Salvatore

  • Ai confini della realtà: Da oggi si cambia (“Shatterday”, The Twilight Zone, 1985, W. Craven)

    Ai confini della realtà: Da oggi si cambia (“Shatterday”, The Twilight Zone, 1985, W. Craven)

    Peter Jay Novins, solitario uomo di successo, siede in un bar e chiede di poter fare una telefonata. Compone il numero di casa propria per sbaglio, dove pero’ risponde qualcuno: con sua grande sorpresa, sta parlando al telefono con se stesso. Il suo alter-ego si mostra sprezzante nei suoi confronti, e dopo essersi capacitato che non si tratta di uno scherzo, il protagonista non riuscirà a trovare la forza di fare i conti con il proprio io.

    In breve. Wes Craven dirige Bruce Willis in questo splendido episodio della seconda stagione, che vede protagonista l’attore de “Il Sesto Senso” in un’inedita (ed atipica) doppia interpretazione. In Shatterday (titolo originale che significa approssivativamente “il giorno infranto”).

    Quello che si vede nel seguito è lo smarrimento del protagonista, che si isola progressivamente dal mondo ed un significativo (e toccante) incontro finale tra i due “io”. Willis è stato in grado di reggere un doppio personaggio così complesso per tutta la durata dell’episodio, e già la sua presenza – di fatto – fornisce valore aggiunto allo stesso. Non spreco elogi per il regista di Nightmare perchè mi sembrano superflui: basti anche solo considerare intelligenza, sottile ironia, e perizia con la macchina da presa, che rimangono i tratti salienti di quanto emerge sullo schermo. La situazione paradossale, lungi dal rimanere astratta, si concretizza in una dura lezione morale per l’uomo protagonista e per l’uomo in generale: a volte bisogna dare dei tagli, anche molto dolorosi, ma necessari, perchè questo è lunico modo per evolvere e non fossilizzarsi.

    “Peter Jay Novins, vincitore e vinto al tempo stesso, e la sua lotta per la custodia della sua anima. Un uomo che si è perso, e si è ritrovato… in un campo di battaglia vuoto, da qualche parte nella Zona Oscura”

  • Repulsion: Polanski racconta le ansie della sessuofobia

    Carol è una donna introversa che non sopporta il fidanzato della sorella: il film è un viaggio da incubo nella sua personalità.

    In breve. Il film che ha consacrato Polanski come regista di culto, incentrato su una delle protagoniste thriller forse più formidabili del genere. Da non perdere, nonostante l’età.

    Il secondo film di Polanski dopo Il coltello dell’acqua, girato interamente a Londra e primo film in assoluto prodotto in inglese dal regista (siamo nel 1965). Repulsione si basa su una trovata che oggi troveremmo quasi prevedibile, tanto che è diventata la regola in un certo giallo o thriller, soprattutti quelli devoti al doppio o triplo finale con avvitamento carpiato. All’epoca venne tanto apprezzato da far conoscere Polanski il tutto il mondo, ancor più per la sua successiva capacità di trattare elegantemente qualsiasi tema.

    Le paure di Carol

    Carol (Catherine Deneuve) è un personaggio complesso: in prima istanza è solo una donna introversa, ma scopriremo nello scorrere degli eventi aspetti nascosti legati alla sua personalità. Anche la sua profonda sessuofobia (o androginia) è tutt’altro che incidentale:  sembra dovuta ad un vissuto che la condiziona profondamente, che tutti gli altri personaggi sottovaluteranno o prenderanno sottogamba. Di fatto, Polanski svela gli aspetti della personalità di Carol un pezzo alla volta: la frattura che avverte dentro di sè, nel frattempo, viene letteralmente rappresentata da crepe nei muri e nei pavimenti (che forse, in alcune fasi del film, la donna sta solo immaginando).

    Un film che è diventato emblema

    Se è vero che il linguaggio di Polanski sguazza nella critica – e nelle sue fantasiose o pindariche dissertazioni, è altrettanto vero che la struttura puramente da giallo è un modo per mantere la narrazione ben salda ed ancorata, con vari punti di contatto ad un altro film incentrato su una donna (depressa e traumatizzata anche in quel caso) come la protagonista di Io la conoscevo bene. Le conseguenze saranno diverse, sicuramente, ma la sostanza ed il feeling sembrano molto simili. Se questo film ha fornito un modello di riferimento per molteplici figure e lavori successivi, è impossibile non pensare anche a Madeleine / Frigga, l’anti-eroina muta e bendata raccontata da Bo Arne Vibenius, che è un po’ la figura mitologica, esacerbata tratta dal suo personaggio – tanto che potrebbe considerarsi un archetipo.

