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  • Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    All’interno di una Los Angeles distopica nell’anno 2019, la tecnologia ha consentito di creare i “replicanti”, androidi o robot fortemente umanizzati, utilizzati per servire gli esseri umani e esteticamente non distinguibili da questi ultimi. Sei di essi, particolarmente evoluti e dotati di possente forza fisica, sono fuggiti dalle colonie extramondo e cercano di introdursi nella Tyrell Corporation, la fabbrica che li produce. Il poliziotto Deckard è sulle loro tracce.

    In breve. Suggestivo, sempre straordinario da rivedere e ricco di spunti, suggestioni onirico-futuristiche ed affascinanti ambiguità, mai veramente sciolte e oggetto di infinite fan theory. Chi sono gli umani, chi gli androidi? Quale valore assumono i ricordi nella vita dell’uomo? Forse, senza timore di esagerare, uno dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi assieme a Brazil.

    Scrivere oggi di “Blade Runner“, indimenticabile capolavoro (che potremmo definire proto-cyberpunk) girato da Ridley Scott, rischia di ricadere inevitabilmente nella sterile ripetizione di concetti, idee e visioni futuristiche che hanno formato buona parte del cinema di fantascienza “colta”.

    L’analisi, che non può – in casi del genere – essere approssimativa in alcun modo, dovrebbe comunque basarsi su una duplice considerazione. Se da un lato infatti questo film ha stilato dei veri e propri canoni stilistici all’interno del cinema di fantascienza, dall’altro – senza nulla togliere a regia ed interpretazioni – è in effetti la storia di Philip Dick da cui è tratta ad avere gran parte della responsabilità del successo della pellicola. “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (1968) poneva, in anticipo sui tempi, una tematica estremamente intrigante: se è umano amare, proteggere e relazionarsi con altri simili, cosa implica uccidere un androide che, in preda ad una “presa di coscienza” progressiva, si senta “vivo”?

    Bisogna rispondere a questa domanda formulandone molte altre, e questo potrebbe non piacere a chi concepisce la fantascienza in modo più orientato verso l’azione pura che altro. Il film possiede dunque la capacità di far immedesimare grandi fette di pubblico, e questo sia nella coscienza per così dire “organica” di alcuni protagonisti che in quella “artificiale” dei replicanti, rendono impossibile la chiarificazione definitiva dei ruoli di ognuno – è quasi certo che Deckard sia un replicante (forse…), e rimane vivido il fascino di lasciare questo interrogativo “appeso” fino all’estremo.

    Se si guarda Blade runner oggi, peraltro, va fatta una certa attenzione a procurarsi la director’s cut: la versione voluta dal regista con il finale ambiguo, mille volte più poetico e intrigante di quanto non sia la versione imposta dalla produzione, che forza fantozzianamente un happy end che, visto oggi, convince meno della metà del pubblico a cui era teoricamente rivolto. Il punto merita una breve digressione tanto per capirne il grottesco: dopo averci raccontato per quasi due ore che gli androidi vivono solo per pochi anni, tanto che sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa pur di diventare immortali (vedi la caccia al loro creatore, che vanno a stanare direttamente a casa per farsi rivelare il segreto della vita eterna), quel finale scellerato (che è lo stesso che potete vedere nella versione Amazon Video, per inciso) afferma, mediante un improbabile solipsismo di Deckard, che Rachael in realtà non era programmata per morire dopo quattro anni e che dovremmo goderci la vita, demolendo la simbologia fondamentale degli origami (l’unicorno e via dicendo) e di conseguenza, a nostro modesto avviso, uno dei capolavori del genere, rendendolo incoerente prima che melenso.

    Una scelta che risulta ancora peggio oggi, e per cui uno dovrebbe scusarsi con il cast a cominciare dal compianto Rutger Oelsen Hauer, scomparso giusto nel 2019 (per una macabra coincidenza, verrebbe da scrivere, tra la scomparsa del suo personaggio e dell’attore) e qui artefice di una delle sue interpretazioni più iconiche di ogni tempo. Il suo personaggio è un androide diventato dolorosamente consapevole di sè, in un processo psicologico di rinnovamento e ricerca del senso della vita che mai gli ingegneri genetici avrebbero potuto prevedere. E anche oggi, per restare sul pezzo, l’eco di Blade Runner risuona sinistramente nelle nostre coscienze, mentre rabbrividiamo nello scoprire che certe profezie del film si sono quasi avverate (i robot umanoidi sono una realtà, e riusciamo a creare video deepfake talmente realistici da ingannare anche i più esperti).

