Salvatore

  • Arancia meccanica: dalla rieducazione all’oblio

    Arancia meccanica: dalla rieducazione all’oblio

    Alex DeLarge è un giovane londinese che trascorre le giornate tra risse e stupri, accompagnato da una banda di degenerati degni compari: arrestato, viene sottoposto ad un esperimento di rieducazione (“la cura Ludovico”, fortemente promossa da un candidato ministro) dagli esiti imprevedibili.

    In breve. Il saggio di ultra-violenza cinematografica per eccellenza: senza dubbio tra i migliori film di sempre.

    Considerato ai primi posti nella classifica dei più controversi film mai girati (secondo posto, l’Entertainment Weekly nel 2006), rientra in numerose classifiche, tra cui quella di essere al 70° posto come miglior film in assoluto. In realtà “Arancia Meccanica” dovrebbe rientrare tra i primi dieci di diritto: l’arte cinematografica di Stanley Kubrick, virtuoso regista stra-citato quando discusso e impossibile da imitare, si esprime infatti in una delle sue migliori creazioni.

    Arancia meccanica – noto con vari titoli a seconda degli stati: The Orange From Hell, Paklena Pomorandza, Paklena Naranca, Paklena Masina, Machine from hell, tutti titoli che evocano “Un’arancia ad orologeria” che doveva far riferimento, nelle intenzioni dell’autore Anthony Burgess, ad un essere umano trasformato in una macchina – racconta una storia realistica in un’Inghilterra distopica. Lo fa sfruttando una singolare reinvenzione del linguaggio, in una propria, inequivocabile dimensione, aderente al romanzo da cui è tratto e riletta in grande stile. Ciò avviene a partire dai presupposti scenografici, che immaginano un’ambientazione bizzarra (attuale quanto futuristica, diremmo: ci sono libri e vinili, ma si capirà di non essere nel 1971), tra colori sgargianti e tecnologie vintage, per focalizzare una storia di “ordinario degrado”, come tante ne potremmo sentire in cronaca – che diventa successivamente grottesco puro. Nel farlo, Kubrick si affida ad un linguaggio puramente rivoluzionario, sfruttando il cinema per esprimere le contraddizioni dei metodi autoritari di educazione e, al tempo stesso, mostrando altrettante perplessità su quelli più aperti in voga in quegli anni. Se da un lato potremmo quindi intravedere le derive del cinema poliziottesco (che rappresentava sempre più spesso eroi comuni che giustiziano da soli i delinquenti, soddisfando la sete di sangue di certo pubblico reazionario), Arancia Meccanica si pone in una posizione sostanzialmente contrapposta, tutt’altro che ideologica o “per partito preso”.

    Arancia meccanica vive in un clima strano, un’Inghilterra straniante e distopica, fatta di colori vivaci e luce diffusa: un possibile parallelismo di ambiente potrebbe ricondursi a ciò che avviene in certa letteratura cyberpunk. Il futuro (perchè è qui che si colloca la storia di Alex) non è fatto da tecnologie alettanti o astronavi nello spazio, bensì da paure urbane, violenza gratuita, alienazione, droghe e sesso violento. Componente sessuale, qui, funzionale e caratterizzante (al netto di polemiche moralistiche, sostanzialmente inutili), in grado di perdere qualsiasi attrattività per lo spettatore, diventando mera esibizione di vuoto, spettacolarizzazione cruda e brutale. Qualsiasi esagerazione visuale, del resto, fa vedere da cosa parta Alex, fino a definire una parabola su cosa diventerà: questo sembra essere il punto. In questa narrazione la grandezza di Kubrick si declina anche nel non lanciare alcun esplicito messaggio moralistico o di monito, come faceva ad esempio tantissima exploitation (da questo film molte scene sono state ispirate o imitate, spesso con risultati e filosofie ben diverse), bensì nel mettere lo spettatore di fronte ad un paradosso (senza uscita?): laddove la rieducazione del selvaggio Alex sembri doverosa o necessaria, improvvisamente il ragazzo è diventato un’ameba incapace di difendersi, vittima di un feroce contrappasso nonchè strumentalizzato a fini politici.

