Salvatore

  • The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    Il militare David si reca in visita dai genitori di un commilitone morto in battaglia, venendo accolto con commozione e stabilendo un legame emotivo con i familiari: ma chi si nasconde davvero dietro di lui?

    In breve. Sano action-movie come da tradizione ottantiana (si parte dagli stessi presupposti del primo Rambo): trama accattivante e divertimento per il pubblico, a cominciare dalle citazioni a finire dai dialoghi essenziali ed ontologicamente tamarri (nel senso migliore del termine). Ci si diverte con stile, e solo questo conta.

    Girato da Adam Wingard (giovane guru dell’horror noto per You’re Next, The ABCs of Death e recentemente Death Note) con un budget di circa 5 milioni di dollari, The Guest è strutturato con le dinamiche di un film del terrore – tranquillità iniziale, crescendo di tensione e rivelazione/i finale/i – senza pero’ sfruttarne pienamente le dinamiche espressive. Ciò che emerge è un buon thriller molto contenuto (stranamente per Wingard) a livello di sangue e violenza, girato con gusto e recitato in modo gradevole, ben calato nella realtà americana – e strizzando l’occhio ad Halloween (nella sequenza finale, soprattutto). L’idea del film arriva dalla penna di Simon Barret, partito da un’idea di classico film a sfondo revenge, che poi è stata abbandonata causa complicazioni e trasformata dal regista in ciò che il film è: in parte prevedibile dopo un po’, forse, ma assolutamente dignitoso.

    La cosa più affascinante di The guest è legata sicuramente al suo rendersi inclassificabile per circa un’ora di film, almeno fin quando iniziano a delinearsi i tratti essenziali della trama; lo guardi con interesse, e non riesci a capire se vedrai uno slasher, una spy-story, un action puro o un horror cruento. La verità è che non importa granchè, perchè la trama incuriosisce ed avvince lo spettatore, che difficilmente potrà immaginare la sorpresa finale (per quanto, ripensadoci, abbia un che di “grezzo” nel senso accennato all’inizio, tutto sommato divertente). Certo Wingard ama il cinema di genere, anzi in certe sequenze lo venera spudoratamente e lo tributa senza pudore, a cominciare dalla scelta delle musiche puramente ottantiane di Steve Moore. Tanto per capire l’atmosfera, Moore ha sfruttato gli stessi sintetizzatori suonati da Carpenter e Howarth per Halloween 3: Season of the Witch (1982), ed il feeling sembra proprio quello.

    Stevens, protagonista del film, impersona l’enigmatico soldato che irrompe nella vita ordinaria di una famiglia americana, quale archetipo del “buono” in grado di sedurre, combattere e dominare la scena in lungo ed in largo. La sua parte è particolarmente complessa soprattutto per ciò che implica, ed in funzione della sua reale identità, e questo lo rende particolarmente affascinante. Quasi sempre padrone della scena ed egocentristicamente coi riflettori sempre puntati addosso, ha dovuto sostenere un allenamento specifico per sfoggiare il fisico necessario ad impersonare un militare. La cosa è stata talmente voluta da Wingard da spingere il regista a rinviare fino all’ultimo una delle scene clou, per dare il tempo allo stesso di allenarsi e girare la scena del trailer.

    Un buon film, quindi, che riserva qualche discreto colpo di scena ed una buona dose d’azione, in definitiva. Per come viene impostato fin dall’inizio, nonostante gli ammicamenti (pesantissimi nel finale, peraltro) The Guest si allontana dai lidi dell’horror per approdare su quelli del thriller d’azione, citando il cinema ottantiano tutto. Al tempo stesso, The Guest piacerà agli appassionati di cinema di genere che non amino le spiegazioni troppo dettagliate – per dire, il pubblico selezionato per il test screening ha convinto Wingard e lo sceneggiatore a togliere di mezzo lo “spiegone” che illustrava con molti dettagli l’ identità dell’ospite, ma questo a ben vedere non lascia spiegazioni in sospeso, per cui va bene così.

  • Possession (1981): l’horror metaforico sulla gelosia di A. Zulawski

    Una donna in crisi col marito possessivo inizia a manifestare un comportamento sempre più crudele; i sospetti di infedeltà coniugale, poi, la renderanno ancora più sinistra.