    In fondo il tratto distintivo di questo cult – uno dei film che possiede ben 7 cut differenti, tra Director’s, International e Final – è rappresentato essenzialmente dalla profondità dei topic che tira in ballo: questo è visibile non soltanto all’interno di ambientazioni metropolitane gigantesche e tutt’altro che a misura d’uomo, ma anche per via delle tematiche esistenzialiste che sono inserite nell’intreccio. È interessante la chiave visiva scelta da Ridley Scott, pure, che affianca al futurismo classico delle automobili che possono volare – il film è del 1982, ed è ambientato nel 2019 – il degrado dei bassifondi delle città, in cui troverai un ambiente fumoso, personaggi ambivalenti e poliziotti intenti a mangiare sushi. Una scelta che, anch’essa, è diventata profondamente iconica.

    https://www.youtube.com/watch?v=Wo3HpcRJxUg

    I replicanti, del resto – umanoidi che assumono le precise fattezze di esseri umani – non soltanto possono pensare, agire e vivere per quattro anni, ma si trasformano in autentici “oggetti” sia multimediali che biologici. È questa loro duplice natura che li rende i veri elementi tragici della storia, e ciò è visibile soprattutto nel momento in cui iniziano a porsi delle domande, a crescere mentalmente, ad interrogarsi sul presente. Oggetti, dunque, che sono consapevoli di esserlo e che sviluppano autonomamente sofferenza, disgusto e – di rabbioso controbalzo – desiderio di diventare immortali. Cosa ci sarà dato fare nell’arco della nostra breve vita? Ha davvero importanza se i ricordi ci sono stati impiantati artificialmente oppure sono frammenti di vita vissuta?

    La complessa simbologia scomodata da “Blade Runner“, di cui i celebri origami di Gaff sono soltanto la punta dell’iceberg, pone domande per il nuovo millennio che meriterebbero risposte fin troppo articolate. Risposte che si possono provare a cercare vedendolo ancora una volta, senza esitazioni.

    Per finire, un tutorial per emulare Gaff, e fare un origami a forma di unicorno.

  • Paura 3D: sarebbe stato ugualmente bello anche senza 3D

    Tre giovani della periferia romana si intrufolano nella villa di un ricco marchese: sarà l’inizio di un incubo …

    In breve. Il cinema horror italiano non è solo trash e arte di arrangiarsi, come certa editorìa prova a farci credere: è vivo e vegeto anche nel 2012 – e i Manetti Bros. ne danno una prova concreta al pubblico. Senza strafare, senza ammorbare il pubblico con citazioni inutili e mantenendo un vivido realismo permeato di nichilismo sociale ed etico. Un piccolo grande film, in bilico tra il primo Craven ed i fasti dei thriller-pulp del passato, strizzando l’occhio al più attuale Eli Roth: “Paura” passerà probabilmente inosservato – neanche fosse un polpettone posticcio come tanti, ma è in realtà da procurarsi e visionare ad ogni costo.

    Antonio e Marco Manetti ridefiniscono, a partire da un titolo secco quanto espressivo nella sua semplicità (ma il titolo originale era un più evocativo “L’ombra dell’orco“) nuovi canoni nel cinema di genere all’italiana: quello che solitamente fa rabbrividire la critica e parte del pubblico prettamente horror, mentre questi finiscono per non apprezzare l’eccessiva artigianalità del risultato. Non è il caso dei due registi in questione: impostano una storia efficace quanto scarna, con mezzi di tutto rispetto e nella quale i personaggi sono poco approfonditi e non c’è spazio per buonismo o messaggi rassicuranti. Esce così fuori in tutta la sua interessa una sorta di “anima nera”, che si esprime in una crudeltà – degna di un exploitation settantiano – insita nei personaggi e, di fatto, nella storia in sè. Dalla crudeltà del quotidiano a quella reale, fisica, della sofferenza inflitta da un carceriere contro le proprie vittime: e se state pensando a Hostel ed alle saghe revenge-movie, siete sulla giusta strada. Il dolore umano diventa, come spesso in questi scenari, condizione necessaria per la sopravvivenza stessa del genere e, guarda caso, anche dei protagonisti stessi. Una crudeltà cinica, senza speranza e senza redenzione, che finisce per richiamare un’atmosfera malsana vista a livelli sostanzialmente simili (qui meno splatter) qualche anno fa nel notevole “Il bosco fuori”.

    Siamo nella Roma di oggi: un gruppo di giovani di estrazione sociale differenti (e con ambizioni altrettanto diverse) vive le proprie giornate immerso nella noia di quartiere, senza la speranza di riuscire a trovare uno sbocco, una via d’uscita per emergere. Un giorno uno di loro, meccanico di professione, prende in “prestito” la macchina di un facoltoso marchese della zona, il quale è partito per un lungo viaggio nel fine settimana ed ha lasciato inavvertitamente le chiavi della propria villa nel cruscotto. La tentazione di visitare la lussuosa abitazione, temporaneamente vuota, è fin troppo forte, tanto che i giovani passano ad organizzare un bel party; evocando la villa accanto al cimitero di fulciana memoria, e richiamando alla memoria pellicole cult del passato, è a questo punto che esce fuori un’inquietante presenza che sembra aleggiare in cantina. “Paura” va diritto al sodo, e non si perde in citazioni che, per una volta, sarebbero sembrate superflue o di poco conto: poca teoria, molta pratica e – come diretta conseguenza – tanta azione, violenza, gore e cinismo. Le scene clou del film, per quanto possano risultare parzialmente già viste (in fondo il cinema di genere rielabora stereotipi da decenni), rimarranno profondamente impresse nella memoria dello spettatore: basti citare le sole scene di tortura, vagamente “torture porn” e neanche troppo insostenibili,a parte l’agghiacciante scena della rasatura, sottolineata da una ferocissima colonna sonora black metal (!). E se questo sembra di poco conto (e non lo è), i Manetti Bros. non soltanto recuperano pesantemente la fisicità che gli horror mainstream hanno parzialmente smarrito, ma la coniugano in un innesto di accadimenti vorticosi che trova il proprio zenit nei minuti finali.

