Salvatore

  • Baskin: l’horror splatter surrealista che non dimenticherete facilmente

    Baskin: l’horror splatter surrealista che non dimenticherete facilmente

    Un gruppo di poliziotti riceve una chiamata di emergenza per recarsi in un edificio abbandonato: troveranno ad attenderli un gruppo di efferati individui.

    In breve. Incubo surreale per un gruppo di poliziotti, costretti a fronteggiare un nemico apparentemente invincibile e, forse, la propria coscienza. Soprattutto per appassionati di horror senza remore, con livello di gore abbastanza alto.

    Coproduzione turca e americana e girato in sole 28 notti, Baskin è un buon horror recente dal ritmo incalzante e con una certa dose di surrealismo, che poi si traduce in sogni (o allucinazioni) che vive uno dei protagonisti (neanche a dirlo, quello con cui buona parte del pubblico tenderà ad identificarsi). Un thriller a sorpresa con presupposti da mistery movie puro, con tanto di poliziotti in atmosfera pulp decisamente umanizzati e, per certi versi, non esenti da difetti – tanto da evocare i più celebri anti-eroi di John Carpenter, regista certamente influente su questo lavoro a cominciare dal compromesso, più che riuscito, tra atmosfere oniriche, elementi simbolici (le rane) e splatter. Film che, per inciso, è tratto da un corto omonimo dello stesso regista, che viene qui sviluppato per esteso con integrazioni e modifiche dove necessario (nel corto, ad esempio, il Padre è una Madre).

    C’è da dire che il film non potrà passare indifferente agli occhi del pubblico, o quantomeno al cospetto di quello orientato sugli horror con elementi apparentemente sconnessi e, in certi caso, a dispetto della causalità degli eventi raccontati. A questi personaggi così umani quanto brutali, come vedremo, il destino sembra aver riservato uno dei più crudeli avversari da dover fronteggiare, caratterizzato dalla figura del Padre (ispirato, a quanto pare, al Colonel Kurtz di Apocalypse Now) e dei suoi deformi adepti: il Padre, peraltro, è anche l’unico personaggio in grado di dare un indizio concreto sul senso del film.

    Sembra che il tutto ruoti sulle efferatezze di una crudele setta, che esplica il proprio culto attraverso sanguinolenti rituali, e fa assumere ad ogni atto, in modo forse non troppo esplicito, un significato di espiazione da qualche peccato commesso in passato. Senso che, al netto delle mie (come di altrui) speculazioni, ogni spettatore dovrà saper trovare, soprattutto per il finale sui generis che chiarisce alcuni punti della trama e fornisce quello che in linguaggio urban viene definito mindfuck: un elemento, quello onirico e spazio-temporale in particolare, che ridefinisce l’ambiente e le circostanze, chiarendo ed forse razionalizzandone certi aspetti. Questa è forse la cosa che ho apprezzato di più a caldo, anche se per esperienza so che si tratta di un aspetto soggettivo che non tutti coglieranno. Che poi molti non abbiano tempo, voglia e volontà di coglierli è altra storia, peraltro ben nota per tutti gli horror surrealisti di cui sono a conoscenza, ma di questa chiusura imprevedibile ed efficace va ampiamente dato atto al regista.

    In un’intervista a Fangoria a riguardo, il Evrenol ha indicato Descent e Frontiers come sue principali ispirazioni per questo film: chi ne ha visto almeno uno, a questo punto, potrà farsi un’idea coerente di ciò che vedrà. Avrei aggiunto – parere personale, of course, dato che non ho la pretesa di saperne di più del regista – anche Hellraiser alla lista delle influenze, sia per le atmosfere cupe che per i continui viaggi tra sogno, dimensioni e realtà e sia, forse soprattutto, per la figura del padre, che non avrebbe certo sfigurato come cenobita. Non approfondisco il discorso per evitare spoiler involontari, ma per completare la lista di analogie ci sarebbe da citare il sottovalutato Shadow di Zampaglione, che certe intuizioni e simbolismi li aveva (ri)proposti già anni prima.

