Salvatore

  • Vestito per uccidere è la storia di un uomo imprigionato nel corpo di una donna

    Vestito per uccidere è la storia di un uomo imprigionato nel corpo di una donna

    Un killer uccide una donna dentro un ascensore: unica testimone del delitto, una prostituta che si trovava casualmente sul posto…

    In breve. Ottimo thriller di De Palma ispiratissimo ai lavori di Dario Argento, ma a questi livelli è quasi impossibile capire “chi” si sia ispirato a “cosa”: la trilogia argentiana era già uscita da un pezzo, Tenebre sarebbe venuto fuori solo due anni dopo. Un film, per toni e contenuti, decisamente iconico degli anni 80, uno dei migliori del genere.

    Sul finire degli anni 70 Brian De Palma scrisse una sceneggiatura basata su “Cruising” (che significa “trovare partner sessuali casualmente“), un articolo del giornalista Gerald Walker incentrato sulla figura di un serial killer che sceglieva vittime omosessuali. Non riuscendone ad ottenere i diritti, lo script passò al regista William Friedkin che lo diresse nello stesso anno proprio con quel titolo, mentre alcune influenze di quella storia finirono in “Vestito per uccidere“.

    Thriller forte, dai toni erotici marcati (anche se visto oggi, probabilmente, non fa lo stesso effetto) e caratterizzato da una vena tipicamente argentiana: ci sono il killer in impermeabile, il testimone chiave minacciato, il poliziotto-macchietta, l’assassinio in ascensore. Molto di questo film è chiaramente ispirato a Profondo Rosso (uscito cinque anni prima), con la differenza che i suoi toni sono molto più incentrati sulla componente erotica e sulle sue ambiguità, piuttosto che sull’atmosfera malsana. Molteplici riferimenti della storia, e a livello stilistico, rimandano al Fulci de Una lucertola con la pelle di donna, ma anche a Perchè quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? di Carmineo.

    La figura dell’assassino, un “uomo imprigionato nel corpo di una donna“, è una sorta di Norman Bates in forma più esasperata, anch’esso decisamente iconico. Il suo modus operandi prevede semplicemente l’uso di un rasoio, lo stesso che avremmo rivisto infinite volte nel seguito, quantomeno fino alle fantasiose trovate di Saw. A livello stilistico De Palma si ispira ad Hitchcock, specie in certe sequenze “virtuosistiche”: quella in ascensore (col suo indimenticabile gioco di riflessi nello specchio), la sequenza finale nella penombra (mix perfetto di erotismo e tensione), ma soprattutto quella dei due amanti occasionali al museo Metropolitan di New York, che dura ben 9 minuti. Dopo interminabili silenzi, il tutto culmina in un sesso che in Vestito per uccidere perde qualsiasi valenza liberatoria: è puro nichilismo. Il killer, in questo senso, è una sorta di giustiziere-moralista che, come si vedrà, vive per primo dei pesanti conflitti di personalità.

    La narrazione di “Vestito per uccidere” intriga nella sua semplicità: De Palma dirige un ottimo giallo (diremmo quasi all’italiana, se non fosse per l’ambientazione puramente U.S.A.) rinunciando a profili psicologici troppo complessi, dettagli rivelatori improbabili e finali ridicoli. Questo serve a mantenere credibile il livello della storia senza stroncarne l’efficacia e, soprattutto, senza esagerare con l’exploitation: l’unica sequenza davvero brutale, in effetti, è proprio l’assassinio di quella che sembrava la protagonista, mentre resta anche impressa una megalopoli spaventosa nella sua indifferenza (una rappresentazione che ricorda, per certi versi, quella vista in vari polizieschi tipo Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo).

    De Palma, regista ed autore del soggetto, crea di fatto l’equivalente di un thriller erotico all’italiana, un esperimento che riesce e lascia il segno ancora oggi. In “Vestito per uccidere” si respira un’atmosfera puramente ottantiana a cominciare dagli interpreti scelti: un dottore ambiguo, un poliziotto sbrigativo, una prostituta che si rivelerà la vera chiave di volta. In particolare è quest’ultima (interpretata da Nancy Allen, all’epoca moglie del regista) a caratterizzare “Vestito per uccidere” dal punto di vista narrativo e visuale: lontana duecento miglia dalla parte mascolina che l’ha resa più celebre (era l’agente Anne Lewis di Robocop), qui sprigiona la propria sensualità con classe e sicurezza. La “strana coppia” che il suo personaggio crea con il figlio adolescente di Kate Miller, nerd della prima ora deciso a scovare l’identità dell’assassino, rimane impressa nella memoria dello spettatore e colpisce per la sua carica di umanità.