    In breve. Sebbene relegato all’ambito del cinema d’essai, Possession è la dimostrazione di come l’horror possa essere un linguaggio ideale per la rappresentazione di drammi. Un piccolo capolavoro del regista recentemente scomparso, forse la sua testimonianza più importante. Nonostante qualche bizzaria nella narrazione, riesce a farsi seguire anche dal grande pubblico.

    Possession rientra – almeno nella mia esperienza di spettatore, e ad una prima analisi – tra i film sostanzialmente privi di genere: classificato spesso come horror psicologico, sarebbe quantomeno onesto ammettere che si tratta di una semplificazione brutale – se non altro parziale, per non dire ingiusta – rispetto al lavoro di Zulawski.

    Possession è un film che funziona, in effetti, perchè focalizza le proprie qualità sulle doti interpretative dei singoli protagonisti, con un grado di espressività esasperata – tipica ad esempio del teatro moderno, più introspettivo o psicologico – per quanto si ceda, a volte, alla tendenza a rappresentare simbolismi forse astrusi, forse poco chiariti. Una splendida (in ogni senso) protagonista come Isabelle Adjani è in grado di calarsi completamente nella doppia parte Anna / Helen, e se il film è decisamente bello (e riesce a turbare lo spettatore) gran parte del merito è della sua interpretazione. Impossibile non notare, poi, l’ambientazione nella Berlino all’epoca divisa dal muro, sorvegliata militarmente e simbolo della divisione familiare forzata.

    In questo senso, e senza che ciò possa sembrare troppo arbitrario, Possession è un film lynchiano, nel senso che va vissuto nel suo fluire e che, soprattutto, lascia spazio alle interpretazioni soggettive degli spettatori, tutte egualmente valide – a patto che si sappia accettare il linguaggio (non proprio convenzionale) scelto dal regista. Buona parte della fama di incomprensibilità, per inciso, è probabile che derivi dalla versione italiana in videocassetta di questo film, doppiata in maniera discutibile e montata (cosa davvero assurda) in maniera arbitraria; la versione da vedere è quella di quasi due ore edita in DVD dalla Raro Video (e non banalissima da reperire, ad oggi).

    In questo contesto l’aspetto puramente narrativo finisce quasi in secondo piano, tanto che – astraendoci per un attimo dal contesto – saremmo di fronte a premesse tanto banali da risultare sconcertanti: una donna sposata con un figlio trova un amante, e vive il dramma del divorzio. La storia è tutta qui, per cui è chiaro che la regia di Zulawski ha contribuito grandemente ad impreziosirla ed espanderla. Un discreto (e neanche originalissimo) melodramma che, nel caso di Possession, è solo il punto di partenza per l’evoluzione e lo sviluppo di situazioni imprevedibili, e per favorire il dispiegarsi di una tragedia consumata tra mostri interiori ed esteriori.

    Il predominio dei personaggi è tanto forte da essere, di fatto, il vero focus su cui concentrare l’attenzione: il rigido conformismo e l’aggressività latente di Mark, incapace di accettare la mutazione (in parte cronenberghiana) della moglie, ed ossessionato dal proprio amore al punto di perdere il controllo di sè; la natura doppia ed imprevedibile di Anna, in bilico tra come – suo malgrado – sta diventando (Anna, nella sua versione “posseduta” da un amante incontrollabile, imprevedibilmente violenta e tormentata e, poco dopo, assassina) e come il marito vorrebbe che fosse, in versione idealizzata (la maestra, angelo del focolare domestico, Helen). L’autolesionismo dei due, che emerge simbolicamente nel momento in cui si feriscono, deliberatamente, col coltello elettrico, da’ il via al lato più terrificante della storia, che fino alla comparsa del mostro visibile poco dopo – e che gli ha conferito la fama di horror di cui sopra. L’elemento di mostruosità (il “polipone” ideato da Carlo Rambaldi) interviene nel film a spezzare l’ordinarietà del dramma, e poco importa quanto possa apparire fuori posto una presenza del genere; è proprio questo mix, piuttosto, a rendere Possession un unicum del suo genere, alla pari di film analoghi sulla possessione/ossessione amorosa imprescindibili per qualsiasi amante del genere (e non posso fare a meno di pensare ad Audition, e a quanto Miike possa aver da qui attinto a livello di atmosfere).