    Non mancano in Baskin (secondo Nocturno il titolo potrebbe fare riferimento alle parole repressione o coercizione) i punti di contatto con altri film horror, e sarebbe impossibile – quantomeno a livello di impianto narrativo – non citare anche il recente 31 di Rob Zombi, molto simile nella situazione quanto meno grottesco e, se possibile, più sinistro. Molto probabile che Zombi abbia potuto ispirarsi almeno in qualcosa per questo singolare lavoro per il suo ultimo film: del resto il cinema di genere è (anche) un gioco di rielaborazioni. Al di là dell’impianto narrativo, la situazione sa apparentemente di già visto, per quanto l’attenzione resti sempre viva: questo soprattutto perchè i protagonisti sono dei poliziotti, e non i classici giovinastri in cerca di avventure e dal destino segnato. Ciò a mio avviso tende a proporre chiavi di lettura molto varie, forse al di là della classica redenzione e catarsi legata ad analoghe “discese all’inferno”: abbastanza, insomma, per dire che si tratta di un buon film.

  • The Rocky Horror Picture Show: guida pratica per chi non ne sa ancora nulla

    Brad Majors confessa il suo amore a Janet Weiss, e poco dopo partono per far visita al Dr. Everett Scott, il loro ex-insegnante di scienze; un temporale improvviso ed uno pneumatico forato li costringe a dirigersi verso un vecchio castello…

    In breve. Musical cinematografico divertente, splendidamente diretto ed interpretato, ovviamente fuori dalle righe; concepito come gigantesco tributo al mondo dei b-movie, mai passato di moda fino ad oggi.

    I’ve done a lot, God knows I’ve tried
    To find the truth, I’ve even lied
    But all I know is down inside I’m bleeding.
    And Super Heroes come to feast
    To taste the flesh not yet deceased
    And all I know is still the beast is feeding.
    And crawling on the planet’s face
    Some insects called the human race
    Lost in time, lost in space… And meaning

    Diretto da Jim Sharman due anni dopo il debutto del musical, si tratta di uno dei più popolari cult del genere, tratto da una sceneggiatura del regista stesso e di Richard O’ Brian (che recita nel panni del maggiordomo-alieno Riff Raff), capace da un lato di tributare il mondo dei b-movie e, dall’altro, di presentarsi in maniera autenticamente trasgressiva, divertente e fuori dagli schemi, quantomeno per l’epoca in cui uscì.

    L’intreccio del Rocky Horror Picture Show è noto: una coppia della provincia americana, casta e inibita, si imbatte casualmente nello spettrale castello del bizzarro Dr. Frank-N-Furter, carismatico scienziato in reggicalze che vuole costruirsi un amante perfetto artificiale. Al di là di questo (e dei suoi successivi ed imprevedibili sviluppi) è interessante analizzare nel film la presenza di due componenti: quella puramente ludico-sessuale che, naturalmente, trasuda da ogni poro, alternando momenti spassosi ad altri, come la prima comparsa di Frank-n-Furter, che sono rimasti scolpiti nell’immaginario collettivo, ed una seconda più seria (mai troppo, se non nel tragico e secondo alcuni enigmatico finale), che si ricollega in più parti ad una delle opere d’arte più celebri degli anni ’30 in America.

    Mi riferisco naturalmente ad American Gothic“, il dipinto del 1930 realizzato dall’artista statunitense Grant Wood, che viene periodicamente parodizzato all’interno del film, e questo fin dal primo istante in cui compare la coppia Richard O’Brien / Patricia Quinn.

    Poco prima del Time Warp, la danza rock’n roll che simboleggia il film più di qualsiasi altro brano, alle spalle di Riff Raff è possibile vedere il dipinto in questione.

     

    Con nomi del calibro di Susan Sarandon (che pare non accettò di recitare nuda, come le era stato richiesto, durante l’autoesplicativa Touch me, Touch me), Barry Bostwick, Tim Curry (che vestirà 15 anni dopo i panni dell’inquietante Pennywise the Dancing Clown, nella trasposizione cinematografica del romanzo IT di Stephen King), Patricia Quinn (comparsa anche nel recente Le streghe di Salem sempre di Rob Zombi) e gli altri protagonisti del cast del Royal Court Theatre, il Rocky Horror Picture Show è diventato uno dei midnight movie per eccellenza, amato incondizionatamente da generazioni di fan. Guardarlo ad Halloween, ad esempio, è un rituale impossibile da mancare per qualsiasi appassionato, e la fama del Rocky Horror Picture Show ha avuto continue conferme, tanto da essere riproposto più volte al cinema, in TV ed ovviamente nella movimentatissima versione teatrale The Rocky Horror Show. Il Museum Lichtspiele (Monaco di Baviera) ha riproposto il film settimanalmente dal 1977, offrendo al pubblico uno speciale RHPS-Kit per consentire una opportuna partecipazione del pubblico: quest’ultimo conteneva un biscotto, del riso, un fischietto, una candela ed ovviamente le istruzioni cartacee per eseguire il Time Warp.