    Come già nei film più espliciti di Argento, anche De Palma venne accusato di aver calcato troppo la mano (più che sulla violenza, ridotta all’essenziale) su sessismo ed erotismo: del resto il film si apre (e si chiude) in un’atmosfera onirica che, probabilmente, non è stata capita da molti. Una sorta di incubo erotico diventato di culto a cui Fulci ed Argento, a dirla tutta, erano già arrivati quasi dieci anni prima. “Vestito per uccidere” è uno dei migliori thriller del periodo a livello mainstream, e merita una visione ancora oggi.

     

  • Manhattan Baby è il terrore lovecraftiano che partiva dall’Egitto

    Susy (Brigitta Boccoli) si trova in Egitto, assieme al padre archeologo ed alla madra giornalista; avvicinata da uno strano personaggio, riceve un ciondolo che si rivela, dopo poco tempo, alquanto pericoloso.

    In breve. Il messaggio di fondo è che certi segreti, come da tradizione lovecraftiana, non andrebbero violati da nessun essere umano. Un horror poco noto del grande terrorista dei generi, con pochi mezzi (effetti speciali molto artigianali) e discreta sostanza: tutto sommato, piuttosto intrigante quanto autenticamente b-movie.

    Ambientazione inizialmente egizia e successivamente – come da titolo – nella famosa città USA al giorni d’oggi: Manhattan Baby di Lucio Fulci, oltre a riprendere l’idea archetipica dell’orrore proveniente da luoghi oscuri ed esotici, si ispira in parte alle idee contenute in due pilastri dell’horror settantiano: “L’Esorcista” di Friedkin ed il “Il Presagio” di Donner. Pur senza la spettacolarizzazione fisica e psicologica di questi due cult movie, l’uso dell’innocente presenza di un ragazzino (in questo caso una ragazzina) come strumento, burattino infido nelle mani del maligno è piuttosto riuscita. Questo nonostante un ritmo rallentato nella metà del film, e degli effetti speciali non esattamente holywoodiani.

    Si tratta di un film che risente ovviamente del periodo in cui è uscito, e che giudicare oggi come datato appare scontato – e in parte secondario – rispetto alle idee sviluppate: il soggetto è affidato a Dardano Sacchetti ed Elisa Briganti, la coppia di artefici di piccoli capolavori di cinema off-limits, quali Zombi 2, Quella villa accanto al cimitero e, naturalmente, la creazione – assieme ad Umberto Lenzi – del personaggio di “Er Monnezza“. Non è un mistero che Sacchetti sia stato enormemente valorizzato da Fulci, e questo si nota in parte – e nonostante una pochezza di mezzi a volte troppo evidente – anche in “Manhattan Baby“, una storia veramente suggestica e con un discreto sottotesto storico abilmente ricostruito. Il celebre finale, poi, che finisce per evocare le fobie de Gli uccelli di Hitchcock, non soltanto lo cita, ma lo rielabora in chiave fulciana: solo il grande maestro romano, infatti, avrebbe potuto mostrare la soggettiva della vittima mentre viene massacrata dai becchi dei volatili, con tutto il cinico realismo che accompagnava molte delle sue sequenze più truci. Un film non indispensabile in mezzo alla sterminata filmografia di Fulci, ma probabilmente uno degli ultimo veri film diretti dal regista.

    Musiche, come sempre di grandissimo livello, a cura di Fabio Frizzi.

    Locandine: imdb.com

     “Le tombe sono dei morti”

  • Faster, pussycat! Kill! Kill!: il Russ Meyer che piace a Tarantino

    Il re dell’eccesso del cinema exploitation ci da’ dentro con donne formose e aggressive, auto in corsa e violenza di strada: Tarantino e Rodriguez applaudono e ringraziano.