    Proprio il tema del doppio, certamente non nuovo al cinema – basterebbe pensare a Doppelganger del 1969, ma anche a buona parte della filmografia di David Cronenberg – è centrale in questo film del regista polacco. La sequenza in cui Anna urla e scalpita in metropolitana, emblema di una psicosi al culmime,  se da un lato appare quasi grottesca nella sua insistenza, finisce per rappresentare l’essenza dei suoi tormenti interiori, da sempre in bilico tra una (apparente) libertà che la illude, ed un vincolo familiare che la fa semplicemente sentire in colpa.

    Dall’altro lato, la rigida tranquillità di Mark pronta ad degradare nella follia (un Sam Neill in una delle due migliori interpretazioni), è anch’essa magistrale, tanto da presentare echi di ciò che lo renderà celebre quasi quindici anni dopo (l’assicuratore de Il seme della follia di John Carpenter). La possession della moglie diventa, per lui, pura ossessione: ossessione per le sue ordinarie ambizioni (il lavoro, la carriera, l’amore, la famiglia), che lo porteranno inevitabilmente all’autodistruzione.

    Per un film del genere, poi, qualche parola va inevitabilmente spesa per il finale: i due coniugi sembrano avere un doppio, apparentemente frutto di una mente ormai distorta dalle circostanze. Nel momento in cui tali doppi si sostituiscono agli originali, arriva il momento dell’apocalisse, simboleggiato dal suicidio finale del figlio (davvero terrificante nella sua semplicità) e dall’incontro tra Helen ed il doppio di Mark, una versione algida e sulfurea che sembrerebbe “nata” dal mostro partorito da Anna, che preannuncia una spettacolare quanto spiazzante apocalisse (le bombe che si sentono esplodere dall’esterno).

    Se è genericamente improprio chiamare horror Possession di Zulawski, dunque, può essere quantomeno sensato notare che le sue dinamiche narrative sono, a tutti gli effetti, quelle degli horror, a partire dal crescendo da una situazione ordinaria ad una decisamente imprevedibile. Molti passaggi del film sembrano non causali e questo, oltre ad essere tipico del genere, è anche tipico del periodo. Del resto ci troviamo negli anni del Fulci dell’assurdo visto nel cult …e tu vivrai nel terrore! L’aldilà, e proprio con quest’ultimo si potrebbero scovare interessanti parallelismi; su tutti, il finale apocalittico che, almeno in parte, li accomuna: l’aldilà del quadro, simbolo della conclusione dell’esistenza terrena, e l’apocalisse di Possession, simbolo dell’isolamento e della solitudine.

  • Henry – Pioggia di sangue: il film su un serial killer che ha fatto scuola

    Probabilmente uno dei ritratti di serial killer più realistici mai realizzati nel cinema.

    Henry, pioggia di sangue” è un violentissimo tributo alle gesta di un efferato (ed immaginario, come specificato all’inizio) serial killer: il film è noto a molti fan di Nanni Moretti, che conoscono a menadito la sua opinione negativa a riguardo. In realtà la critica del regista italiano sembrerebbe rivolta non tanto al film, bensì alla critica sterili sullo stesso: un po’ improvvisata, un po’ vuotamente intellettualistica oltre che penosamente giustificativa (Henry descritto come il “buono”, francamente, è una favoletta per gli stessi bambini che non dovrebbero mai vedere l’opera).

    Il film, girato nel 1986 ma uscito quattro anni dopo per problemi di distribuzione, viene presentata come una sorta di mockumentary in 4:3, nel quale osserviamo, sin dall’inizio, un taglio da film quasi amatoriale: ed il distacco dal canone è evidente perchè i protagonisti (tre in tutto) sono dei normali esseri umani che potrebbero far parte delle conoscenze di chiunque. All’inizio vediamo alternarsi scene statiche in cui viene ripreso il cadavere di qualche vittima (con quasi sempre il sottofondo delle urla della stesse), ed altre – dinamiche – che mostrano Henry che finisce di mangiare, spegne una sigaretta, viaggia in auto. Intuiamo subito la sua natura omicida e perversa: Henry appare normale, gelido, ma anche dotato di un certo spessore psicologico, tanto che il suo salutare la cameriera del ristorante con la confidenza di un vecchio amico fa quasi paura di per sè.

