Salvatore

  • Cani arrabbiati: il cult di Bava che terrorizza ancora oggi

    Cani arrabbiati: il cult di Bava che terrorizza ancora oggi

    Una rapina finita male è l’inizio di un road movie da incubo: uno dei migliori cult del cinema estremo all’italiana.

    In breve: cinismo, claustrofobia, personaggi molto caratterizzati e finalone a sorpresa costituiscono i quattro ingredienti di “Cani arrabbiati” di Mario Bava. Per chi volesse vedere i film più controversi è un vero e proprio must, più solido come narrazione rispetto a troppi successori/imitatori.

    Partendo dal titolo del film, e pensando al fatto che è stato inedito per anni, ristampato in versione edulcorata nel finale solo anni fa, viene subito da pensare che si tratta dell’essenza della “metà oscura” di Mario Bava. Il regista ha infatti diretto prevalentemente horror, ma è stato artefice in uno dei suoi momenti più ispirati dello slasher-movie per eccellenza Reazione a catena. In breve è stato un terrorista dei generi come Fulci, e Cani arrabbiati è l’esposizione alla luce solare di tutti gli archetipi di crudeltà umana, dove non esiste speranza di salvezza e a trionfare sono la violenza ed il mero interesse economico. Il tutto usando il linguaggio della violenza e dell’exploitation, raramente a livelli tanto lucidi quanto insostenibili.

    Si tratta di un thriller atipico, per il fatto che è ambientato quasi interamente nello spazio ristretto di una macchina, nella quale tre criminali prendono in ostaggio un uomo, una donna ed un bambino che hanno la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. I tre cattivi della storia (“Dottore”, “Trentadue” e “Bisturi”) non sono che degli avidi psicopatici che uccidono senza rimorso, in nome di uno sgangherato ed imprescindibile “mors tua, vita mea”: al tempo stesso dimostrano di possedere un lato prettamente umano, che spiazza ed inchioda lo spettatore alla poltrona fino all’ultima scena.

    Ed in quella lotta all’ultimo sangue per “tutto o niente”, che ricorda vagamente il discorso di Giulio Sacchi in “Milano odia…“, risiede il significato di questo Bava nichilista e profondamente pessimista. A cominciare dall’inaspettato e pazzesco finale, in cui si scopre un velo di Maya che mostra una realtà inaspettata, forse ancora meno sostenibile del racconto in sè. Il che significa, in altri termini, l’impossibilità di catalogare i comportamenti per divisioni preconcette tra bene e male, oltre a rappresentare il prezzo da pagare per sopravvivere, che è spesso – per assurdo – moralmente inaccettabile. Ognuno lotta per se stesso, e lo sforzo finisce beffardamente per non essere quasi mai correlato all’effetto finale che provoca.

    Tra gli attori, da ricordare Riccardo Cucciolla in una delle sue migliori interpretazioni, e Don Backy che interpreta il crudele “Bisturi”, le cui confusioni mentali vengono bizzarramente (e in modo geniale) rese da una pallina di flipper che rimbalza mediante un frenetico montaggio. Claustrofobia su pellicola senza contaminazioni, se non quelle suggerite dalla strada – e parlare solo di road-movie appare quantomeno limitativo. Realizzato nel 1974, in realtà non uscì all’epoca (la casa di produzione fallì), e soltanto anni fa è stato recuperato con il titolo Semaforo rosso e riproposto in DVD; ad oggi, è un titolo piuttosto agevole da reperire (RaroVideo). Probabilmente le tematiche trattate, unite al lugubre pessimismo sull’uomo che accompagna il film, non furono incentivi alla pubblicazione e diffusione dell’opera, rimasta semi-sconosciuta per molto, troppo tempo.

    Le musiche sono di Stelvio Cipriani, uno dei più grandi musicisti di cinema anni 70 ed autore di numerose altre colonne sonore (Incubo sulla città contaminata, La morte cammina con i tacchi alti e lo stesso Reazione a catena).