    Hai uno strano modo di divertirti…

    Il trio protagonista di “Faster pussycat…” è espressione estrema ed archetipica di sessismo, violenza e cinismo. La spietata Varla (Tura Satana, deceduta a febbraio 2011), la frivola Billie (una Lori Williams da capogiro) e la romantica Rosie (Haji) finito il turno di lavoro sono in giro per il deserto con le proprie auto: incrociata una coppia di giovani, Varla sfida il ragazzo ad una corsa automobilistica.

    Dopo aver perso la gara, il giovane ha una collutazione con la sfidante e viene brutalmente ucciso, mentre la sua fidanzata viene sequestrata. Mentre il trio sta ancora escogitando cosa fare della sopravvissuta incrociano un vecchio misogino da cui si fanno ospitare. Nel frattempo la ragazzina cerca più volte di scappare, e familiarizza con il figlio apparentemente ragionevole del burbero padrone di casa.

    “Tu sei per me una ragazza malata! Ricorda che ero abbastanza sana mezz’ora fa, o la pensi diversamente quando non sei in posizione orizzontale?”

    Russ Meyer sa il fatto suo: gira con maestria, caratterizza con cura anche i personaggi secondari ed accompagna il tutto con un costante tocco di ironia. Probabilmente è un’affermazione scontata, ma bisogna dare atto al regista che, probabilmente in modo inconsapevole, ha gettato le basi di Kill Bill, Grindhouse e Machete, tanto per citare tre cult recenti. “Faster, pussycut” è un b-movie ante-litteram, con tutti i limiti del caso.

    Quindi si tratta di un film intrinsecamente valido, con l’importante rivoluzione dettata da tre ragazze come assolute protagoniste dell’intreccio, quindi decisamente avanti per l’epoca in cui è stato girato, in barba a convenzioni e moralismo. Impossibile non notare la grossa pecca del doppiaggio italiano (secondo me non proprio impeccabile): questo fa perdere un po’ dell’efficacia delle battute delle tre protagoniste, e così – ad esempio – alcune allusioni di tipo sessuale diventano spaventosamente inefficaci.

    Nonostante questo, “Faster, pussycat! Kill! Kill!” è un film da godere e riscoprire: godimento puro per gli occhi di chi apprezza le forme femminili, ma anche per lo spirito pioneristico senza compromessi dei suoi personaggi.

  • La scuola cattolica: l’Italia anni ’70 basata sul romanzo di Albinati

    Settembre 1975, Roma: un gruppo di ragazzi benestanti frequenta una scuola cattolica, in cui ogni insegnamento è erogato alla luce della religione, mentre le contraddizioni non mancano, a nessun livello, e presto esploderanno. Si tratta del contesto in cui emergeranno i fatti tristemente noti della strage del Circeo.

    In breve. Un film tragico e realistico, ispirato a fatti realmente accaduti, che lascia un profondo segno nelle coscienze, tra mille irrisolti e ingiustizie.

    La scuola cattolica racconta una Roma anni ’70 parzialmente atipica, lontana dal contesto generale in cui si muoveva la società dell’epoca ed in cui un delitto, alla fine, sarà commesso quasi come fosse un gioco come un altro.

    Il focus del film dovrebbe coincidere con quello del romanzo di Albinati da cui è tratto, vincitore di un Premio Strega nel 2016. Se la cinematografia di genere ha raramente raccontato la strage del Circeo nella storia, resta vero che si è ispirata a quei fatti a più riprese, ispirando – anche solo a grandi linee – film controversi di fiction come La casa sperduta nel parco o Morituris. Ma il parallelismo finisce lì, perchè sembrano molto diverse le motivazioni: se quei lavori erano (in alcuni casi) finalizzati allo shock dello spettatore e ad una filosofia nichilista,  in questa sede la sofferenza interiore dei personaggi (e la loro violenza malcelata) è frutto del contesto sociale, a cui il regista conferisce grande rilievo. Gran parte del film, infatti, è abile a mostrare contraddizioni innate: padri autoritari che picchiano i figli, una società poco aperta agli scambi con l’esterno, un perbenismo di facciata che si specchia narcisisticamente nella finta sicumera dei giovani protagonisti. Giovani che si ritrovano immersi in un contesto asettico e machistico, che era destinato, in effetti, a lasciare il segno anche sulle generazioni successive.