    Il soggetto del libro fu assegnato (nell’ordine) a Mick Jagger dei Rolling Stones, a Ken Russell, a Tinto Brass e finalmente a Stanley Kubrick, che si prese l’incarico di girarlo vedendo in Malcom McDowell l’unico possibile interprete del protagonista. Ne risulta un film emblematico, solidissimo nel suo concepimento, a sottolineare un’idea precisa di cinema kubrickiano, perfezionista fino all’estremo: Kubrick non solo girò ogni scena numerose volte (incluse quelle più obiettivamente difficili da gestire per gli attori), ma fece anche distruggere dal proprio assistente tutto il girato non utilizzato. Non solo: temendo che i cinema che proiettavano il film lo manipolassero prima della proiezione, si accontentò di un budget di poco più di 2 milioni di dollari (un budget da b-movie, per l’epoca) pur di mantenere il controllo sul materiale, curando personalmente le campagne pubblicitarie del film, il trailer e (pare) mandando, poco prima delle proiezioni, nuove copie integrali ai principali cinema, in modo da assicurarsi che il film fosse sempre proiettato per intero.

    Sembra incredibile a pensarci oggi, ma Arancia Meccanica venne girato con un budget ridicolo rispetto alla grandiosità che sarebbe riuscito ad evocare, diventando un’icona pop, di genere, di cinema impegnato e quant’altro, ed è questo un ulteriore motivo di pregio per una delle pellicole più autenticamente distopiche mai realizzate. Un film determinato da una selezione di riprese ossessive, dove nulla è lasciato al caso, e da gesti meccanici, coreografici (Alex che danza nelle scene più violente, così come è in grado di diventare mansueto e farsi coccolare dalle autorità, è uno spettacolo ineguagliabile): in una parola perfetti proprio perchè provati e ripetuti fino all’inverosimile. Basti pensare (senza entrare nei dettagli) che solo il finale venne ripreso ben 74 volte, prima di pervenire alla versione definitiva.

    Arancia meccanica è quel tipo di pellicola autoriale controversa, lontana dalla tradizione di genere ma che, in parte, al cinema più popolare strizza l’occhio: è un film per cui è impossibile dire se sia drammatico, distopico, grottesco o che altro, che viene arricchito da elementi aggregabili che sarebbero diventati codificatissimi sotto-generi. Il racconto di ordinario degrado urbano, il cinema decadente, un certo tipo di recitazione straniante e ostentata – le spiazzanti home invasion, l’infame tradizione del revenge movie, sono tutti elementi richiamati nel film con gradazioni differenti.

    Un personaggio, quello di Alex, emblema del ragazzo difficile in cui è impossibile immedesimarsi, dall’innata crudeltà esaltata da un carattere passionale (stupratore e aggressivo, quanto amante del “Sommo Ludovico Van” Beethoven), per cui alla fine si proveranno sentimenti contrastanti. Le sequenze sembrano avvenire in luoghi caratterizzati da un mix bilanciato di grandiosità e complessità (il teatro abbandonato, le statue di Allen Jones del Korova Milk Bar, il centro di rieducazione che non è che una profondissima sala cinematografica), a finire dal modo di parlare dei personaggi, che evocano quello del libro di Burgess con il loro strano e suggestivo modo di esprimersi (il “nadsat”, un mix di slang russo ed inglese) e di chiamare le cose (il “latte più” alla mescalina). Del resto, è proprio il linguaggio a condannare Alex, in quanto la segnalazione alla polizia della sua presenza viene presa sul serio per “quello strano modo di parlare”.

