su quello che si è visto, proprio per il gran numero di dettagli e per via del fatto che viene il dubbio, in fondo, se abbia davvero senso razionalizzare quelle storie.
Il messaggio c’è ed è profondo, e suona anche svilente ridurlo ad una rielaborazione didascalica della massima del drammaturgo statunitense (per inciso: “Anything might have been anything else and had as much meaning to it“, che è anche il modo più scontato per trovare una spiegazione coerente di un finale abbastanza criptico, per la verità). Al tempo stesso è altrettanto complesso spiegare meglio ciò che si è visto: si può dire tutto ed il contrario di tutto, e non a caso su Mr Nobody imperversano vari spiegoni che lo rendono, di fatto, uno dei tanti film più discussi che visti.
Il finale di Mr. Nobody
Sul finale è stato scritto parecchio: l’apice della storia coincide con la fine della vita del protagonista, che dimostra (?) di avere doti di preveggenza ma anche un’eccellente memoria, la quale risulta evidentemente viziata da falsi ricordi su ciò che sarebbe stato e su un rimuginio incessante sul proprio passato. La “beffa”, se vogliamo, è che solo una delle linee temporali è quella corretta e nessuno ci dice quale sia, come se il film scaricasse sullo spettatore l’onere di sceglierla – fermo restando che sono considerate tutte egualmente degne di essere state vissute.
La struttura narrativa
Dormael dirige sulla falsariga di film come Inception, presentando i medesimi personaggi che vivono storie differenti e “parallele” tra loro, al tempo stesso sembrerebbero riuscire a comunicare accidentalmente tra un livello e l’altro. In questo senso la scelta di ambientare il tutto nella medesima città (come sembrerebbe) appare un po’ forzosa quanto, probabilmente, necessaria per motivi pratici. Nemo in effetti riconosce un altro se stesso da altre linee temporali in almeno un’occasione, anche se poi la spiegazione effettiva non viene data nemmeno qui – e si opta per un surrealismo che, alla lunga, sa più di esercizio di stile che altro.
Per quanto la formalizzazione di quelle storie rimanga per molti versi piuttosto vaga, comunque, il film suscita una discreta curiosità fin dall’inizio, per poi altalenare tra momenti intensi ed altri francamente poco coinvolgenti, senza contare il diluirsi del lavoro in sotto-sottostorie non sempre significative o pregnanti. In definitiva, un discreto film da riscoprire ancora oggi, a patto di sottostare al più classico dei patti regista-spettatore e non avere la pretesa che ci venga spiegata qualsiasi cosa.
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