    Questo vale non solo dal punto di vista della storia narrata (alcuni dettagli di cronaca mancano, come ad esempio il fatto che i ragazzi avessero inizialmente offerto dei soldi alle ragazze per avere del sesso, le stesse abbiano rifiutato e da lì sia degenerato il tutto in violenza), ma anche del contesto in cui si muovono i personaggi: si evidenzia come fosse svolta l’educazione cattolica, come il clima di repressione sociale avesse finito per creare uno strato di polvere sotto il tappeto, impossibile da nascondere ulteriormente, ma anche di come la sessualità – in fondo – finisse per spaventare tutta quella generazione, vedi ad esempio il coming out del padre di uno di quei ragazzi, abbastanza per destabilizzare la serenità familiare. Insomma, regia e sceneggiatura sembrano suggerire che il contesto irreprensibile e benestante non sia stato sufficente a prevenire quei fatti. Il sequestro delle due giovani donne, di cui solo Donatella Colasanti riuscirà a salvarsi (come noto, fingendosi morta), è il picco a cui si perveniene in modo quasi inaspettato, per un film che ha il chiaro intento di porre domande tuttora irrisolte, nonchè oggetto di infiniti dibattiti parlamentari (lo stupro venne considerato reato contro la persona – e non solo contro la morale pubblica – dal 1996 in poi).

    La regia di Mordini è abile a contestualizzare la trama, peraltro, anche dal punto di vista delle uscite cinematografiche dell’epoca: la madre sessualmente repressa è distratta per strada dalla locandina di un film erotico (molto in voga all’epoca), mentre il cinema in cui sarebbero dovuti andare i ragazzi, ad esempio, mostra di sfuggita la locandina di Profondo rosso. Mancano invece riferimenti politici veri e propri, dai movimenti extra-parlamentari alle vicende socio-politiche dell’epoca, scelta forse dettata dal voler sottolineare l’ambiente ovattato in cui quei ragazzi erano cresciuti, oltre ad una mirata critica a quella forma di educazione cattolica. E fa una certa sensazione, forse, che manchino del tutto i riferimenti agli estremismi politici dell’epoca, che condizionarono almeno in parte la cronaca, cosa che il film cita solo di sfuggita (uno dei ragazzi viene ripreso dal professore di italiano per aver svolto un tema elogiativo di Hitler, ed un suo compagno accenna un’invettiva contro il “socialismo” per difenderlo). Resta il dubbio sull’efficacia della scelta, ma al netto di questo il film colpisce nel segno, oltre ad essere vittima di un (abbastanza clamoroso) episodio di censura.

    Il ministro Franceschini, qualche tempo fa (inizio aprile 2021) aveva annunciato l’abolizione della censura cinematografica, considerando pertanto “definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti” (lo stesso meccanismo che aveva colpito il succitato lavoro di Raffaele Picchio, Morituris, oltre a Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco). Di fatto ha l’aria di essere, nella pratica, un’abolizione – che semanticamente implicherebbe la scomparsa in toto del meccanismo – solo formale, perchè alla fine dei conti essa finisce per scaricare la responsabilità della classificazione (attraverso divieti ai minori di 6, 14 o 18 anni) sulla produzione, mentre una Commissione unica composta da varie personalità (tra cui psicologi, pedagogisti e ambientalisti) può confermare la scelta o, al limite, suggerire la propria. Un riassemblamento di regole precedenti, insomma, rivedute e corrette, che forse cambiano meno di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

    Nel caso del film in questione, la Commissione ha ritenuto di vietare La scuola cattolica ai minori di 18 anni, per via della (presunta) equiparazione tra vittime e carnefici proposta dal soggetto. Vale la pena di ricordare che questa motivazione (“Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice […] incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti“) non è troppo diversa dal feeling totalizzante e distruttivo che bocciò Morituris (ben più feroce: “la Commissione ritiene la pellicola un saggio di perversività e sadismo gratuiti“), e fa riflettere che il secondo giudizio, sia pur su un’opera di fiction, abbia addirittura bloccato l’uscita nelle sale dell’opera.