    Momenti che restituiscono un senso alla stereotipata “paura del buio”, lasciandola sempre reale e mai rarefatta, a livelli talmente pregevoli che forse solo nel finale di [REC]. Roba che farà sospettare un nostalgismo revival da altri tempi (naturalmente gli anni 80, questi maledetti/benedetti…), ma la pellicola è tutt’altro che monotematica e non mancano spunti musicali di altro genere: Colle Der Fomento, Death SS, Sadist e The Wisdoom tanto per fare alcuni nomi. Un film che non si ferma agli stereotipi, quindi, e punta dritto alla sostanza, modellando una pregevole forma esaltatabile eventualmente da un suggestivo (ma non indispensabile, a ben vedere) 3D.

  • The imitation game è il film su Alan Turing che appassiona e commuove ancora oggi

    Alan Turing tenta di decifrare il funzionamento della macchina crittografica tedesca Enigma, con l’aiuto di un team di altri matematici. “The Imitation Game” è un film del 2014 che racconta la storia di Alan Turing, un matematico britannico che ha svolto un ruolo fondamentale nella decrittazione del codice Enigma tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

    In breve. La vera storia (sia pur romanzata, per certi tratti) del crittografo e matematico Alan Turing, considerato il padre putativo dell’informatica, e le cui speculazioni avvenieristiche sulla omonima “macchina” sopravvivono ancora oggi alla prova del tempo. Grazie al suo lavoro, il dispositivo elettromeccanico Enigma usato dai nazisti venne decifrato, impedendo di fatto il prolungamento della seconda guerra mondiale. Quale grottesco paradosso e tragico contrappasso, Turing venne condannato per omosessualità dal proprio governo, finendo suicida i propri giorni.

    Alan Turing, classe 1912, considerato uno dei padri dell’informatica nonchè matematico e crittografo tra i più celebri di ogni tempo: grazie ai suoi studi pioneristici sulla decifratura della macchina Enigma (un dispositivo elettromeccanico usato dai nazisti per trasmettere e ricevere messaggi) fu possibile anticipare la chiusura della seconda guerra mondiale. Non solo: la sua macchina di Turing, uno splendido quanto inossidabile modello teorico di dispositivo informatico, un archetipo su cui si può risolvere un problema di decisione di Hilbert e su cui, alla lunga, hanno finito per basarsi gli algoritmi che tutti conosciamo ed utilizziamo.

    All’epoca in cui è ambientato il film (che è un biopic in cui meno la metà degli avvenimenti – precisamente il 42,3% – è realmente accaduto, come studiato accuratamente dal sito informationisbeatiful.net), la parola ‘computer’ era un aggettivo riferibile ad una persona, non un dispositivo univoco come sarebbe avvenuto soltanto anni dopo. Alan Turing viene mostrato come personalità complessa e sensibile, appassionato del proprio lavoro oltre che runner ostinato (fatto storicamente accreditato, tanto che riuscì a correre una maratona nel 1946 in sole 2 ore, 46 minuti e 3 secondi). L’interpretazione del protagonista (Benedict Cumberbatch) fu talmente intensa, del resto, nel riprodurre una realtà storica in cui lo scienziato venne prima incensato e poi condannato per omosessualità e probabilmente indotto al suicidio, che l’attore che lo interpretò ammise, a fine delle riprese, di aver avuto una sorta di burnout. Peraltro le responsabilità politiche dell’epoca furono considerevoli nei termini di questa assurda condanna, che portò ad una riabilitazione e una grazia postuma solo nel 2013 non prima di averne ufficializzato la natura omofobica.

    L’unica persona che dovrebbe perdonare qualcuno è proprio Turing. Spero che il film possa portare alla luce quanto straordinario sia stato come persona, e quanto sia stato spaventosamente trattato dal governo dell’epoca. È stata una pagina vergognosa della nostra storia (Benedict Cumberbatch)

    The imitation game è diretto da una regia solida ed efficace (il norvegese Morten Tyldum), ruotando sul ruolo del protagonista mentre lavora in team (molto prima, in effetti, che farlo diventasse una moda effimera da startupper) alla ricerca delle chiavi crittografiche di Enigma, ricerca che lo scienziato cerca di automatizzare. Il limite del film è ovviamente nei suoi aspetti romanzati, che sembrano voler iper-personalizzare la vicenda umana mettendo in quasi in secondo piano l’ingiustizia politica e sociale nonchè le responsabilità del governo dell’epoca. Farne un film politico, del resto, sarebbe stato meno emozionale e quasi fuori tempo massimo, data la riabilitazione del personaggio Turing in tempi recenti, sia pur dopo molti anni dal tragico accaduto. Il Turing di Cumberbatch è l’archetipo del genio discreto, incompreso e valorizzato solo dai posteri, ai quali tocca l’ardua sentenza di giudicarne i meriti, nello specifico mediante un biopic sceneggiato sulla base del libro di Andrew Hodges Alan Turing, storia di un enigma.