    Nell’immaginario di Sharman, bravo a dipingere magistralmente la storia e ad alimentarla in un turbine di riferimenti culturali americani – a cominciare dal celebre American Gothic – a finire alle figure archetipiche della sci-fiction classica, dai mostri ai vampiri passando per scienziati nazisti in incognito ed alieni armati di raggi laser, espressione (gli ultimi due in particolare) di una società sempre più repressiva nei confronti della libertà sessuale e della disinibizione. Il brano simbolo dell’opera rimane probabilmente Don’t dream it, be it, un monito ai personaggi (ed al pubblico che assiste, ovviamente) a liberare il proprio io e a non limitarsi di sognare la propria liberazione sessuale, ma anche viverla nel modo più appagante ed incurante del perbenismo dominante: simbolo di questa trasformazione sarà proprio la trasformazione di Brad e Janet, iniziati entrambi al sesso dal conturbante Frank-N-Furter, creatore di un novello frankstein dal fisico scultoreo, e che intende utilizzare come giocattolo sessuale. Sembra poca cosa se raccontata a parole, ma la carica erotica e spassosa del film resta intatta dopo tanti anni, e sembra quasi voler omaggiare la celebre massima di Woody Allen “il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere“.

    Probabilmente è questa una delle chiavi di lettura più importanti del Rocky Horror cinematografico, capace di coniugare ironia e serietà senza mai scadere nel serioso o, peggio, nel gratuito: questo, al di là degli imperdibili giochi pirotecnici sulla scena, degli arrangiamenti scenici magistrali, della regia perfetta e dei continui doppi sensi di cui è pervaso il film, molti dei quali smarriti nell’approssimativa traduzione italiana: tanto per fare un esempio, Riff Raff accoglie i due protagonisti alludendo all’essere “wet” – tradotto un po’ alla buona come fradicia a causa della pioggia. L’allusione è (era) piuttosto esplicita, e la donna mostra di averla colta, anche con un certo risentimento. Ovviamente non esiste una versione doppiata del Rocky Horror (la versione italiana è sottotitolata), e verrebbe da pensare che sia un piccolo miracolo che a nessuno sia mai saltato in mente di farne una.

    Numerose le ulteriori curiosità su questo film: la locandina dell’epoca riporta un riferimento parodico al film Lo squalo (Jaws, cioè fauci, letteralmente), e recita: “The Rocky Horror Picture Show – a different set of jaws” (più o meno “qualcosa di diverso da Lo squalo“, con riferimento ironico ad uno dei film più in voga all’epoca). Al di là degli innumerevoli e raffinati riferimenti di genere, il Rocky Horror cinematografico è molto fedele allo spirito da horror puro, con i suoi riferimenti alla cinematografia gotica: le cronache dell’epoca riportano che in molte scene l’espediente utilizzato era quello di non dire agli attori cosa sarebbe successo in seguito, al fine di accentuare la loro reazione spontanea. Ad esempio, pare che la scena della cena con “sorpresa” finale sotto il tavolo (una scena che Rob Zombi citerà in chiave più seria nel suo recente 31) gli attori che interpretano i due fidanzati non fossero a conoscenza di quello che li aspettava, per cui la loro reazione sarebbe autentica.

     

    Come ogni cult che si rispetti, dal film è stato tratto anche un poco noto videogame – oggi retrogame – per Apple II, Amstrad CPC, Commodore 64/128 e ZX Spectrum – prodotto dalla CRL Group, defunta azienda inglese di software che produsse molti altri giochi a tema horror (fonte delle immagini: mobygames.com).

     

     

     

     

     

     

    Nel finale, inoltre, non appena i due fratelli alieni svelano la propria vera identità, l’opera viene riproposta in versione futuristica, dove il forcone (che simboleggia l’essenza del redneck americano e, per estensione, del bigottismo provinciale che si oppone ferocemente alla “decadence” della trasgressione) diventa un laser letale, utilizzato per eliminare sia il dottore che la sua muscolosa bionda creatura Rocky. Il finale del Rocky Horror denota una componente tragica (e per certi versi ermetica), che sembra evocare la caducità dell’esistenza solo in favore di rafforzare il senso di edonismo ed gusto per la sana trasgressione che pervade l’opera.

    In definitiva, l’eredita di questo musicalcult anni settanta è arrivata, a quanto pare, intatta fino ad oggi, per costituire uno dei più celebri musical al mondo, oltre che – naturalmente – uno dei più longevi.