    Vale la pena di raccontare, peraltro, ciò che accadde durante e dopo la famosa scena dello stupro, accompagnata in modo straniante da “Singing in the rain“: la cosa venne improvvisata sul set dopo 4 giorni di prove, e l’idea era quella di non banalizzarla o renderla troppo convenzionale. Kubrick fu talmente entusiasta del ciak definitivo da essere disposto a pagare 10,000 dollari per ottenere i diritti sul brano. Ma non solo: in seguito pare che Gene Kelly (protagonista del film Cantando sotto la pioggia, 1952) abbia evitato il povero McDowell durante una festa, dicendosi disgustato dall’uso che l’attore aveva fatto di quella canzone sognante e ottimista.

    Dopo una prima porzione di film incentrata su nefandezze di ogni genere, Alex – tradito dai compagni che diventeranno i suoi futuri aguzzini – diventa il detenuto 655321, alienato ed oppresso dall’autorità, sottoposto ad un durissimo regime carcerario ed alle prediche della religione e dell’autorità militare. Da qui scaturisce un ipocrita interesse per i testi sacri (che poi non è che immedesimazione in cruenti e dissoluti centurioni), ma soprattutto per la Cura Ludovico: un brain-wash a tutti gli effetti, che passa per la sottoposizione incessante ad immagini violente, allo scopo di purificarsi. A questo punto è la svolta: Alex è disposto a svendersi ed adeguarsi ai canoni imposti dalla società (“essere buono“, per lui, è un modo come un altro per essere di nuovo libero), ma non considera cosa comporti essere privato della possibilità di scegliere (“quando un uomo non ha scelta, cessa di essere un uomo“). Così si offre – dal suo punto di vista, furbescamente – alla cura, il che lo porterà alla libertà quanto alla progressiva rovina. Una volta fuori, c’è un mondo che non aspetta altro se non potersi vendicare delle sue malefatte.

    La Cura Ludovico è forse l’emblema del cinema politico tacciato di estremizzare e brutalizzare la visione: nel vedere Alex sottoporsi a filmati violenti, qualsiasi appassionato di cinema (soprattutto se estremo o borderline) troverà un appagante parallelismo. In fondo la visione di ogni film, specie tra i più controversi, non è che una “cura Ludovico” per provare a purificarci, al netto delle strumentalizzazioni e del comportamento che la visione potrebbe indurre. In questo, Arancia Meccanica si erge semplicemente come capolavoro assoluto.

  • L’etrusco uccide ancora: l’horror thriller italiano dal finale clamoroso

    Un archeologo, con un passato da alcolista e tormentato dal ricordo dell’ex compagna, lavora intensamente presso alcuni scavi tra Spoleto e Cerveteri. Alcuni feroci delitti saranno commessi all’interno delle catacombe…

    In breve. Thriller di “vecchia scuola” italiana, che bilancia la componente horror con quella puramente di tensione, senza mai eccedere nè eccellere, nell’una o nell’altra. Un lavoro nella media del periodo, per cultori e veri appassionati del genere, che rischia di deludere tutti gli altri – nonostante qualche colpo di scena interessante (specie nel finale).

    Armando Crispino, artefice del meglio riuscito Macchie solari (che risulterà qualitativamente superiore a questo sotto vari punti di vista)  realizza un giallo-thriller piuttosto intricato fin dall’inizio, tanto che non riesce ad essere chiaro lo stesso ruolo dei vari personaggi almeno per la prima mezz’ora. In seguito il film, sulla scia di varie suggestioni pre-argentiane (gli omicidi efferati, l’allucinazione – un po’ troppo artigianale, per la verità – del demone Tuchulcha che compare nella locandina) tenta un decollo qualitativo che sembra apparentemente realizzabile, per quanto – a confronto di quello che farà Argento qualche tempo dopo – il film sia quasi completamente carente del giusto ritmo. La recitazione non esattamente da Actor’s Studio della maggioranza dei personaggi, inoltre, con poche eccezioni tra cui l’ispettore di polizia ed il suo assistente, non contribuisce a rendere “L’etrusco uccide ancora” un lavoro da ricordare, e questo nonostante l’idea di inserire le suggestioni del demone etrusco della morte fosse obiettivamente parecchio accattivante (almeno per l’epoca). Appare comunque chiaro fin dall’inizio che il killer è un uomo e non un’entità, e la componente sovrannaturale finisce sia per essere un fondale degno dell’intreccio che per conferire una certa “autorità” al film stesso: questo nonostante non manchino dettagli tipici del genere che pero’, a ben vedere, non risultano essere troppo sconvolgenti.