    Non era agevole realizzare un film del genere senza romanzare le relazioni tra i personaggi, e molto di questo feeling umanizzato passa dal personaggio di Joan Elisabeth Lowther Clarke, personaggio realmente esistito e crittografa che sostiene il protagonista nei momenti più bui (interpretata da Keira Knightley). Dopo il successo dell’operazione Enigma, dopo aver superato mille diffidenze sulla propria scienza e coscienza, dopo essere stato eletto membro della Royal Society, avviene il breakdown: nel 1952 Turing viene additato dalle autorità come criminale, per via della propria omosessualità e nell’estremo paradosso di aver lottato contro i nazisti, ritrovandosi sulla gogna di un tribunale quasi equivalente a quello tedesco dell’epoca. Stando alla ricostruzione ufficiale, Turing morì nel proprio letto a soli 41 anni ingerendo una mela al cianuro, per quanto all’epoca il suicidio non venne neanche ufficialmente riconosciuto dalle autorità. Il suo modello di macchina di Turing ed il suo articolo pioneristico Computer machinery and intelligence del 1954 sono, ancora oggi, modelli riveriti e rispettati dai fatti per quello che riguarda la scienza informatica come la conosciamo e la utilizziamo ai giorni nostri.

    Il film The imitation game , uscito nel 2014, è disponibile in streaming gratuito su RaiPlay fino a fine 2021, e viene periodicamente trasmesso in TV.

    Di che parla il film?

    “The Imitation Game” è un film del 2014 diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. Il film si concentra sulla vita di Alan Turing, un matematico britannico noto per il suo contributo fondamentale alla decrittazione del codice Enigma durante la Seconda Guerra Mondiale. Il titolo del film, “The Imitation Game” (in italiano, “Il gioco dell’imitazione”), si riferisce al concetto centrale del film: la ricerca di Turing per creare una macchina che possa imitare il pensiero umano, una macchina che alla fine è diventata il precursore dei computer moderni.

    Il film esplora anche la difficile vita personale di Turing, incluso il suo status di omosessuale in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito. La sua storia è quindi un racconto sia di genio matematico che di lotta contro la discriminazione e l’intolleranza. L’opera è stata ben accolto dalla critica ed è stato candidato a diversi premi, vincendo l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 2015. Benedict Cumberbatch ha interpretato il ruolo di Alan Turing, e il suo lavoro è stato più volte elogiato per la sua interpretazione del personaggio.

    Ecco una panoramica della trama, del cast, di alcune curiosità e della produzione del film:

    Trama: Il film è incentrato sulla vita di Alan Turing, interpretato da Benedict Cumberbatch, dalla sua infanzia fino alla sua carriera adulta. La narrazione salta avanti e indietro nel tempo, mostrando i momenti chiave della sua vita. Gran parte della trama si concentra sulla sua esperienza lavorativa durante la guerra, quando è stato incaricato di decifrare il codice Enigma, una macchina crittografica tedesca considerata inarrivabile. Turing si unisce a un gruppo di matematici e crittografi a Bletchley Park, inclusa Joan Clarke (interpretata da Keira Knightley), per lavorare al progetto.

    Mentre lavorano contro il tempo e l’ostilità dei superiori militari, Turing e il suo team cercano di risolvere l’Enigma. Nel frattempo, il film esplora anche il passato di Turing, inclusa la sua difficile infanzia e il suo rapporto con la sua sessualità, che in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito, ha avuto gravi conseguenze sulla sua vita.

    Cast principale:

    • Benedict Cumberbatch come Alan Turing
    • Keira Knightley come Joan Clarke
    • Matthew Goode come Hugh Alexander
    • Rory Kinnear come detective Nock
    • Charles Dance come comandante Denniston
    • Mark Strong come Stewart Menzies

    Curiosità:

    • Il film è basato sulla biografia di Alan Turing, “Alan Turing: The Enigma” scritta da Andrew Hodges.
    • Benedict Cumberbatch ha ricevuto una nomination all’Oscar per la sua interpretazione di Alan Turing.
    • Il titolo “The Imitation Game” si riferisce al concetto centrale del film: la creazione di una macchina che può imitare il pensiero umano.
    • Alan Turing è considerato uno dei padri fondatori dell’informatica e della scienza dei computer, e la sua macchina Turing è un precursore dei computer moderni.
    • Il film esplora il trattamento ingiusto e discriminatorio che Turing ha subito a causa della sua omosessualità, e ha contribuito a sollevare l’attenzione sull’ingiustizia subita da Turing e da altri a causa delle leggi contro l’omosessualità nel Regno Unito.