    Carol: perchè agisce in quel modo?

    Il personaggio di Carol sembra innocente, timida, insicura o introversa: di fatto, non diversa da una donna comune con cui lo spettatore è portato ad empatizzare. La seconda cosa che rileva, di fatto, è legata al suo profondo rapporto con la sorella, a cui sembra appoggiarsi con abbandono in caso di necessità. Sorella che, a partire dai capelli scuri, è molto diversa da lei: tant’è che frequenta un uomo sposato, esasperando una sorta di insano paragone con lei e, di conseguenza, esasperando il suo conflitto interiore. I dialoghi con la stessa sono sempre significativi: il tono monocorde, assente, evitante e sempre più inquietante di Carol suggeriscono ulteriori indizi per la ricostruzione della sua personalità. Il senso del paradosso indotto dalla sceneggiatura è molteplice, e si esplica soprattutto nel fatto che, nonostante tutto, lo spettatore simpatizza comunque con la protagonista, nonostante l’efferatezza del suo comportamento e la sua chiusura aprioristica al mondo maschile.

    È anche significativo che il personaggio forse più irritante del film (Michael), con i suoi modi burberi e sgradevoli nei confronti delle donne, sia anche l’unico a dire una cosa involontariamente saggia (cioè che Carol dovrebbe vedere un dottore). Che cosa renda pensierosa e incomprensibile Carol, del resto, non è chiaro: sembra vivere nel passato, come visibile dal fatto che guarda in modo interrogativo varie foto di famiglia. Il suo evidente fastidio nel sentire i rumori di più amplessi, nella stanza a fianco, tende ad amplificare il conflitto con la sorella maggiore. Ad un certo punto, Carol fa anche sparire alcuni oggetti personali di Michael, quasi a volersi disfare simbolicamente di lui. Il suo primo appuntamento con Colin, accettato tra mille indecisioni, finisce con un disastro: dopo il primo bacio non può fare altro se non correre via a lavarsi i denti.

    Diventa sempre più evidente la presenza di un uomo (o più di uno, forse) che l’abbiano traumatizzata in passato, e Polaski continua inesorabile il suo racconto con una camera gelida, spesso grandangolare o distorta, quasi fosse il racconto distaccato di uno psichiatra. Sullo sfondo, vediamo un coniglio in putrefazione che svolge il medesimo ruolo del cadavere in Der Todesking: è la personalità di Carol che marcisce, giorno dopo giorno, in un oceano di incomprensione da e verso il mondo esterno.  A completare il dramma, Helen parte per un viaggio a Pisa con il suo uomo, lasciandola sola coi suoi tormenti e, poco dopo, con delle orribili allucinazioni. A questo punto, Polanski vira sul linguaggio del thriller per rappresentare meglio lo stato d’animo della protagonista. E mai scelta avrebbe potuto essere più adeguata: Carol, da donna avvenente quanto riservata, inizia ad essere convinta di aver visto un uomo minaccioso in casa sua, il villain dei suoi incubi sessuofobici. I tormenti interiori della protagonista diventano sempre più allucinati e spaventosi, fino a farle perdere il posto di lavoro.

    L’incubo ripetuto dello stupro – con una figura oscura al suo cardine, a cui sembrano mancare solo occhiali scuri, guanti, impermeabile e cappello nero – è accompagnato dal macabro ticchettìo di un orologio, ed è intensa e rapidissima, interrotta regolarmente dal suono di un telefono. Sembra di trovarsi in una sequenza alla Dario Argento: sempre più cupa e assente, Carol è destinata a trasformarsi in un killer, primariamente contro chi ama o vorrebbe possederla. Il primo omicidio, ad esempio, è strutturato in maniera magistrale: il suo innamorato si è introdotto sfondando la porta di casa, visto che non riusciva più sentirla. La porta rimane aperta, ed il vicino di casa (uscito in quel preciso istante) osserva la scena, in secondo piano. Non appena Colin la richiude per una maggiore privacy, Carol (con un candelabro in mano, già dall’inizio) lo colpisce ripetutamente: un omicidio calcolato quanto hitchcockiano, oserei scrivere, che delinea la follia androgina in cui è precipitata. C’è anche spazio per una rapida componente horror, che vediamo nella sequenza (anch’essa magistrale) in cui Carol si aggira nel corridoio, fuori di sè, con le mani di vari uomini che fuoriescono dal muro.