    Notevole, su tutto il resto, come il doppio-finale (qui talmente esasperato da sembrare addirittura quadruplo, per quante sono le apparenti identità dell’assassino) sia archetipico del succitato regista romano, che ne aveva già fatto uso per la prima volta ne “L’uccello dalle piume di cristallo” (1970, due anni prima). In definitiva un discreto giallo all’italiana, con vera tensione solo a sprazzi, originale solo in parte e – a mio avviso – ampiamente sopravvalutato dalla critica più “revisionista” in materia: il suo principale problema è la mancanza di quel mordente che rende davvero uniche pellicole di questo tipo. Da vedere per curiosità o per una serata senza troppe pretese.

  • Secret Window: l’indimenticabile horror psicologico di D. Koepp

    Uno scrittore horror (Mort Rainey) divorzia dalla consorte, e si chiude in una baita sperduta assieme al proprio cane: immerso in una vita disordinata e caotica, è incapace di riempire una sola pagina e passa le sue giornate nella depressione più acuta. Una mattina si presenta alla sua porta il singolare John Shooter, villano del Mississipi, che sostiene energicamente di essere stato vittima di plagio da parte di Mort. Incredibilmente lo scritto che gli viene consegnato somiglia ad un racconto pubblicato dallo scrittore diversi anni prima…

    In due parole. Buon film, dai toni misteriosi e molto psicologici, che forse ricorderà agli spettatori qualcosa di già visto o già letto altrove (ad esempio il racconto di King da cui è tratto). La dinamica funziona alla grande, ed il film si difende dignitosamente con buone interpretazioni e ottima regia. Da vedere anche adesso, perchè prodotto attuale e molto focalizzato sul tema: in altre parole adatto a chi voglia vedere un buon thriller senza dover per forza “scavare” negli anni settanta/ottanta, e senza scomodare eccessiva violenza.

    Qualcuno insiste che le storie di King siano sempre la stessa solfa da trent’anni, e – per quanto consideri miope questa visione – resta il fatto che 1) si tratta di uno degli scrittori fantastici più prolifici in assoluto (assieme, credo, al “collega” Clive Barker) 2) abbiamo di fronte uno degli autori più “filmabili”, tanto che mostri sacri come Kubrick, De Palma e Cronenberg si sono cimentati nella rappresentazione dei suoi libri o racconti. Secret Window è tratto dalla raccolta di racconti “Quattro dopo mezzanotte”, precisamente “Finestra segreta, giardino segreto”, e mette in scena un thriller dai toni ambigui ambientato in una cittadina apparentemente tranquilla. Efficacissimo, a mio parere, il contrasto tra la solitudine delirante e disordinata di Mort (Johnny Depp) e la vita cittadina e ordinaria di Amy (Maria Bello), capace di sfociare in una trama dalle circostanze, in qualche modo, del tutto inaspettate. Non dico di più per evitare irritanti anticipazioni di troppo: guardate questo film anche se non siete propensi per l’horror perchè, nei limiti, dovrebbe rispondere a varie fasce di pubblico e di preferenze.