    Produzione: Il film è stato diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. È stato girato principalmente nel Regno Unito, tra cui Bletchley Park, il luogo storico in cui Turing e il suo team lavoravano per decifrare l’Enigma. “The Imitation Game” ha ricevuto recensioni positive da parte della critica ed è stato un successo al botteghino. Ha anche vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

  • Metti, una sera a cena: amore e infedeltà secondo Giuseppe Patroni Griffi

    Film insolitamente popolare, e questo nonostante la profondità auto-indulgente dei temi che lo caratterizzano: il tutto grazie al successo della sua versione teatrale, ma soprattutto per la componente piccante che lo accompagnò. Metti, una sera a cena evidenzia così un mood che sembra il manifesto della decadenza, in particolare di quella che all’epoca si chiamava – secondo una terminologia oggi desueta – borghesia.

    Noto per essere stato l’esordio sia di Florinda Bolkan (che poi sublimerà la propria presenza in Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto e, forse soprattutto, nel fulciano e mai abbastanza lodato Non si sevizia un paperino) che di Lino Capolicchio (La casa dalle finestre che ridono), il film divenne celebre per i dialoghi concettuali e speculativi che molti, probabilmente, hanno più finto di capire che apprezzare e saper discutere. Diretto nel 1969 da Giuseppe Patroni Griffi, venne da lui sceneggiato sulla base di un suo omonomico copione teatrale, in collaborazione con l’allora esordiente Dario Argento.

    La scrittura del testo è drammaturgia elaborata e di concetto, che si basa su un’elaborata psicologia di fondo (o, alla peggio, una parvenza della stessa): un dramma concettuale improntato su cinque personaggi intorno ai quali si mostrano azioni (e soprattutto pensieri) rivolti all’ambito sentimentale e sessuale: da un classico menage a trois – fino ad un esacerbato ed ipotetico menage a cinq.

    “Il tuo amore è sporca prapaganda”

    Emerge in primis un complicato simbolismo figurativo, legato allo spettacolo teatrale di cui ricorsivamente Max fa parte per lavoro, il che si presta ad infinite elucubrazioni meta-filmiche, ma soprattutto per il dettaglio della bandiera nazista, con cui Ric si avvolge mentre dialoga con Nina. Si tratta forse di uno dei simboli più potenti e sottovalutati associati all’opera. È come se, in altri termini, l’unico coadiuvante erotico possibile (per quella borghesia pigra, viziosa ed avulsa all’amore sincero) fosse legata agli abusi, alla violenza, all’assolutismo. Simbolo reso ancora più esplicito dal fatto che si tratta della medesima bandiera con cui Ric, ad un certo punto, tenterà di suicidarsi. Si può certamente dire qualcosa in più del classico legame tra sesso & violenza: si può dire, ad esempio, che il sesso ha una valenza puntuale, risolve una noia di fondo dei personaggi e probabilmente smette, a momenti, di procurare piacere, essendo più un dovere da borghese che un sincerto impeto proletario (come dimenticare, a riguardo, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto della recentemente scomparsa Lina Wertmuller?)

    Anche l’idea classica che si tratti di “teatro borghese”, destinato ad un pubblico colto o per meglio dire presuntuoso, di fatto è smentita dalla pratica: proprio perchè il quadro che ne esce è, in fondo, tanto auto-indulgente quanto vanesio, inafferabile, difficile da formalizzare. Va specificato a chiare lettere che il film non possiede una forma narrativa troppo agevole: questo soprattutto per via del montaggio frammentato che lo rende, di fatto, sperimentale ad ogni latitudine. Molti, di fatto, lo troveranno pesante e difficile da cogliere in ogni sfumatura, soprattutto nel finale che è particolarmente criptico ed assume venature fataliste, probabilmente espressione di un senso di colpa radicato (Freud, Lacan, dove siete?). La lunghezza dell’opera in questo non aiuta, anzi da’ l’impressione di diluire e di non essere semanticamente indispensabile ma – come dire – il difetto più sostanziale dell’opera risiede proprio in questo.

    Cinema “da intellettuali”. o presunti tali

    Se è vero che la trama esibisce fin troppe forme di vezzi intellettualoidi e fumisterie assortite – ostentando una ricchezza di contenuto che non sempre trova riscontro nella sostanza – è altrettanto vero che il film funziona, specie se lo contestualizziamo in relazione all’era post-rivoluzionaria in cui uscì (1969). Funziona ancora oggi, a nostro avviso, in ottica provocatoria, un’ottica che un tempo avrebbero etichettato come piccolo-borghese, di un gruppo di persone edoniste, rigorosamente avulse dalla gelosia, che vivono le proprie relazioni come puro e semplice status sociale, senza neanche godersele. Anche se, in tutta onestà, quel finale speculativo e logorroico rischia di sembrare quasi inconcludente, perso tra allusioni più o meno esplicite a Platone, Omero e alla Cina dell’epoca.