    Spiegazione del finale

    Diversamente dalla tradizione di Hitchcock e di altri registi che, classicamente, alla fine fornivano una spiegazione razionale agli eventi, Polanski si limita ad inquadrare una vecchia fotografia di Carol da ragazzina, algida come sempre e altrettanto spaventata, assieme ad un anziano familiare (che potrebbe essere il padre, lo zio o il nonno). È chiaro che, neanche troppo velatamente, il regista voglia alludere ad un caso di molestie da parte dell’uomo, probabilmente mai venute a galla, che hanno sedimentato per anni dentro di lei. Questa è l’interpretazione che sembra più plausibile, e che certa critica ha rilevato come sostanziale difetto (ma una spiegazione esplicita avrebbe anche rischiato di risultare inutilmente didascalica).

    La suggestione è ciò che conta, il dubbio rimane ed il finale, in cui si chiude il cerchio, molte domande restano senza risposta.

  • Scappa – Get out: l’horror anti-razzista del nuovo millennio

    Chris e Rose sono fidanzati da pochi mesi: lui è un aspirante fotografo afroamericano, lei una classica ragazza da college. I due decidono di trascorrere un fine settimana a casa dei genitori di lei: all’inizio sembrano simpatici, cordiali e (figuriamoci) non razzisti. La madre, in particolare, sostiene di poter curare il vizio del fumo del ragazzo ricorrendo all’ipnosi.

    In breve. Un saggio horror sul razzismo e le annesse implicazioni sociali odierne, con richiami ai grandi titoli del passato (da Society a La casa nera). Imperdibile.

    Girato in soli 23 giorni e, per quanto ne sappiamo, senza particolari pressioni produttive (è l’opera prima di Jordan Peele, che poi consacrerà la propria fama con il successivo Us), Get out si apre sulla falsariga di Halloween di John Carpenter, una gigantesca citazione al classico slasher (tanto che, secondo il regista, Michael Myers rappresenterebbe “il perfetto vicino di casa bianco“).

    Il soggetto è stato scritto da Peele stesso, che scrive una storia con alcuni punti in comune con Il fu signor Elvesham (un racconto di H. G. Wells del 1896, che è stato anche girato come episodio di una serie TV su Sky Arte). Nel farlo, il regista cristallizza alcuni punti di riferimento del cinema che ama – a cominciare da La notte dei morti viventi – e rielabora una storia che presenta una componente originale (l’uso massivo dell’ipnosi, una pratica da horror sovrannaturale in un film che più materialistico non si può) per un film che, in altri tempi, sarebbe stata pura exploitation. Varrebbe la pena di ricordare anche La casa nera, uno degli horror più sociali e meno citati di Wes Craven, con il quale ci sono vari punti di contatto dentro Get out.

    Scappa – Get out per inciso non è uno slasher – o almeno non lo è nella sua definizione canonica: è più un mix di generi che vanno dalle home invasion ai thriller più psicologici, senza dimenticare le lezioni degli horror più prettamente politici di Yuzna, Romero e Carpenter. In particolare si parla di razzismo, un male radicato nella società (non solo) americana, e che viene rappresentato grottescamente all’interno di salotti di lusso, giardini curatissimi, bianchi raffinati e apparentemente impeccabili ed una nota anomala, ovvero personaggi afro-americani vestiti come i personaggi di metà ottocento de La capanna dello zio Tom. A questo si aggiunge una progressiva invasività dei personaggi, che incrementa il disagio del protagonista e lo fa diventare una sorta di Billy attualizzato (l’indimenticabile horror di Yuzna Society).

    Scappa – Get out (un titolo che, per certi versi, potrebbe quasi fuorviare e far pensare ad una commedia pura, per quanto Peele lo abbia scelto come titolo per citare una frase abusata in qualsiasi horror) risulta un film moderno ed efficace, mai appesantito e mai didascalico – difetto comune, quest’ultimo, in questo sottogenere. Un genere che Peele reinventa quasi da zero, disseminando tra una scena inquietante e l’altra alcuni gustosi siparietti umoristici (black humour, in tutti i sensi) con personaggi sempre molto teatrali e caratterizzati. E senza polarizzare le posizioni, soprattutto, dato che i classici poliziotti insulsi che non credono alla storia denunciata dall’amico del protagonista sono, volutamente, tutti di colore. Un film, peraltro, molto equilibrato dal punto di vista visuale, contraddicendo la tendenza moderna di caricare la violenza fino all’estremo, con risultati spesso fuori target (penso ad esempio a Frontiers).