  • Morituris: il film di Raffaele Picchio è stato uno dei più massacrati dalla censura di ogni tempo (purtroppo)

    Tre giovani e due donne si recano in macchina ad un rave: questo è quanto fanno credere…

    In breve. Un film crudo e terrificante, un saggio magistrale di decadenza come non se ne vedevano da anni: censurato in Italia con poco giustificabili toni inquisitori, ed ingiustamente maltrattato da chi non ha saputo neanche vederlo, è uno slasher quasi revenge movie che gioca a decostruire il genere, meritevole di rispetto e di una riscoperta. Un vortice di nichilismo, realismo e ferocia umana, ispirato parecchio al primo Wes Craven.

    Abbiamo trascorso anni della nostra vita da recensori a farci affascinare, deprimere o esaltare da prodotti cinematografici al limite dell’amatoriale, spesso qualitativamente non eccelsi, con l’etichetta cult appiccicata a volte meritatamente, altre a casaccio. Abbiamo sofferto nel vedere certe produzioni, soprattutto quando le idee non mancavano, provando a salvare il salvabile – e stroncando ove e quando necessario lo stroncabile (difetti di recitazione e buchi narrativi, in primis). Abbiamo trascorsi serate tra amici e conoscenti a raccontare quante sorprese sappia riservare il cinema di genere, sentendoci fare “spallucce” un numero innominabile di volte. Di una cosa, pero’, potete stare certi: il cinema di genere exploitation non sarà più quello di prima, per voi, dopo aver visto questa opera prima di Raffaele Picchio. Morituris è libero da qualsiasi carattere di amatorialità e mostra che, una volta nelle sale, ogni film può possedere pari dignità: peccato che questo film non abbia avuto questa opportunità, visto che è stato bloccato dalla censura italiana e ne è stata vietata la proiezione in qualsiasi cinema (festival esclusi).

    Un film sporco, violento e destinato a lasciare il segno sullo spettatore, prendendo abbastanza evidentemente ispirazione dal primo Wes Craven (quello del cult L’ultima casa a sinistra), ma andrebbero citati anche L’ultimo treno della notte di Aldo Lado ed il torbido Cani arrabbiati di Mario Bava. Picchio non ama scherzare col cinema, in tutti i sensi: se da un lato infatti mostra una certa maestria nel riprendere (considerando che moltissime scene sono girate al buio), dall’altro evita di virare sui toni da cine-fumetto che tendono, in questi casi, ad ammorbidire il contesto mediante le solite abusate dicotomie Buoni/Cattivi o Indiani/Cow-Boys. Morituris è un horror slasher in cui non devi parteggiare per nessuno, non puoi farlo perchè è un prodotto talmente atipico ed originale da non consentirtelo. Il risultato, certo, potrà sembrare visivamente eccessivo ad alcuni, ma a ben vedere l’insistere sulla violenza (e le accuse di misoginia conseguenti) è un ingrediente necessario, parte dell’intreccio stesso (e della decadenza che condanna), necessario per generare un climax di tensione che giunge all’estremo nella (parecchio emblematica) scena finale.

    La tagline del film è “il male ha la meglio“, ed è così. Non volevamo fare una commedia horror, bensì una metafora surreale di ciò che, realisticamente, producono le azioni malvagie. Quando una bomba nucleare esplode, muoiono tutti (R. Picchio)

    Girato con spirito antropologicamente pessimista (la tagline del film non poteva che essere “evil prevails”) Picchio mostra non solo di conoscere “tarantinamente” il cinema di genere – ed in particolare l’exploitation – ma anche di saperlo rielaborare, usando bene i mezzi a sua disposizione ed esplicitando l’orrore in modo sorprendentemente equilibrato. Nonostante la violenza sia spesso ben visibile (e questo ovviamente, non lo rende un film da guardare “a cena coi parenti“: del resto, quale horror di qualità lo è?), si gioca sapientemente sul “non visto” e sugli sguardi malati (oltre che sulle perversioni) dei protagonisti: no violence for free, at all, per usare le parole del regista stesso, perchè tutto ciò che si mostra è necessario al contesto. Il quadro che ne esce è notevole: non solo i carnefici subiscono un violento contrappasso (che non dovrebbe essere una novità), ma anche le vittime non sono risparmiate da un culto della vendetta assoluto ed al di sopra di tutto, e che si propaga evidentemente da millenni.