    (informazioni sul film tratte da imdb.com, screenshot tratti da flickr.com/photos/seeing_i)

  • Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Il film è ambientato nel Capodanno del 1999: l’alba del nuovo millennio viene proposta in una prospettiva completamente distopica. Nella New York del degrado e della repressione poliziesca, infatti, si arriva a spacciare le vite altrui in forma di filmati che è possibile iniettarsi direttamente nel cervello. In questo modo si attua una sorta di gigantesco file-sharing delle esperienze umane, fenomeno illegale ed aspramente combattuto dalle autorità. Lenny Nero è un ex poliziotto, licenziato con disonore, che pratica per sopravvivere la diffusione di questo tipo di materiale, e ne abusa egli stesso. Un giorno un’amica gli recapita un singolare wire-trip clip

    In breve. Un quasi-cyberpunk intenso e dai toni romantici, caratterizzato da una sceneggiatura molto intensa e con interpretazioni sempre all’altezza. Peccato, in definitiva, perchè in alcuni punti – tipo nell’approfondimento delle relazioni tra i personaggi – si perde in momenti mielosi che fanno quasi passare la voglia.

    Senza bisogno di scomodare Blade Runner – tutta un’altra faccenda, per la verità – e senza voler sparlare di una delle più prolifiche e creative registe statunitensi (Kathryn Bigelow, artefice del popolarissimo Point Break e dell’horror Il buio si avvicina), direi che Strange Days deve parte della sua fama ad una storia che “odora” molto di Philip Dick, e che potrebbe ricordare A scanner darkly. Certamente i presupposti sono micidiali: l’idea dello spaccio di esperienza altrui in prima persona è qualcosa di davvero molto interessante, che fa riflettere di rimando – tanto per rimanere sul banale – sulla spersonalizzazione che soffriamo nel quotidiano. Questo, di fatto, diventa un solido pretesto perchè queste allucinazioni, molto ben rese, possano fare da contorno ad una curiosa poetica in chiave cyberpunk. La chiave di lettura, come si scoprirà, sta nel misterioso clip che viene rivelato soltanto alla fine, e che mostra uno spaccato di triste realtà che potrebbe, di fatto, provocare una vera e propria Apocalisse.

    Grande merito, quindi, a James Cameron, davvero molto abile nel costruire lo script, e noto per essere stato il regista dei due Terminator (1984 e 1991), di Titanic (1997) e di Avatar (2009 – il che appare come un crescendo di delirio, a suo modo). Dal canto loro gli interpreti se la cavano egregiamente, a parte forse Juliette Lewis che sembra quasi imprigionata nelle caratteristiche del personaggio di Natural Born Killers, esprimendosi così in modo fiacco e poco convincente. A parte questo, potremmo dire che Strange Days inizia bene, prosegue meglio e finisce per annacquarsi, come un ottimo whisky mescolato con acqua di rubinetto, seguendo molti (troppi) dei dettami che l’industria hollywoodiana impone da decenni. Senza bisogno che li citi tutti: favorire l’identificazione del pubblico coi “Buoni”, rendere odiosi i “Cattivi”, rendere lineare la trama, sorprendere in modo piuttosto prevedibile e far trasparire una visione forzatamente ottimistica sull’amore che-viene-e-che-va.

    Molto dell’ accento viene posto, oltre che sui risvolti sociali (cittadino vs. polizia), sul romanticismo della vicenda, e la cosa potrebbe quasi risultare gradevole a qualcuno (beato lui): ma è un’arma a doppio taglio, un trucchetto per tenere viva l’attenzione, quasi come se qualcuno avesse deciso di cambiare i toni più o meno nell’ultima mezz’ora di film. Attenzione che poi, probabilmente intrigati dai mille dettagli della storia, finiamo per perdere del tutto, per orientarci su un volemose-bbene che dovrebbe rendere tutti felici. Ecco, l’ho detto: la nota stonata di Strange Days, al di là dal fascino magnetico di Angela Bassett (quasi tarantiniana nella sua interpretazione) e della bravura di Ralph Fiennes sta proprio nella colossale forzatura favolistica degli ultimi fotogrammi. Lo stesso effetto sgradevole che mi procurò il finale di AI – Intelligenza Artificiale, e chi lo ha visto dovrebbe intuire a cosa mi riferisco. Una cosa su cui non riesco a darmi pace, proprio perchè il concept di Strange Days è realmente esplosivo.