    Conosciamo quindi la mite Becky, che ha appena divorziato dall’ex-marito ed è tornata a casa del fratello, l’apparentemente rassicurante Otis, amico dello psicopatico Henry.

    Il resto del film si sviluppa nei termini del “triangolo” di conoscenza instaurato dai tre: Henry di aver ucciso la propria madre per via dei maltrattamenti che subiva, la ragazza riconosce vari punti di contatto con la propria infanzia, visto che il padre cercava di violentarla. I presupposti per una morbosa empatia tra i due, quindi, ci sono tutti. Nel frattempo scopriamo che la natura di Otis non è certo meno crudele di quella del protagonista: impiegato ad una pompa di benzina, l’uomo si mostra cinico, approfittatore, scansafatiche e, come se non bastasse, dedito al traffico di droga. E, come se non bastasse Henry, Otis usa uccidere senza un perché, compiacendosi del gesto e quasi dimenticandosene qualche istante dopo.

    Dopo la rottura della TV di casa i due si decidono a procurarsene una low-cost, utilizzando metodi decisamente spiccioli e poco convenzionali (la famosa scena dello schermo prima sfracellato in testa della vittima, e successivamente attaccato alla presa di corrente!). Sul posto i due maniaci si procurano una telecamera con la quale filmeranno le proprie gesta, e lo spettatore le vedrà attraverso il formato – ancora più sporco dell’originale – di un vero apparecchio amatoriale. La scena conclusiva, o meglio gli ultimi 10-15 minuti del film, con un crescendo insostenibile di tensione alimentata dalla gelosia che l’incestuoso Otis nutre contro l’amico, sono momenti insani e crudeli, destinati a rimanere impressi nella memoria degli spettatori.

    Questo film contiene inoltre una trappola, un qualcosa che lo rende veramente spaventoso e meritevole a pieni titoli del “cult” che gli è stato affibiato: a parte la solida regia, l’ottima scelta dei tempi (il film dura un’ora e un quarto circa) e la caratterizzazione precisa dei personaggi, vi è uno degli inganni più subdoli visti in un film del genere. E’ scontato pensarci alla fine, ed ovviamente la cosa credo sia soggettiva, ma posso garantire che qui nulla è quello che sembra e che, in un certo senso, “più le cose cambiano più restano le stesse” (citazione carpenteriana per un film che eredita parte del feeling cinico anche da Distretto 13 – Le brigate della morte).

    In altri termini l’identificazione spontanea che il pubblico effettua con Henry – ci sono “cascato” anch’io, la prima volta che l’ho visto – sembra architettata dal regista per fare scalpore alla fine, concludendo il film nel modo meno rassicurante possibile: quindi abolizione dei finali consolatori, perchè Henry potrebbe essere in mezzo a noi.

    A confronto l’Hannibal de “Il silenzio degli innocenti” sembra una storiella senza spessore, ed è tutto un dire: il realismo di Henry rinuncia a qualsiasi pretesa di liricità della figura del killer, rappresentato in tutta sua crudele efficacia. “Henry…” è anche zeppo di macabri dettagli, di violenza inaspettata (una delle decapitazioni più crude e realistiche ma viste) e di un lugubre pessimismo di fondo: eppure i momenti in cui la coppia visiona in una stanza il violentissimo snuff sul divano, quasi come fosse la replica del loro programma preferito, o comunque l’idea stessa che i due riescano a compiere massacri senza che la sorella si accorga mai di nulla, fa sorridere anche se, a dirla tutta, si tratta di uno humor nero che non tutti potranno cogliere. Un film che, non lo nascondo, stavo per rivedere una seconda volta di fila dopo aver terminato la prima – ed è un caso davvero raro, per questo.