    Il montaggio del film venne realizzato da Franco Arcalli, noto per lo stile non lineare che aveva utilizzato anche in altri film (Il portiere di notte, Zabrieske Point, Ultimo tango a Parigi e Se sei vivo spara). Qui  in effetti trova una sua collocazione ideale: non vediamo, infatti, la sequenza di eventi in modo coerente con la relazione causa-effetto: vediamo una sequenza di flashforward e flashback dai quali riusciamo a costruire la trama solo un pezzo per volta, per quanto il clou della storia appaia evidente a metà dell’opera.

    Ric, che ha probabilmente avuto una relazione anche con Max in passato, si è innamorato di Nina, e questo sentimento terrorizza e fa istintivamente ritrarre la donna. Che non è sessuofoba come la protagonista di Repulsion (tutt’altro), ma sembra intimorita dalla sincerità dell’uomo, dalla purezza di quel sentimento, che non viene pero’ mai idealizzato ma anzi, addotto a causa di mera infelicità collettiva. Tanto che poi il passivo marito di lei, Michele, quasi per riparare quell’infiltrazione lacerante, finirà per ricorrere al blob conformista che conosce meglio: invitare a cena Ric, facendolo così diventare uno di “loro”.

    Le musiche, indimenticabili ed altamente evocative, vennero firmate da Ennio Morricone.

    Tra decadenza e astrattismo

    Il rischio di un film del genere è quello di goderselo “per sentito dire”, perdendo di vista la logica comportamentale dei personaggi e la narrativa in ballo. Ma il punto probabilmente è proprio questo: alla base dell’opera vi sono vari concetti non ovvi (alcuni dei quali, francamente, sono più fumosi e salottieri che altro), derivati in parte dalla sociologia, dalla fanta-politica e dalla psicologia moderna – uno su tutti: accettare che i personaggi possano avere comportamenti illogici, perchè pensare il contrario è un retaggio tipico del pensiero retrò. Se accettiamo quest’ultimo assunto, il flusso narrativo diventa (forse) più agevole da decifrare.

    Ric, Max, Nina, Michele e Giovanna sono del resto, in senso figurato, puri adepti del culto della decadenza, il che viene testimoniato da frasi significative come, ad esempio, l’unica salvezza sta nel vizio. Il loro agire non è tanto basato sulla logica o sull’istinto, ma serve a scuotere il pubblico in maniera indiretta, giocando su vari sottintesi e suggerendo, in qualche modo, che più di qualcuno possa specchiarsi in quegli intrighi di amanti e gelosie malcelate. Tutt’altro che reali visto che si tratta di un film sperimentale, eppure tutt’altro che irrealistici, date le storie di “corna” – come la vulgata spesso racconta ad ognuno di noi in modo un po’ becero – che conosciamo tutti più o meno per sentito dire.

    La borghesia in cui si muovono i personaggi è mediocre quanto inebriata del proprio status, annebbiata da una visione nichilista sul matrimonio o, ad esempio, dal fatto che una madre non possa che essere madre single (da cui l’ossessione per l’idea, rivolta a Giovanna, di trovare un uomo che debba farle fare un figlio e poi scomparire). I personaggi sembrano comunque trascorrere più tempo a discutere che ad agire, e anche quando agiscono vediamo sempre il fatto compiuto: anche questa (oltre ad essere essenza del teatro moderno) è una cristalizzazione del pensiero in cui finzione e realtà, a momenti, finiscono per miscelarsi in una dimensione possibilista, perennemente erotizzata ed in tensione (per non dire meramente di facciata o ipocrita).

    Addirittura l’erotismo di Metti, una sera a cena è pura e insopportabile formalità: deve esserci, ma la regia sembra aver fatto di tutto per renderlo simbolico e scarsamente stimolante, per quanto poi i nudi di alcuni personaggi siano affascinanti, oltre che causa non indifferente di successo della pellicola.

    L’inutilità del mondo esterno

    Se l’intreccio del film, di per sè, deve moltissimo alla rispettiva forma teatrale (ai suoi spazi ridotti ed alla sua ambientazione quasi sempre collocata in un appartamento angusto, quasi inospitale), risalta molto una sostanziale inutilità del mondo esterno. Questo tema emerge in maniera indiretta fin da subito, a cominciare dalla sequenza del trio che guarda un incontro di pugilato in modo distaccato, e se a qualche spettatore potrà sembrare puro snobismo, serve a focalizzare l’attenzione su una trama che funziona accettando la succitata cristallizzazione dei pensieri dei protagonisti.

    Ai cinque personaggi della storia (Ric, Max, Nina, Michele e Giovanna) non serve altro: si nutrono di sè stessi, della propria capacità di maneggiare una sintassi elaborata quanto vuota, dei propri vezzi, delle rispettive attrazioni mal celate o mal espresse – conducendo nel contempo una vita pigra e orientata al pettegolezzo, alla passività e alla decadenza.