    Vagamente ispirato al massacro del Circeo (il terribile fatto di cronaca nera avvenuto nel settembre 1975), Morituris si avvenutra in una storia di violenza girata con taglio quasi documentaristico, cupo e molto realistico, con tre giovani romani che adescano, con la scusa di un rave, due ragazze.  Dopo averle ferocemente violentate, scopriranno un Male assoluto (un gruppo di feroci gladiatori non morti) in grado di colpire con una cattiveria ben più grande della loro.

    Si ibridano nel film due componenti principali: da un lato la exploitation più cruda, dall’altro (abbastanza curiosamente per il contesto) l’horror a tinte sovrannaturali: il risultato di questo intelligente mix è uno slasher efficace, realistico quanto legato alla teatralità mitologica dei gladiatori dell’Antica Roma, ed alla rivolta di Spartaco in particolare. La scelta di attenuare l’elemento revenge dalla storia – che comunque, a suo modo, è presente quanto abbreviato dalle circostanze – è spiazziante, almeno quanto la citatissima sequenza dello stupro con le forbici (tensione allo stato puro). Al tempo stesso, Picchio riesce a non appesantire il contesto, che resta ovviamente più nero della notte ma che mostra qualche accenno di un sentire più vario, dagli aggressori che non capiscono il latino fino all’avviso finale, che ricorda agli spettatori che nessun animale è stato maltrattato in questo film (solo vedendo la scena del topolino, altra sequenza spoilerata senza pietà dal vituperato “popolo del web“, si può afferrare l’ironia).

    Al tempo stesso, al netto delle sproporzionate polemiche da parte di chi aveva stabilito non potesse andare nelle sale (c’è una Commissione Censura che lo ha fatto) Picchio e Perrone sono stati inequivocabili sul messaggio sottinteso (i personaggi non si chiamano mai per nome, perchè rappresentano archetipi universali di umanità; per non parlare del sulfureo in memory of mankind visibile sui titoli di coda), ma non c’è dubbio nemmeno sul contesto narrativo (i protagonisti sono three young, rich-upper class, fascist roman guys pick up two Italian girls), sulla caratterizzazione dei personaggi (la loro doppiezza è inquietante quanto realistica), ed infine sul genere, che è un thriller-slasher a tinte fosche girato quasi come uno snuff (molte riprese in movimento, ma nessun effetto “mal di mare” ed altrettanta perizia nel riprendere e nessuna inutile pornografia della violenza, per inciso).

    Non vi è alcuna speranza di redenzione o di vendetta in Morituris, il che è probabilmente sottinteso nel nome stesso del film: forse è questo, più di tutti, a rendere il film destabilizzante quanto preda di polemiche feroci, spesso da parte di webeti e a volte inappropriate. Certo, probabilmente il film non è perfetto, ma è pur sempre un’opera prima, non presenta momenti di calo, è ben recitato (e questo è un punto a favore considerevole), ma credo in tutta franchezza che farlo passare per uno snuff di bassa lega (come anche testate horror normalmente competenti e sempre sul pezzo hanno fatto) sia fuori luogo quanto profondamente ingiusto. Guardatelo con l’idea di assistere ad uno spettacolo estremo, certo, ma anche ricco di qualità e di idee, ed ovviamente preparatevi a soffrire (nel senso migliore del termine).

    Morituris si trova in DVD su Amazon (la versione che ho linkato è la francese uncut in lingua italiana di 90 minuti, della Elephant Films), mentre quella tagliata ne dura solo 83, ed è uscita per la Sinister Film.

    Nota: le parole del regista sono tratte da una interessante intervista al sito Bloody Disgusting.

  • Quando il buio si avvicina, c’è Kathryn Bigelow di mezzo

    Un giovane della provincia americana conosce una vampira ed il suo gruppo di compagni…

    In breve. Storia di vampiri mix di road-movie, horror e western, in una delle prime riedizioni modernizzate (cioè private di ambientazione ed elementi classici) mai viste sullo schermo (non la prima in assoluto, come scritto da qualche parte sul web); le idee ci sono, lo stile pure ed il risultato è senza dubbio considerevole, soprattutto considerando il periodo. Resta la considerazione che si tratta di un film che cerca una propria dimensione ma che riesce, di fatto, a convincere solo in parte.