  • Trauma di Dario Argento parla di disturbi alimentari e shock psicologici

    Aura Petrescu, una ragazzina sofferente di anoressìa, assiste all’omicidio dei propri genitori da parte di un killer: grazie all’aiuto dell’amico David scoprirà un’imprevedibile trama ordita dall’assassino…

    In breve. Un corposo trattato di sadismo, incentrato sulla figura di un inquietante serial killer tagliatore di teste: uno dei film forse meno noti di Argento che comunque, a ben vedere, rimane nella sua filmografia come lavoro di buona qualità.

    “Con un cappio attorno al collo… non sono stata la prima vittima, e non sarò nemmeno l’ultima!”

    Prima produzione americana – e questo si riflette nelle ambientazioni e nei ruoli dei personaggi – di Dario Argento, con soggetto scritto con Ferrini e Romoli incentrato sulle vicende di una ragazzina rimasta orfana. Proprio per il ruolo di protagonista venne scelta la figlia Asia, all’epoca giovanissima e, per questa ragione, probabilmente acerba rispetto all’importanza del ruolo che rivestì. Già questo rende “Trauma“, thriller novantiano ricco di tipiche trovate “teatrali” del regista, un film vagamente ostico da guardare, senza contare la sua lunghezza atipica (circa due ore) in cui, tanto per (non) cambiare, l’assassino viene rivelato solo alla fine dopo il consueto gioco di falsi sospetti ed indiziati. Al di là di una scelta di interpreti poco esaltante e di una trama forse poco incisiva nella prima parte, quasi nulla è da buttare, tenendo conto dell’ambientazione architipica, della dinamica da thriller mainstream, di alcune citazioni di Profondo rosso, del sottotesto del film e del fatto che riguarda l’anoressia, un dramma vissuto realmente dalla sorellastra di Asia (Anna, scomparsa nel 1994). Quantomeno potremmo affermare che questo lavoro è l’ennesima dimostrazione di come l’horror sappia essere, in opportune condizioni, un genere più maturo e profondo di quanto troppe persone vogliano farci credere. L’argomento cardine di Trauma, al di là delle micro-storie che contiene, riguarda un’imprevedibile vendetta dovuta ad uno spaventoso trauma – per l’appunto – vissuto dal killer, proprio come avveniva nel succitato capolavoro del regista.

    Trauma è un buon thriller, ben ritmato ed a forti tinte horror, che mostra il “tocco” dell’Argento più sanguinario e viscerale, a cominciare dalla scena di decapitazione presentata all’inizio (mediante un laccio metallico motorizzato), che poi rappresenterà – piuttosto atipicamente per il regista romano – l’arma del delitto prefissata. Un villain che, in questo contesto, si muove di soppiatto e quasi sempre in soggettiva, restando nascosto con cura fino all’imprevedibile finale, giusto il tempo necessario perchè Aura possa ricordare ciò che la sua psiche ha rimosso (la faccia del maniaco, per l’appunto). Contemporaneamente, pero’, i toni appaiono smorzati rispetto al mai troppo celebrato passato del regista, il quale preferisce abbandonarsi a suggestioni da tipico film made in USA che ai consueti “tocchi di classe” che lo caratterizzarono all’epoca: a vederlo oggi, a conti fatti, avercene film “commerciali” così.

  • From beyond – Terrore dall’ignoto: l’horror lovecraftiano sulla ghiandola pineale

    L’assistente di uno scienzato non troppo sano di mente viene rinchiuso in un manicomio: il professore è stato trovato decapitato, dopo che i due hanno tentato uno strano esperimento di stimolo della ghiandola pineale, il “terzo occhio” citato a partire da Cartesio. Ipotizzando che si tratti di un organo completamente addormentato, i due protagonisti sono convinti che possa esistere una macchina capace di stimolarne l’uso e permettere così all’uomo di entrare in una dimensione del tutto nuova. Ma tale scopo apparentemente nobile nasconde una realtà fatta di mostri ed incubi terrificanti…

    In due parole. A tanti fan dell’orrore non è piaciuto, e francamente non riesco a capire il perchè. Interpreti al di sopra delle righe, anche piuttosto ben fatto (ma gli eccessi gore non appartenevano allo scrittore): si fa guardare con un certo interesse anche oggi. Ha ispirato almeno altri due successi dell’horror mondiale: Hellraiser e Society.