    Nonostante il feeling dei due film sia diverso – il lavoro di Picchio è un horror surreale contenente un climax apocalittico di violenze, che evoca un senso di colpa collettivo, quasi lovecraftiano, sull’intera umanità, quello di Mordini narra fatti reali, mostra una società in crisi, non insiste sulla violenza, la tratta con il giusto equilibrio – qualche riflessione possiamo farla. Nonostante La scuola cattolica non sia un film per bambini, vietare ai minori un film del genere, che tratta di delitti reali avvenuti tra ragazzi giovanissimi, tra cui un minorenne, appare quantomeno paradossale, proprio perchè non sembra esattamente favorire un qualsiasi dibattito in merito, che invece sarebbe stato fondamentale. Il problema di fondo della censura, a questo punto, risiede forse nell’arbitrarietà delle sue scelte, al netto dei cavilli burocratici che la caratterizzano volta per volta, i quali possono sconfinare in giudizi di merito sulla parte artistica. La sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice di cui si parla in quelle motivazioni, a mio parere, è una considerazione arbitraria o discutibile, tutt’altro che assodata: se fosse così, da un certo punto di vista, avremmo assistito ad una shoxploitation cruda, cinica o sessista, cosa che il film si guarda bene dall’essere.  Impedire la visione ai minorenni di un film del genere, come risulta ad oggi, rischia di essere definitivamente fuorviante rispetto alla sostanza dell’opera, spostando inesorabilmente l’attenzione sul dito, per non guardare la luna che stava indicando.

    Di fatto La scuola cattolica è diretto in modo lineare, cupo e con la sensazione costante che qualcosa non quadri, che ci sia qualche scheletro nell’armadio di quelle vite apparentemente irreprensibili, lasciando un monito di profondo vuoto nella coscienza degli spettatori. Gli sguardi fissi di molti personaggi, quasi ad annunciare la loro definitiva degenerazione (e che ricordano quelli dei pazienti psichiatrici, per certi versi), rimarranno impressi nella memoria degli spettatori per molto tempo, evocando un senso di nulla, di mancanza di tutele, di mancanza totale di sensibilità di una società che certe idee di quei gruppi sociali le ha quasi interiorizzate, fuorviata dal benaltrismo imperante. Un vuoto spaventoso che, ancora oggi, non si è colmato, soprattutto sulla falsariga dell’eco della frase finale del film, che cito a memoria: per molto tempo molti genitori si preoccuparono che i propri figli potessero fare lo stesso. Poi, tutto tornò come prima.

  • Non è un paese per vecchi: nella mente di Chigurh (e oltre)

    1980: durante una battuta di caccia Llewelyn Moss si imbatte casualmente in un regolamento di conti tra bande della zona. Mentre si guarda attorno, trova una valigia piena di soldi in contanti…

    In breve. I fratelli Cohen propongono un intreccio quasi alla Tarantino, e lo declinano come un noir snello, accattivante e moderno. Un gran film che riscuote, ancora oggi, il successo che merita, al netto di un finale spiazzante che potrebbe, per varie ragioni, non piacere a tutti.

    In Italia lo abbiamo conosciuto nelle sale nel 2008, e da allora è stato un tripudio di premi vinti: 4 Oscar, come miglior film, migliore regia, miglior attore non protagonista per Javier Bardem e migliore sceneggiatura non originale, più un David di Donatello come miglior film straniero.

    Non è un paese per vecchi – a dispetto del titolo che suggerisce, falsamente, un mood da cinema d’essai – è il noir snello e accattivante che un po’ tutti stavano aspettando, diretto e brutale quanto basta, movimentato e ricco di colpi di scena, senza orpelli o personaggi inutili, per sua natura avulso da riflessioni cripto-intellettuali. In un certo senso è anche curioso osservare come “non è un paese per vecchi” sia una massima ancora valida, ancora più sinistra ed attuale oggi rispetto a 13 anni fa, in tempi di pandemia o post-pandemia che dir si voglia (al momento in cui scrivo non è chiaro di quale delle due sia più lecito parlare). Un film da non confondersi, per la cronaca (lo scrivo per evitare svarioni a cui non sarei stato immune fino a qualche ora fa) con Non è un paese per giovani, che è una commedia italiana decisamente su altri toni, uscita 9 anni dopo questo lavoro.