    Anni prima di Rodriguez (Dal tramonto all’alba) e Carpenter (Vampires) Kathryn Bigelow – nota anche per Point Break e Strange days, qui al suo esordio alla regia (se si esclude The loveless del 1982) – confeziona una variazione sul tema vampiri in chiave western: decide di ambientarla nella provincia americana, con gli immancabili hillbilly, bettole malfamate e oscuri individui che si aggirano in essa a caccia di nuove vittime. Sarebbe l’ennesima banalità su un tema, ad oggi, forse troppo abusato, oltre che con poche pellicole davvero degne di attenzione: eppure le idee qui ci sono, molto prima dei ben più noti epigoni anche dello stesso, succitato, John Carpenter, che pure – a dirla tutta – non era esente da difetti. Tra le curiosità del film, il fatto che la parola “vampiro” non venga mai pronunciata da nessun personaggio,

    Sul fronte puramente storico, si tratta di una trasfigurazione del mito del vampiro in chiave moderna – se per moderna, ovviamente, intendiamo l’America degli anni ’80: collocando la storia nella provincia, e dando l’incipit all’intreccio sulla base del flirt tra il giovane Caleb e l’affascinante Mae, vampira che contamina il ragazzo e lo introduce forzatamente nel suo gruppo. Emblema dell’americano d’epoca – con un chiaro riferimento all’eroe stereotipato alla John Wayne, che diffida dal vampiro/”diverso” e si fa trovare pronto a trarre in salvo le  proprie donne – “Il buio si avvicina” è un multi-genere ben scritto, ben recitato (si racconta ad esempio che Lance Henriksen girovagasse in zona, nelle pause delle riprese, rimanendo calato nel suo personaggio, rischiando quasi di essere arrestato da un poliziotto che lo aveva fermato) ed altrettanto ben diretto, innovatore e senza timori di violare le “regole del gioco” (sulla pistola di uno dei vampiri è presente una croce, come a simboleggiare che certe regole sono cambiate per sempre) ma con un unico difetto di fondo, legato ad un piano narrativo a tratti scontato e prevedibile. La stessa mitologia del vampiro resta volutamente vaga, tanto che non riusciamo mai a vedere se ad esempio possano riflettersi nello specchio, o essere danneggiati da una croce: abbiamo solo testimonianza che sono difficili da uccidere, che temono la luce e che naturalmente cercano sangue.

    Il film si sviluppa secondo le tecniche narrative e visuali tipiche del western, una componente di road-movie (i vampiri sono dipinti come una specie di reietti, perennemente in fuga), una discreta componente horror ed una storia che si fa preferire nella prima che non nella seconda porzione. Potrebbe sembrare un aspetto positivo in termini di originalità, ma il climax di tensione e l’esasperazione del conflitto vampiri-umani viene brutalmente tramortito dall’happy end che la regista ha imposto alla storia, il che tende – a mio parere, s’intende – a disinnescare l’opera, nonostante tutti gli aspetti positivi ed il contesto che sto cercando di considerare. Diversamente – con un tocco di nichilismo e disillusione in più, in un certo senso, “obbligatori” per una storia di vampiri –  sarebbe potuto essere per i film sui vampiri tranquillamente ciò che, ad esempio, Hardware – Metallo letale è stato per l’argomento cyberpunk nel cinema. Nella realtà delle cose, in questa sede resta la sensazione di aver visto qualcosa di parzialmente riuscito, che peraltro un regista come Tony Scott (nonostante la produzione si fosse intromessa nella realizzazione, imponendo di cambiare il finale) aveva meglio concretizzato anni prima col suo Miriam si sveglia a mezzanotte.