    Cinque solitari che giocano ad accompagnarsi nella noia

    I personaggi vivono un singolare status di solitudine sempre marcata e costante, poco cambia se si trovino in più di una tresca oppure, come Giovanna, siano tormentati ed irrigiditi dalla solitudine. Viene parzialmente in mente la figura de Il solitario di Ionesco, un romanzo breve del 1973 (dalla lettura, per inciso, abbastanza ostica) in cui il protagonista eredita una grossa somma da uno zio d’America, e decide così di ritirarsi a vita privata, abbandonando il lavoro dipendente. Il protagonista sembra proprio come il quintetto del film: scettico, disilluso, facile a stancarsi e stanco, uno che vive senza scopi, che lavora il meno possibile, e che trova rifugio nell’alcol e nel cibo, come i protagonisti che spesso vediamo a tavola, assimilati ad una ritualità puramente formale che, di fatto, espone i rispettivi vizi ed ipocrisie quotidiane.

    Vediamo così la figura di Nina (Florinda Bolkan), che si reca a casa di Ric, una sorta di artista bohémien, il quale si esercita (e si sfoga) sparando con una pistola contro una figura ritratta sul muro. Ric è stato scritturato dall’amante di Nina, Max, per ravvivare un rapporto clandestino che la donna considera scarsamente stimolante. Formalmente, poi, continua ad essere la moglie di Michele, un autore teatrale che sta immaginando, guarda caso che non è un caso, di scrivere un’opera incentrata su una relazione a tre.

    Al netto dei succitati (e ben noti) difetti, è da considerarsi un esperimento riuscito: lo è anche perchè i film derivati dal teatro sono raramente ben riusciti, e Metti, una sera a cena ha un peso specifico sostanziale e la propria importanza, per quanto recondita. Al tempo stesso è una forma seminale di cinema filosofico o speculativo a cui probabilmente molti autori, dal Von Trier di Melancholia e Dogville a Elio Petri, hanno finito per ispirarsi in un modo o nell’altro.

  • I nuovi mostri: il film collettivo a episodi che raccontava l’Italia anni 70

    Nel 1977 esce I nuovi mostri, sulla falsariga de I mostri e nuovamente incentrato su film costruiti a micro-episodi. Se il primo lavoro di questo tipo era stato diretto da Risi, questo è una regia collettiva, in cui curiosamente (ma non era insolito, per l’epoca) manca l’attribuzione degli episodi ai singoli registi coinvolti: Risi, Monicelli e Scola. Il film è stato anche recentemente proposto su Rai Movie qualche giorno fa, in una versione “intermedia” a livello di tagli, e come vedremo più avanti si tratta di uno dei film più arbitrariamente tagliuzzati dalla censura mai prodotti in Italia, e non è neanche chiaro se esista una versione realmente uncut.

    I nuovi mostri è anche l’espressione di un umorismo che stava cambiando nel cinema (e non solo lì): quello che all’epoca del suo omologo di metà anni sessanta era, al massimo, humor nero accennato ed implicito, qui si decide di renderlo esplicito. Nel 1974, ad esempio, gli USA avevano prodotto Fritz il gatto, anche lì un umorismo inedito e anti-moralista, destinato a fare scuola e a rendersi a suo modo memorabile. Certe forme di enfasi, peraltro, sono da sempre state considerate eccessive e fuori posto sia dalla critica media che dal pubblico, e questo sicuramente non ha sancito un successo che, probabilmente, il film avrebbe meritato. È quantomeno paradossale, nonostante tutto, che la critica dell’epoca denigrasse lo scarso valore sociologico degli episodi (che sono effettivamente più che altro riflessioni nichiliste sulla natura umana), che in confronto de I mostri di dieci anni prima è sicuramente difficile da paragonare.

    Il format in questione, per la verità, questa volta sembra reggere solo in parte: al netto di regie sempre solide ed efficaci, alcuni episodi sembrano “annacquati” ed appaiono quasi sconclusionati. Tant’è che la critica dell’epoca non si espresse in modo benevolo sul film, indicando al massimo un paio di episodi realmente memorabili (tra cui il pluri-citato Hostaria!), mentre il pubblico sembrò vedere il film con la stessa rapidità con cui lo dimenticò.

    Se una mancanza di ispirazione può per certi versi essere tollerabile (i film episodici con più registi ne soffrono quasi inevitabilmente, anche in altri contesti), quello che andrebbe valorizzato in questo film del 1977 è il sentimento anarchico che lega gli episodi, quasi da autentici Monty Python all’italiana, ed in cui è evidente che in molti degli episodi si sia alzata l’asticella dell’azzardo, dell’osare e di conseguenza del potenziale scandalo.Il film è questo, alla fine, ed esprime le proprie potenzialità in modo penalizzato anche per via dei tagli superficiali che, negli anni, impedirono di apprezzarlo come unicum.

    Gli episodi migliori de I nuovi mostri

    Come dimenticare L’elogio funebre con un incredibile Alberto Sordi? Il funerale apparentemente commosso e solenne del capocomico di una compagnia cede il passo al ricordo del repertorio dello stesso, che poi fa degenerare il funerale in un delirio di doppi sensi, battute di bassa lega e balletti, ed infrange uno dei tabù più classici: quello di ridere irrazionalmente durante le esequie di qualcuno, in omaggio ad uno dei cardini della Satira con la “S” maiuscola (che deride alternativamente politica, sesso, religione e morte).