    King, per la verità, non è mai stato troppo d’accordo sulla rappresentazione selvaggia delle sue opere, e proprio per questo un confronto letterario-cinematografico (come ho scritto già per Lovecraft, del resto) rischia di perdere qualsiasi senso: cosa che, peraltro, sono impossibilitato a fare dato che non ho presente “Quattro dopo mezzanotte“, che per puro caso non ha (ancora) un posto nella mia libreria. Resta il fatto che Koepp ci ha saputo fare ed ha confezionato un thriller forse fin troppo classico, piuttosto simile stilisticamente a Nascosto nel buio, con qualche piccola licenza “poetica” e molto godibile. Fate inoltre attenzione alla frase che trascina l’intero film, quella incentrata sul senso di ogni storia che si racchiude, come ho sempre pensato anch’io, nel finale della stessa: quello di “Secret Window” è, a mio parere, tra i meglio riusciti degli ultimi anni.

  • Reazione a catena: quando Mario Bava inventò un nuovo genere

    Considerato il padre dello slasher-movie, è uno dei capolavori assoluti horror-thriller italiani: ricco di suspance, splatter, intrighi, buona recitazione e sano cinismo. Un capolavoro del grande Mario Bava, diventato un cult fino ad oggi anche se – bisogna dire – (ri)scoperto in ritardo a causa di una distribuzione non eccelsa, almeno all’inzio. Reazione a catena esalta all’ennesima potenza gli elementi filmici che hanno ispirato il primo Dario Argento, tanto che i richiami nelle inquadrature e nelle ambientazioni viste in Profondo rosso sembrano analoghe alla sequenza iniziale del film.

    La catena di delitti del titolo, per inciso, fa riferimento ad una serie di omicidi che viene perpetuata per ragioni poco chiare: prima un’anziana contessa strangolata il 13 febbraio, poi il marito di lei, successivamente una ragazza che fa riaffiorare casualmente il cadavere dell’uomo. Il tutto ruota attorno alla proprietà di una baia con un lago, proprietà della contessa di cui sopra, su cui vorrebbe mettere le proprie grinfie più di una persona, tra cui un architetto con buone conoscenze nella politica. Al tempo stesso la cinica figlia del conte, assieme al marito, progetta di possedere la proprietà a qualsiasi costo: così esce fuori un complicato intreccio che si svilupperà in più direzioni. Dopo ulteriori omicidi effettuati per paura di essere reciprocamente scoperti, ne risulterà un quadro umano senza speranza, nè possibilità alcuna di redenzione.

    La nota – e spesso ripetuta – somiglianza di Reazione a catena con la saga di Jason Voorhees, in fondo, si esplica nell’omicidio sanguinolento dei ragazzi nel cottage (la coppia viene trafitta alla schiena durante l’amplesso, una scena ripresa identicamente nel film americano, il quale, dettaglio non da poco, è uscito dopo questo di Bava) e nella difesa – in chiave ambientalista – della baia, un luogo incontaminato che è, peraltro, una sorta di prototipo di Camp Crystal Lake. Indubbiamente Reazione a catena è più intricato dell’episodio iniziale della nota saga americana, e la paternità al genere slasher credo rimanga più che lecita.

    Inoltre Bava si orienta sul non politicallycorrect, denunciando grottescamente l’eccessiva nonchalance con cui si usano le armi, e più in generale la cinica barbarie a cui gli adulti abituano indirettamente i bambini. In altre parole, un po’ come suggeriva uno dei titoli provvisori della pellicola, “Così imparano a fare i cattivi“, che si stampa nelle coscienze degli spettatori in modo indelebile. Con risultato ancora più efficace, in fondo, se si pensa che “i bambini hanno paura del buio“…

    …io almeno il polipo lo mangio. Ma uccidere così, per hobby…

  • Lo strano vizio della signora Wardh: il cult di Sergio Martino del 1971

    Lo strano vizio della Signora Wardh” è un classico della cinematografia gialla di genere anni 70, da vedere almeno una volta nella vita.

    In breve: uno dei migliori lavori del giallo all’italiana anni 70, con Rassimov e Fenech al culmine dello splendore.