    Mi consolo comunque, solo parzialmente, ironizzando su certe battute, un po’ come faceva Nanni Moretti (“hai mai ZIGOVIAGGIATO? mmm, un cervello vergine“; ma l’originale era “hai mai filo-viaggiato“), e non posso esimermi dall’esprimere un’ulteriore critica sull’eccessiva lunghezza del film: certamente incalzante fino alla fine, ma quelle due ore sono interminabili. Mai davvero ruvido, graffiante e oscuro come l’ambientazione e l’attitudine imporrebbero: quindi, perlomeno, non si scomodino confronti con il capolavoro di Ridley Scott.

    Non certo da buttare, sia chiaro, anzi d’obbligo per molti spettatori assuefatti alle storielline facili: ma tanti altri possono tranquillamente fare a meno di guardarlo.

  • Il primo film di Aldo Lado: “La corta notte delle bambole di vetro”

    Un giornalista viene ritrovato apparentemente morto dentro un parco: in realtà è ancora vivo, ma non riesco a muovere un muscolo pur avendo ancora la capacità di pensare.

    In breve. Il primo film di Aldo Lado (Chi l’ha vista morire?, L’ultimo treno della notte) è probabilmente uno dei più sorprendenti che abbia mai girato: segue la struttura di un giallo argentiano e riesce, soprattutto, ad accarezzare l’horror più incisivo senza inutili eccessi.

    Film decisamente interessante e poco valorizzato dalla critica, che tendenzialmente lo capì poco (le recensioni sul Davinotti, ad esempio, sono discordanti e quasi tutte impietose). Introdotto da una tagline piuttosto classica (When things are not what they seem, ovvero quando le cose non sono quello che sembrano) che sembra dire pochissimo di per sè (le apparenze decostruite diventeranno un classico del cinema horror, da Society in poi), ma che rivela un impianto molto originale. Qualcosa che all’epoca deve avere molto sorpreso il pubblico, che si trovano di fronte una realtà surreale e spaventosa: il protagonista è apparentemente morto, ma riesce ancora a pensare. Si scoprirà che questo stato catatonico è stato indotto da una serie di circostanze, per le quali molta critica arrivò a parlare di vera e propria fanta-politica.

    Dead? I’m dead? Can’t be. I’m alive. Can’t you tell I’m alive? I’ve got to make them see. You! Listen to me! Look at me! Can’t you hear me? Maybe it’s a nightmare. I’ll try to wake up. I’ve got to move. Yeah, a finger. Ca’ Can’t! I must! Don’t leave me like this. Help me! HELP ME!

    Vedere Greg Moore portare la propria compagna (Mira) ad un party in cui sono tutti ricchi, potenti ed anziani non potrà che far pensare al succitato cult di Brian Yuzna, tanto da suggerirne una potenziale ispirazione. La trama si sviluppa come un flashback dei ricordi del giornalista, intervallati dai tentativi di un amico chirurgo che cercherà in ogni modo di rianimarlo. Riuscirà Gregory a svegliarsi prima che la sua ora arrivi definitivamente? Lo scopriremo solo nell’ultima scena, quella che probabilmente ha consacrato la fama di questa opera prima di Lado, a mio modo di vedere, come uno dei migliori film di genere giallo-thriller.

    Esiste un piccolo mistero sulla scelta del titolo, dato che non è esplicitato quali siano le “bambole di vetro” (il titolo originale è The Short Night of the Butterflies, ovvero La corta notte delle farfalle, le farfalle – che, si dice nel film, “non volano più“, uno degli indizi per ricostruire l’enigma). A meno che non si voglia pensare alle bambole di vetro come alle ragazze tenute in stato catatonico e sostanzialmente controllate dalla setta, per quanto questa cosa non sia forse sufficentemente rimarcata dall’intreccio (a parte Mira, solo un’altra ragazza dimostra esplicitamente di aver subito questa sorte: l’americana presentata a Gregory durante il party, poco prima che la sua compagna scompaia nel nulla).

    C’è da sottolineare la parvenza rivoluzionaria dello spaventoso quid della trama, ovvero la capacità di tenere il cervello attivo di una vittima, dandogli esternamente la parvenza di morto. Il non-morto cerca disperatamente di comunicare con l’esterno ma non riescono a sentirlo, e questa cosa viene schiaffata in faccia allo spettatore dopo qualche minuto di film: uno spaventoso stato catatonico che evoca, almeno in parte, il soldato tenuto in vita forzatamente protagonista di E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo.