    Senza parole è uno degli episodi forse più belli del film: una hostess a Fiumicino viene sedotta da un giovane mediorientale, mentre sentiamo due brani tipici di quegli anni per creare l’atmosfera (All by myself di Eric Carmen e Ti amo di Umberto Tozzi). L’amore sembra esclusivamente platonico e pare travolgere la donna, che riceve un mangiadischi con una delle due canzoni come dono: imbarcandosi poco dopo, provoca l’esplosione dell’aereo in volo dato che conteneva un ordigno. L’episodio è ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto, conclusosi fortunatamente senza vittime: con la stessa dinamica descritta nell’intreccio, fu un volo in partenza da Fiumicino ad essere bersaglio dell’attentato, che tuttavia fece in tempo a rientrare in aeroporto, a causa di un’esplosione nel bagagliaio qualche minuto dopo il decollo.

    Impossibile non citare, infine, Hostaria!, dove Gassman e Tognazzi interpretano il cuoco ed il proprietario di un’osteria tipica romana. I due sono estremamente litigiosi (e si capirà in seguito che sono una coppia) e, mentre discutono, continuano a preparare dei piatti che diventano disgustosi, in cui fanno cadere mozziconi di sigarette e scarpe: servono comunque quelle portate, e la clientela chic mostra comunque di apprezzarli.

    Gli episodi censurati de I nuovi mostri

    Il punto importante da inquadrare, a questo punto, è che la censura ha colpito duramente I nuovi mostri, e molti episodi, ancora oggi, si conoscono esclusivamente per le sinossi presenti su Wikipedia: quasi nessuno, di fatto, sembra averli visti. I nuovi mostri ad oggi, purtroppo, per la maggioranza degli italiani è una rubrica di Striscia la notizia, e ben pochi conoscono il film da cui quel nome è stato tratto quel nome.

    La censura è quasi sempre inaccettabile, in effetti, nella misura in cui decide arbitrariamente, sulla base di criteri del tutto soggettivi, cosa si possa vedere e cosa invece non si debba vedere – e ciò ha risvolti più pesanti di quello che sembra: in molti casi la censura ha colpito, in passato, cose ed aspetti sui quali oggi si sorvola tranquillamente. Del resto si tratta solo di film, ed il cinema non dovrebbe mai avere un ruolo troppo didascalico o “essere da esempio”, proprio perchè – citando il personaggio di Volontè in Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto – se ci convinciamo che il popolo è minorenne, diamo spazio a possibili espressioni di potere autoritarie e, soprattutto, quello che “ci va bene” censurare oggi, potrebbe rivoltarsi contro i nostri stessi gusti o preferenze un domani.

    Il vero punto critico del film è l’episodio Pornodiva: una storia amara e decisamente crudele, in cui una coppia viene ingaggiata per girare un porno contenente sesso con animali, e si scoprirà che arriveranno a coinvolgere la figlia di sette anni, con una piccola scimmia, per guadagnare il massimo dall’ingaggio. Non una storia per bambini, ovviamente, quanto molto realistica, che venne brutalmente rimossa nel passaggio televisivo, e a quanto pare anche in alcune versioni in DVD del film.

    Oppure pensiamo ad Autostop, dove Ornella Muti interpreta una avvenente autostoppista che viene molestata più volte dall’automobilista che le ha dato un passaggio, arrivando a fingere di essere evasa da un carcere femminile e di essere armata per difendersi. Senza troppi complimenti, a quel punto, l’uomo la uccide, facendo emergere un dramma di sessismo e prepotenza. Peraltro, resosi conto che la donna era disarmata, non mostra alcun rimorso davanti ai carabinieri (nella versione cut manca questo finale).

    Anche Cittadino esemplare è stato censurato ed è tremendamente incisivo, probabilmente inibito alla visione per via del suo pessimismo antropologico: vediamo un uomo assistere ad un delitto e rientrare a casa come se nulla fosse, gustandosi un bel piatto di amatriciana. Il sospetto è forse uno degli episodi meno efficaci del film, ma manca anch’esso da varie uscite in TV: si parla di un carabiniere infiltrato in un gruppo di contestatori dell’epoca, che durante un arresto di massa, propina una goliardica pernacchia contro il proprio superiore, venendo rimproverato bonariamente – e lasciando immaginare al pubblico cosa gli sarebbe successo se fosse stato un autentico contestatore.

    La cosa anomala del film, peraltro, è che molti episodi anche “innocenti” sono stati rimossi, forse perchè considerati inefficaci: molti italiani non hanno pertanto potuto godere dell’episodio Mammina e mammone, ad esempio, in cui Tognazzi è uno strepitoso caratterista che vive di espedienti. Stesso discorso per Sequestro di persona cara, in cui si evidenzia l’ipocrisia di un uomo a cui è stata rapita la moglie, che fa un appello accorato ai rapitori per riaverla indietro, quando in realtà aveva staccato i fili del telefono.

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