    “Niente unisce di più di un vizio in comune”

    Un killer uccide vari donne a colpi di rasoio, sullo scenario della storia di Julie (la signora Wardh del titolo, interpretata dalla Fenech) perseguitata dall’ex amante che si dice certo di essere l’unico a poterla soddisfare in ogni senso. La signora in questione, ambigua e maliziosa come non mai, si sente trascurata dal mite e ragionevole marito che tratta “come se le avesse fatto un torto“, e in realtà  a lei “non manca nulla“. Insomma, sembrebbe la solita stereotipata crisi di coppia senza particolari sottotesti, ma c’è di più: un serial killer continua a colpire in modo apparentemente sconnesso, l’ex amante la perseguita mandandole continuamente dei fiori con enigmatici bigliettini, e la donna instaura una relazione con il cugino di un’amica (George). Questi ultimi hanno appena avuto la notizia di aver incassato l’eredità di un vecchio zio, che sarà parte della chiave di volta per l’intreccio ma, sul momento, diventa l’occasione perchè George e Julie Wardh possano conoscersi e diventare amanti.

    Ricattata per telefono da qualcuno con la voce contraffatta, si convince imprudentemente a mandare l’amica Karoll all’appuntamento al posto proprio, la quale rimane brutalmente uccisa. La verità viene a galla solo nel finale, sulla base di un errore commesso dall’assassino in extremis, che nasconde le motivazioni di tutto quello che è avvenuto: in fondo il “delitto perfetto” non puo’ esistere, anche se effettivamente ben congegnato come avviene qui. Forse l’idea risolutiva è un po’ troppo macchinosa o addirittura improbabile (credo basti vedere il film per farsene un’idea): sta di fatto che “Lo strano vizio della signora Wardh” è un’ottimo lungometraggio settantiano che vale la pena di riscoprire.

    E’ forse una delle opere più note di Sergio Martino, un classico plot giallo con punte di eros mai volgare, oltre ad un sano citazionismo di fondo che lo ha reso un’opera cult per Tarantino (la scena sotto la doccia alla Hitchcock, il sapore quasi argentiano degli omicidi, rappresentati in modo più caotico rispetto ai capolavori di fotografia del regista romano). La signora Wardh, l’autentico totem di questo film, è un personaggio semplicemente perfetto: perennemente sospesa tra una mitezza di fondo ed una voglia di trasgredire le regole, e metaforizzato dall’idea del sangue. Il liquido vitale che richiama l’idea di morte, un fluido che da un lato ne soddisfa i desideri morbosi, e dall’altra la terrorizza e le fa avere delle allucinazioni. A confronto con lei gli altri interpreti, tra cui un Rassimov particolarmente in forma, semplicemente si offuscano.

    La Wardh, lontana un miglio dalla mera retorica della “borghese snob ed annoiata”, sorprende forse per il suo essere camaleontica e a tratti incomprensibile: annoiata e scontrosa con il marito con cui ha perso sintonia, sottomessa con il violento Jean (un mefistofelico Ivan Rassimov), dolce ed amorevole con George – e senza vuoti romanticismi. Insomma, un personaggio umano simbolico della cattiveria, dell’ambiguità, della falsità e della violenza innata di ognuno di noi.

    (la signora Wardh addenta una mela) Cosa significa, che mi vuol mangiare?

    …significa che l’ho già mangiata!

    Da ricordare la citazione sugli assassini di Freud, che compare dopo pochi istanti dall’inizio, molto rappresentativa:

    Il fatto stesso che il comandamento ci dica: «Non ammazzare» ci rende consapevoli e certi che noi discendiamo da una interrotta catena di generazioni di assassini, il cui amore per uccidere era nel loro sangue come, forse, è anche nel nostro

    La frase che compare nel bigliettino del mazzo di fiori nella prima metà del film dà il titolo al successivo Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, sempre del medesimo regista. Nora Orlandi ha contribuito alla realizzazione delle musiche del film (in particolare con “Dies Irae 2“), mentre il succitato Tarantino ne ha riproposto le sonorità nel suo “Kill Bill Vol. 2“.

    L’unica cosa che non sopporto è l’indifferenza: l’odio è un bel sentimento, come – e più – dell’amore.

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