  • Fantozzi: un esordio col botto, quasi 50 anni dopo

    La moglie del ragionier Ugo Fantozzi non ha notizie del consorte da diciotto giorni: si scopre che è stato murato vivo all’interno del proprio ufficio.

    In breve. Il capostipite di una saga che ha fatto la storia del genere: sfruttando uno stile parodistico e grottesco, che deve moltissimo allo slapstick ed al paradosso, il romanzo di Villaggio diventa un film semplicemente leggendario.

    Il mega-direttore galattico. Le Allucinazioni Mistiche. La mega ditta dal nome impronunciabile, ItalPetrolCementThermoTextilPharmMetalChemical. La mitica partita a calcetto Scapoli vs. Ammogliati, in un campo di calcio pieno di dossi e pozzanghere. Le vacanze a Courmayeur con l’amore impossibile, la signorina Silvani. E poi la Contessina Alfonsina Serbelloni Mazzanti Viendalmare, il ragionier Filini, il geometra Calboni.

    Personaggi e tormentoni che hanno costruito un immaginario che nasce, letteralmente, in questo film – ma che per la verità Villaggio aveva già formalizzato in un triplice romanzo. Un successo straordinario, già all’epoca, rimasto impresso nella coscienza (non solo linguistica) di moltissimi italiani: fantozziano è diventato ufficialmente un aggettivo, per intenderci. Fantozzi esce nelle sale il 27 marzo 1975 e da allora diventa un cult assoluto, anche grazie ai numerosi passaggi nelle TV commerciali negli anni successivi.

    Il taglio registico di Salce è molto influenzato dal personaggio del libro, che Villaggio ha interpretato per molti anni – quale prototipo di dipendente umile, deriso dai superiori e dai colleghi, impacciato con le donne ed assegnatario delle peggiori umilazioni. Come se non bastasse, Fantozzi in questo film diventa pure comunista, conoscendo l’incubo del mobbing (in un periodo in cui, probabilmente, nessuno l’avrebbe chiamato così) e finendo per incontrare il Mega-Direttore in persona – con la sua poltrona in pelle umana e la metafora forse più bella di tutto il film: un vero e proprio acquario, nel quale i dipendenti più meritevoli hanno il privilegio di nuotare liberamente.

    Se molte delle trovate di questi (ma anche dei successivi) film di Fantozzi sono surreali, lo si deve alle scelte anarchiche di Villaggio e del regista, che non perdono occasione per proporre al pubblico i classici slapstick del cinema muto (cadute rovinose, soprattutto), ma anche – per non dire soprattutto, se vediamo il film da adulti – dialoghi leggendari che il pubblico ha assimilato e imparato a memoria negli anni, neanche si trattasse di un classico della letteratura in chiave pop. Perchè Fantozzi, soprattutto qui (un po’ meno nei seguiti, progressivamente meno innovativi) inventa un nuovo tipo di comicità: fisica o corporale, certo, sicuramente efficace e debitrice della satira graffiante e del grottesco puri, il che per molti verso potrebbe richiamare quello (più esasperato e colto, se vogliamo) che proponevano i Monty Python (il parallelismo potrebbe avere senso con Il senso della vita, ad esempio, che uscì quasi dieci anni dopo). Se le disavventure di Ugo Fantozzi fanno già ridere di per sè, la sua storia è tragica: è la storia che fa parte del vissuto ed in cui è possibile quasi sempre identificarsi, tra le frenesie psicotiche della vita di ogni giorno (Fantozzi che prende l’autobus al volo sulla Casilina pur di timbrare in orario), i compromessi dettati dal conformismo e dalla convenzione, il grottesco instillato da personaggi che fanno ridere, ma anche commuovere (Fantozzi che prende le difese della figlia, ferocemente derisa dai colleghi, per poi esprimere loro “i più servili auguri” di buon anno).

    A quel punto potremmo addirittura scomodare Arthur Schopenhauer, nel descrivere un film che nei suoi frammenti è fortemente comico, ma nel suo complesso è un vero e proprio dramma: La vita d’ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia.

    Allora prenderò l’autobus al volo!
    No Ugo, l’autobus al volo no! No Papà!
    Sì, saltando dal terrazzino guadagnerò almeno 2 minuti!
    No Ugo non l’hai mai fatto, non hai il fisico adatto!
    Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato!

    Incluso tra i cento film da salvare nel 2008, fu distribuito dalla Cineriz in doppio cut: uno di 103 minuti, e l’altro di 98. Se non l’avete mai visto o non lo ricordate troppo, è il caso di tornare sul pianeta Terra e provvedere all’istante.

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