    Il film dei Cohen ha intrigato soprattutto per la sua linearità di fondo, che non è mai banalità o faciloneria, e che si ammanta di un’eleganza inconfondibile che spesso, in film del genere, latita – specie qualora cedano al trash tipico dei film d’azione modello The guest. Difficilmente un film è riuscito a suscitare più interrogativi e curiosità sul web, peraltro, di “Non è un paese per vecchi“: dalla quantità colossale di aforismi (a volte citati a sproposito, come classico effetto web impone), passando per le curiosità su vari aspetti insoliti della trama – che si ravvisano soprattutto nel twist a circa 20 minuti dalla fine, che spiazza il pubblico per via del suo climax (lo stesso che sarebbe consuetudine, in questi casi) stravolto questa volta in modo imprevedibile, impossibile da raccontare senza fare spoiler. Come se non bastasse, c’è poi un’unica nota concettuale proprio nella sequenza finale, in cui lo sceriffo racconta due sogni che ha appena fatto, che se dicono qualcosa del suo confuso senso di colpa (sul quale si potrebbe scrivere un tomo di psicologia, dato che si tratta la consueta frustazione da poliziotto cinematografico che non può, nè potrà mai avere, il pieno controllo della situazione).

    Il film del 2008 dei Cohen è virato sui toni del noir-western in chiave moderna, in cui si racconta una storia che sarà abbondantemente ripresa anche da film come Hell or high water, film he sembra aver “imparato la lezione” proprio da qui. Se è vero che la bellezza delle cose risiede nella semplicità, del resto, la cosa vale anche per Non è un paese per vecchi, che si avvia su un intrigo simil-tarantiniano: un operaio reduce dal Vietnam si imbatte in un regolamento di conti tra spacciatori finito male. Sembrano tutti morti, tranne un ferito impossibilitato a muoversi, e a quel punto Llewelyn Moss (teoricamente il “buono” della storia, dalle fattezze che evocano curiosamente il Kurt Russell dei tempi d’oro) pensa bene di portarsi via la classica valigia piena di soldi. Sarà l’inizio di una feroce persecuzione da parte dei complici dei criminali, che inizieranno a seguirlo per riprendersi il malloppo, senza contare la polizia che si metterà anch’essa sulle sue traccie avviando una duplice caccia all’uomo (che poi diventerà triplice, dato che anche altri personaggi si metteranno in coda, mossi da rispettivi interessi).

    Se le regole che hai seguito ti hanno portato fino a questo punto, a che servivano quelle regole?

    Non è un paese per vecchi si svolge su almeno tre piani paralleli: il punto di vista dello sceriffo che indaga sul caso, e che propina la massima del titolo (all’inizio infatti lo sentiamo snocciolare, nei suoi ricordi fitti di sensi di colpa, una considerazione sul tasso di violenza attuale che rende, di fatto, gli anziani praticamente inadatti a sopravvivere a determinate circostanze). Abbiamo poi il punto di vista di Moss, immedesimato nella parte della preda in una tesissima caccia da cui, da buon film USA, riesce comunque a destreggiarsi tra armi, fughe e salvataggi in extremis senza complimenti.

    Non poteva mancare – ed è forse quello che impreziosisce di più la pellicola – il punto di vista del cinico Chigurh, il personaggio più spaventoso e profondo del film, tra i più motivati a riprendersi il maltolto, dotato di una singolare crudeltà, tanto da uccidere con modalità che ricordano quelle di un enigmatico villain modello Venerdì 13 o Halloween. Il vero protagonista in effetti è proprio lui, tanto che la vera anomalia – a volerne cercare una ulteriore – è che il film non riporta il suo nome nel titolo. La profondità del personaggio dal punto di vista psichiatrico, peraltro, è confermata da uno studio pubblicato da Business Insider, che colloca Chigurh tra gli psicopatici più realistici mai rappresentati su uno schermo, superiore anche al protagonista di Henry: questo avviene sia per la sua apparente invincibilità (che lo rende simile a Michael Myers) che per la sua freddezza e mancanza di empatìa verso chiunque. Non solo: Chigurh mostra sempre un passo in più rispetto a tutti gli altri, e la sua scaltrezza lo caratterizza in modo profondo e lo rende, teoricamente, una sorta di spettro immortale (tant’è che viene appellato così almeno in un caso).

    La caratterizzazione dei tipi è forte, talmente marcata da restare impressa nella memoria più di qualsiasi altra cosa: il trittico in questione, di fatto, focalizza tre personaggi molto ben delineati, e questo si deve ovviamente alla regia e anche, probabilmente, sulla falsariga del libro da cui è tratto il film, No Country for Old Men di Cormac McCarthy.