    Il film è basato a buoni personaggi – la triade di vampiri in copertina, uniti alla figura del giovanissimo Homer, è da manuale del genere – mostra una visione certamente originale sul tema, e focalizza soprattutto i tormenti di un “neofita” nel dover “andare a caccia” ed uccidere per poter sopravvivere. Finisce pero’, a conti fatti, per essere penalizzato dalla volontà di far finire la storia in maniera, se non altro, necessariamente rassicurante, quasi conformista: il vampirismo, dalla visione di Near dark, risulta essere una specie di malattia da cui è possibile (o addirittura indispensabile!) guarire.

    Nonostante tutto, siamo al cospetto di un cult del suo genere, e troviamo scene notevoli e sequenze epiche degne del miglior cinema dell’epoca, o se preferite una rilettura del genere più che apprezzabile, soprattutto a confronto di epigoni smielati e fuori luogo spopolati sugli schermi in anni recenti. Sul piano musicale la colonna sonora è impreziosita dai contributi dei Tangerine Dream.

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  • Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Una squadra specializzata in missioni speciali capitanata da Dutch (Schwarzie) viene inviata in America Centrale, nel bel mezzo di una giungla, per salvare un ministro ed il suo collaboratore rapiti dai ribelli. Scopriranno che le cose non sono esattamente come avrebbero creduto, e che la foresta è popolata da un feroce predatore extraterrestre…

    In breve. Ibrido horror-fantascientifico ambientato nella giungla, che vanta una delle migliori interpretazioni dell’attore austriaco Schwarznegger e si segnala per il debutto dello Yautja, il crudele cacciatore di prede umane: inizia come un film di guerra dai toni ordinari, per poi evolvere in uno dei più cruenti body-count mai visti al cinema. Un culto assoluto per il genere.

    Predator di McTiernan, nato da un’idea inizialmente scherzosa (far combattere Rocky contro E.T.) e presa maledettamente sul serio nello sviluppo dell’intreccio, rappresenta uno dei pochissimi action-horror che non risente dell’età che ha: prese spunto dai film di guerra più in voga all’epoca (Platoon, ad esempio), e rielaborò lo stereotipo dei militari solidali in lotta non contro un nemico umano bensì uno misterioso, extraterrestre, a tratti sovrannaturale. A Schwarznegger, per una volta, viene relegato un personaggio con un buon livello di spessore (ovviamente relativo al contesto di cui si parla), che sarà naturalmente l’eroe indiscusso dell’intera vicenda e del suo indimenticabile finale. La lotta tra umani ed alieno, di fatto, prende inizio da una storia di tutt’altro tipo – una sorta di complotto militare ordito dalla CIA – un intreccio secondario che viene poi letteralmente abbandonato sul posto: non c’è tempo, nè modo, di occuparsene, dato che Predator è già sulle tracce degli umani. Le epiche musiche di Alan Silvestri sono semplicemente perfette a scandire i vari momenti del film, che si alternano tra fasi di meditazione e preparazione alla guerra ed altre di autentica violenza, che in certi momenti esita qualche istante prima di esplodere e mantiene sempre un filo di tensione molto equilibrato e gradevole. Un film essenzialmente d’azione, quindi, nel quale non mancano elementi prettamente horror (i corpi scuoiati, le esecuzioni al limite dello splatter), frammisti ad altri di fantascienza, guerra e più in generale dinamiche da survival movie; del resto la sopravvivenza, il vero leitmotiv del film, è evidenziato splendidamente dalla sequenza in cui il protagonista umano si cosparge di fango per non farsi vedere dall’alieno, coronando uno dei capolavori del genere (quantomeno degli anni 80). Privo di momenti di calo e con personaggi ben caratterizzati, si fa ricordare – oltre che per l’innovativa vista ad infrarossi della creatura aliena – per la figura del rude pellerossa (Billy) – silenzioso, meditativo e molto più sensibile dei suoi commilitoni alle bizzarrie ed ai pericoli della natura. Il male assoluto, l’alieno ostile agli uomini – e con i quali “gioca” esattamente come farebbe un cacciatore con le proprie prede – “el diablo cazador de hombres” fa intuire di esigere il proprio tributo di sangue periodicamente, stilando così i presupposti per un’ennesima saga orrorifica ottantiana, non sempre riuscitissima nella sua evoluzione per quanto subentrata nell’immaginario collettivo da molti anni.