    Il film è del 2017, ed è stato scritto durante la prima presidenza di Barack Obama, periodo in cui sembrava che il razzismo fosse un qualcosa del passato – cosa poi tragicamente smentita dalle cronache recenti annesse al Black Lives Matter. La scena in cui il protagonista precipita nell’oblio, peraltro, nel Sunken Place (traducibile più o meno come il “luogo profondo”), è stata tanto toccante da scrivere che, per quanto dice lo stesso Peele, avrebbe pianto dopo averla riletta (ed è probabilmente il motivo “tecnico” per cui lo fa Chris). La spiegazione del Sunken Place resta forse poco ovvia e vale la pena spenderci due parole: è la dimensione in cui la voce black non viene ascoltata, nonostante ogni vittima urli la propria disperazione, ed è anche lo status in cui la società tutta è ormai diventata sorda al problema. Vale la pena citare la definizione fornita dall’Urban Dictionary, che recita più o meno “quando si vive in un totale stato di sonnolenza, soprattutto a riguardo ad una sistematica avversione nei confronti verso le ingiustizie razziali“. La rappresentazione di questa zona oscura è raggelante (quanto vagamente artigianale), e funziona alla grande: guardiamo attraverso gli occhi del protagonista, e lo vediamo precipitare nel vuoto dell’universo mentre la realtà, impressa su uno schermo TV, si allontana sempre di più.

    Chris e Rose, poi, sembrano la coppia perfetta: assertivo e mite lui, mentalmente aperta e dolce lei. Sembra il quadretto perfetto che prefigura la classica commedia leggera americana, a cominciare dai presupposti e dalle piccole gelosie che ne derivano. La Williams, in particolare, è tanto convincente da risultare archetipica (un personaggio che sembra tratto da un qualsiasi slasher che contrapponga giovani del college e villain di turno). Il disagio del ragazzo, comunque, già prevenuto di suo, si accentua una volta a casa di lei, dove scopre che i discorsi della famiglia di lei sono sempre più impertinenti e razzisti e che, soprattutti, tutti coloro che hanno il colore della pelle uguale al suo sembrano imbabolati e inermi. Peele gioca più volte la carta della sorpresa narrativa, rivolgendo un clamoroso messaggio anti-razzista rivolto a risvegliare le coscienze, a non addormentarsi e a non farsi condizionare dall’andazzo conformistico generale. lo stesso andazzo che dibatte di razzismo nei salotti radical chic, per poi arrivare a sminuire o negare il problema, alla meglio banalizzarlo e ricordurlo a forme di complottismo, vittimismo o paranoia.

    Peele suggerisce – e con Us finirà per ribadirlo – che il problema è tutt’altro che risolto, e che deve essere affrontato da tutti con grande coraggio (c’è una citazione abbastanza clamorosa durante la fuga di Chris: dentro l’auto che sta usando per scappare, infatti, trova un misterioso elmo medievale che, a quanto suggerisce IMDB, si ricondurrebbe alla frangia dei White Knights of the Ku Klux Klan). Peele dirige un gran film ricorrendo ad uno dei genere più flessibili e controversi per lanciare un messaggio del genere (l’horror), con buone idee, grande cultura cinematografica e una trama disseminata di twist sconvolgenti.

  • La crisi esistenziale durante i controlli alla dogana

    Episodio: Man’s Crisis of Identity in the Latter Half of the 20th Century 1.5 (“Monty Python”, 1969)

    Il quinto episodio della prima serie del Flying Circus va in onda il 16 novembre 1969, registrato nel mese di ottobre dello stesso anno; la novità di questo episodio è legata all’essere stato il primo trasmesso a colori.

    Si configura fin da subito come un episodio fortemente virato sull’assurdo, a cominciare dal classico “Confuse-a-Cat“, nel quale due coniugi (uno interpretato da Terry Jones) chiamano un veterinario per via del proprio gatto, in preda ad una sorta di inedia esistenziale. E quale migliore soluzione per uscire dalla depressione che sottoporlo al trattamento “confuse a cat“? I Python allestiscono un palco nel giardino, guidati da un colonnello che ne seguirà le operazioni, e si esibiscono in uno spettacolo teatrale delirante – in cui personaggi, vestiti, cappelli e bidoni della spazzatura appaiono e scompaiono in continuazione. Il gatto sarà debitamente confuso dalla situazione e tornerà a comportarsi da ordinario animale domestico.