    Che poi, a ben vedere, il film troppo mainstream nemmeno è, dato che i registi non risparmiano nulla sugli aspetti più truci, su qualche pennellata di humour nero e sulla mancanza (ovvia, a cominciare dal titolo) di happy end. Senza contare ulteriori aspetti che hanno catturato l’attenzione del pubblico come, per citare un esempio abusato, la singolarità delle armi utilizzate: il fucile a pompa “artigianale” di cui tutti hanno discusso (invenzione dei Cohen), ma soprattutto la pistola ad aria compressa o a proiettile captivo, che è quella che viene utilizzata da Chigurh all’inizio (quella collegata ad una bombola). Piccoli e grandi dettagli, insomma, che riescono in un’impresa titanica rispetto a quello che in ballo: tenere lo spettatore effettivamente incollato alla poltrona fino alla fine, violando addirittura la massima (attribuita a Hitchcock) sul fatto che “la durata di un film dovrebbe essere direttamente proporzionale alla capacità di resistenza della vescica umana“: Non è un paese per vecchi dura un paio d’ore, è ricco di avvolgenti colpi di scena e riesce, soprattutto, a non pesare sulla soglia di attenzione dello spettatore medio, essendo cinema diretto, efficace e privo di fronzoli.

    Sul finale tanto è stato scritto: tanto da sembrare nulla, data l’inevitabile crittografia e messaggi in codice che i critici hanno usato e abusato nella situazione. Il motivo per cui il film ad un certo punto sembra collassare su se stesso suggerisce una forma di marcato nichilismo, a cui i due registi sembrano aderire senza remore. Il tutto nonostante le considerazioni promosse nella trama sul male e l’avidità degli uomini sembrino quasi moralisticheggianti, o addirittura banalotte. C’è da dire, peraltro, che è la figura dello sceriffo a risollevare almeno in parte le sorti della vicenda, la quale si sarebbe potuta chiudere sull’ambiguità o su registri analoghi. La certezza materialistica, di fatto, è che Chigurh uccide, e ciò cede il passo a qualsiasi altra considerazione (almeno in apparenza).

    In realtà alla fine la narrazione viene dirottata su un piano onirico-concettuale: lo sceriffo ammette indirettamente ad un altro personaggio il proprio senso di colpa per episodi del proprio passato finiti male, per i quali non c’è stata giustizia, poi racconta alla moglie di uno strano sogno in cui c’era il padre (morto quasi certamente sul lavoro, da sceriffo, anche lui) che in un caso gli dava dei soldi, in un altro camminava assieme a lui, diretti verso una meta ignota. Come questo si leghi alla storia a cui abbiamo assistito non è dato sapere, ma resta senza dubbio più rilevante di qualsiasi altra considerazione il fatto che l’uomo sembri, grazie alla narrazione catartica che si concede – e sia pur nelle ombre di due sogni che denotano forse il turbamento del proprio inconscio – liberarsi dal fardello del senso di colpa che lo attanagliava da sempre. Questo mi sembra il punto chiave, fermo restando che scomodare altri aspetti significa quasi certamente fare solo illazioni. Il focus dell’intreccio, a quel punto, sembra diventare universale, suggerendo che una possibile consolazione sia proprio nel senso di liberazione dall’impotenza – e forse dal controllo ossessivo-compulsivo tipico delle autorità, che vorrebbero poter prevenire o curare tutti i mali del mondo.

    Motivi validissimo per riprendere ancora oggi visione dell’opera, davvero molto bella (nonostante quel finale innestato quasi “a tradimento” rispetto al ritmo generale del lavoro), che non risente del tempo trascorso e che, se da un lato è forse esagerato considerarla tra le pellicole più belle del secolo, dall’altro va riconosciuta la sua capacità di sintesi e di ispirazioni per molte generazioni di cineasti successive, che da qui avrebbero attinto a piene mani nel seguito. Di sicuro, peraltro, non è un’esagerazione pensarlo come un film su uno dei serial killer più impressionanti mai visti al cinema, in grado di rivaleggiare con qualsiasi altro, ed in grado anche di rendere quel male espressione universale delle angosce che viviamo ogni giorno.

    Disponibile in streaming sulle piattaforme Netflix e Chilli.

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