    Un vero masterpiece del genere (nonchè uno dei miei film preferiti in assoluto) che ogni spettatore dovrebbe aver visto almeno una volta nella vita.

    « Ho paura, Poncho. Laggiù c’è qualcosa in agguato, e non è un uomo. Moriremo tutti.»

  • Sinister: la creatura di Derrickson in bilico tra serial killer e sovrannaturale

    Ellison è uno scrittore in crisi: il suo libro “Kentucky Blood” è stato un best seller, ma attualmente vive nel dimenticatoio, e sta cercando l’ispirazione per un nuovo lavoro. Tacitamente memore del Jack Torrance di Shining, si stabilisce con la famiglia all’interno di una casa in cui, come vediamo dall’inizio, sono avvenuti degli orrendi omicidi. Il ritrovamento di una serie di filmini in formato Super 8 introduce ad un terrificante “filo” che sembra ricondursi ad un killer seriale.

    In breve. Horror a tinte sovrannaturali che affascina per via della possibile spiegazione razionale che lo accompagna: per quanto il ritmo possa latitare in certi momenti, certamente un buon film con finale neanche troppo “telefonato”.

    “Innegabilmente spaventoso”, “prevedibile”, “spaventoso ma artificioso”: queste alcune delle controverse reazioni della critica alla prima visione del film: un lavoro diretto e sceneggiato da Derrickson che non delude le aspettative.  Sviluppando uno degli archetipi più classici del cinema del terrore e thriller – una situazione parzialmente ordinaria che degenera, più una serie di segreti ben nascosti nella storia – il regista ci propone in particolare un Ethan Hawke in gran forma, credibile ed immedesimato nella parte. Chi ha girato il filmato della morte della famiglia? Per quale ragione non è stato ripreso uno dei componenti? Perchè è stato realizzato il tutto? Sono queste le domande che angosciano il protagonista, coadiuvato dalle interpretazioni intense e coinvolgenti dei propri familiari. Alla base di questo singolare thriller contaminatissimo con l’horror, vi è di fatto una situazione di conflitto legata alla tensione che trasmette il protagonista per via del lavoro che svolge (scrivere romanzi incentrati su fatti reali di cronaca nera).

    La figura di Bughuul, demone mangiatore di bambini (riferito nel film come Mr. Boogie, “l’uomo nero”), viaggia attraverso il tempo e lo spazio alla ricerca di giovani vittime di cui nutrirsi. Figura senza dubbio affascinante la sua, perchè rielabora curiosamente la figura del villain – come potrebbe esserlo Nightmare, Smiley o Jason – e ne arrichisce i connotati, inserendovi elementi di pseudo-tradizione babilonese. Questo è uno degli elementi di forza di una storia che, in “Sinister“, probabilmente qualcuno potrebbe trovare prevedibile ma che, di fatto, non lo è neanche troppo, specie se si considera il sulfureo (e nerissimo) finale. La quasi totalità dell’intreccio di “Sinister“, dal canto suo, si fonda sulla contrapposizione amore/odio instauratosi tra Ellison – che suggerisce una morbosa ricerca della verità, anche a costo di superare ogni limite – e Tracy, che invece simboleggia la coesione della famiglia, e più in generale l’importanza della sfera emotiva. Di fatto questo tipo di contrapposizione riesce, seppur con qualche piccola forzatura, a far emergere un film di buon ritmo e livello, capace di appassionare anche lo spettatore più smaliziato. Certamente non mancano riferimenti e citazioni più o meno spudorate: a parte un parziale parallelismo con Shining, svariati elementi di “Sinister” richiamano The ring, una certa tradizione horror nipponica legata ai demoni che tornano ciclicamente (Ringu, Noroi, Izo), le atmosfere di Them e, in buona parte, quelle snuff-orrorifiche di REC.

    Per questa ragione piacerà senza dubbio a chi è amante di questo genere di scenari, per quanto la struttura stessa del film riesca ad aprirsi ai gusti di più di un tipo di pubblico, anche quello meno avvezzo – come il sottoscritto – alle pellicole incentrate su eventi sovrannaturali.

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