    Segue “The Smuggler“, il celebre sketch della dogana, in cui ancora una volta domina il meccanismo dell’inversione dei criteri di valutazione: un contrabbandiere piuttosto confuso non viene fermato dall’addetto ai controlli, mentre non tocca la stessa sorte ad un innocuo prete. A Duck, a Cat and a Lizard (discussion) è, di suo, un piccolo capolavoro del surreale: un micro talk show in cui il conduttore chiama a discutere di importanti temi tre animali di gomma (un papero, un gatto ed una lucertola), utilizzando uno standard che diventerà molto ricorrente anche in scenette successive. È la volta di Vox Pops on Smuggling, cioè interviste alla gente comune sui problemi doganali, su cui quasi nessuno riesce a dire qualcosa di sensato (si segnala un John Cleese versione Gumby, stereotipo dello scozzese delle Isole Shetland, dal limitato vocabolario e capacità mentali, qui alla sua prima apparizione).

    Stessa falsariga che manterrà, poco dopo, il piccolo frammento Letters and Vox Pops dedicato alle ipotetiche lettere degli spettatori sull’argomento. Police Raid è un simpatico sketch dallo stile tipicamente english, in cui un poliziotto fa irruzione in un locale alla ricerca di sostanze stupefacenti, per poi tirare fuori un sandwich dalla tasca ed incolpare (presumibilmente) qualcuno dei presenti. Newsreader Arrested, poi, è una delle migliori parti dell’episodio: durante la lettura di un fatto di cronaca, viene mostrata la foto del presunto colpevole che non è altri se non il giornalista che sta leggendo la notizia (che poi viene arrestato in diretta). Erotic Film insiste su una scena erotica per diversi secondi, e si segnala per una tecnica che renderà celebre un film come “Una pallottola spuntata“: al posto di mostrare una scena di sesso, viene riportato un montaggio di scene – torri che si sollevano, mare in tempesta, aerei che atterrano disastrosamente – fortemente allusive (ma in questo caso, infine, un colpo di scena meta-cinematografico sembra suggerire che siano gli spettatori ad aver pensato male).

    Silly Job Interview è uno dei capolavori dei Monty Python: un colloquio di lavoro in cui le domande poste al candidato sono illogiche, tendono a metterlo a disagio e lo portano volutamente a degenerare e litigare con gli altri. Visto oggi, fa probabilmente ancora più ridere che all’epoca, per via della sua potente carica destabilizzante, a mio avviso rimasta intatta fino ad oggi. Sempre in tema lavorativo, lo straniante Careers Advisory Board e Burglar/Encyclopedia Salesman ci mostrano infine un venditore di enciclopedia che entra in casa di una signora, fingendosi… ladro.

    Ancora una volta un episodio assolutamente superiore alla media, sia come idee che come ritmo.

    Le 45 puntate del Flying Circus sono disponibili, in inglese sottotitolato in italiano, all’interno di un bel cofanetto in 7 DVD, che trovate facilmente su Amazon: Monty Python’s – Flying circus (complete series).

  • Corti di fantascienza degni di nota: “Pathos” (2009, Dennis Cabella, Marcello Ercole, Fabio Prati)

    In un futuro post apocalittico la Terra è un deserto inospitale e sommerso di spazzatura: gli uomini vivono in squallide stanze chiuse, nelle quali pagano mediante carta di credito anche per sognare…

    In breve. Corto “mordi e fuggi” all’italiana, che cita apertamente il tema distopico alla Verhoeven, si fa contaminare sia da “The cube” che da “Matrix”, ha certamente considerato la crudeltà di qualche post-apocalittico cult (pur senza svilupparla, di fatto) ed esce fuori in assoluta autonomia, senza poter essere tacciato di citazionismo o scopiazzatura.

    Mentre viviamo, il Grande Fratello ci osserva, e ci suggerisce come vivere, come pensare e cosa sognare: i cinque sensi non sono più gratuiti, nel futuro esiste un vero e proprio abbonamento da rinnovare. Chi ritarda per qualsiasi motivo l’abbonamento periodico, si ritroverà a perderne l’uso. Film forse troppo breve (a volergli trovare un difetto) e sostanzialmente privo di un vero e proprio intreccio (ma questo, in fondo, non è un problema): forse avrebbe potuto essere maggiormente arricchito da dettagli di vario tipo, caratterizzazioni dei personaggi, interazioni.

    Probabilmente il tutto, confinato tra inquietanti schermi televisivi alla Videodrome e squallide stanze semi-vuote, finisce per accentuare il senso di isolamento degli individui e, in tal senso, è una mossa molto azzeccata. Inquadrature e fotografia cyberpunk da brivido: un ottimo prodotto, in definitiva, per chi ama l’essenzialità e la fantascienza classico-complottistica.

    L’interpretazione di Fabio Prati, vittima della macchina “pathos”, è davvero convincente ed intensa, e merita certamente una citazione finale.

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