    Il film è un horror ottantiano per ambientazioni e riprese, e possiede più di un richiamo alle dimensioni parallele, ai mondi raggiungibili mediante porte realizzate dall’uomo e – visto che si tratta di un horror – agli eccessi che ne potrebbero conseguire, in chiave prettamente splatter-gore. Non manca il riferimento all’immaginario del sesso e del sadomaso, e non è da escludere che Clive Burker abbia preso da questo film molto del suo Hellraiser, uscito l’anno successivo. Barbara Crapton vi fa la sua bella figura, sebbene non appaia troppo convinta sulla scherm. Perfetto invece il solito Jeffrey Combs, nella parte dell’uomo che indaga e ne paga le conseguenze.

    Affascinante, inoltre, l’idea dell’esistenza di un risonatore come ponte di contatto tra una dimensione aliena ed il mondo così come lo conosciamo: sebbene non ci sia il piglio scientifico del body horror de La mosca, si tratta comunque di un film imparagonabile a quello appena citato (come qualcuno impropriamente ha fatto), certamente dignitoso nella propria specificità. Bella, in particolare, la sequenza dedicata al tema della follia (i “normali” non fanno altro che negare l’evidenza), ripresa dalla tradizione sci-fi ed esaltata meravigliosamente nove anni dopo ne “Il seme delle follia”.

    “Voglio vedere di più… più di quanto un uomo abbia mai visto!”

    Prodotto dal geniaccio di Brian Yuzna, che attingerà da questo film a piene mani, almeno apparentemente, per il suo Society, e diretto praticamente con le stesse dinamiche di Re-animator da Stuart Gordon, che si fa ricordare per uno dei suoi prodotti più convincenti. Nonostante qualche piccola forzatura – come la Crampton in abito sadomaso, buttata lì quasi per caso – rimane una piccola chicca del periodo ottantiano dell’orrore, quello che rimpiangiamo in tanto quando ci lamentiamo che il genere è morto e che non fanno più certe produzioni. Nel cast è presente, tanto per restare in tema di nostalgia, il Ken Foree rimasto nell’immaginario di chi ha visto decine di volte Zombi di George Romero.

    Mentre un po’ di diatriba su H. P. Lovecraft in altri ambiti avrebbe probabilmente senso, sono convinto che – dopo aver visto tanti horror – una discussione omologa in ambito cinematografico non ne abbia per nulla. Sebbene “From beyond” sia uno dei racconti forse più fedeli agli scritti originali (ed abilmente rielaborato dalla sceneggiatura), persino Wikipedia fa notare che lo scrittore di Providence non avesse grande stima per le proiezioni audiovisive. Credo che sarebbe rabbrividito nel sapere dell’attuale 3D e nel fatto che le storie spesso contino poco o nulla, sebbene forse ricostruire una delle sue ambientazioni ciclopiche con quella tecnologia non sarebbe affatto male. Quindi la discussione sulla “fedeltà del film allo spirito dello scrittore di Providence”, che anche qui non c’è, sarebbe già finita da un pezzo.

    Con buona pace di Lucio Fulci, che ci ha costruito almeno due film sopra (sulle atmosfere, più che altro: L’aldilà e Paura nella città dei morti viventi, dove si prende qualcosa da Nyarlathotep e dallo pseudo-culto del Necronomicon), con buona pace di John Carpenter (La cosa, almeno in parte parallelo de “Le montagne della follia”, ma anche l’immenso Il signore del male) e senza citare tutti gli altri che credono di aver capito Lovecraft e si sono sentiti autorizzati a riprodurlo. Uno scrittore che è molto meno filmabile di tanti altri, e che non lo è neanche in questo buon “Terrore dall’ignoto“, e questo perchè non scriveva per il cinema: un assunto estremamente semplice che risparmierebbe molteplici discussioni sul tema, almeno secondo il mio parere. Fatta questa precisazione, il film rimane come un qualcosa certamente da riscoprire anche oggi, per il buon livello di intreccio ed effetti splatter.

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