Salvatore

  • Che cos’è davvero l’ideologia woke

    Che cos’è davvero l’ideologia woke

    La cultura o ideologia “woke” è un termine che ha guadagnato popolarità negli ultimi anni, specialmente nei contesti sociali e politici, e si riferisce a una consapevolezza e attenzione particolare verso le questioni di giustizia sociale. Originariamente, “woke” è un termine dello slang afroamericano che significa “essere svegli” o “essere consapevoli”, e si è evoluto per indicare una maggiore coscienza e sensibilità riguardo a vari temi come il razzismo, il sessismo, l’ineguaglianza economica, i diritti LGBTQ+, e altre forme di discriminazione e ingiustizia. Resta vero che in molti contesti, inclusa l’Italia, il termine “woke” viene spesso utilizzato in maniera dispregiativa o come insulto. Questo uso riflette una reazione contro alcune delle idee e delle pratiche associate alla stessa. Come già l’idea del politicamente corretto e della cancel culture, si tratta di una terminologia a retaggio quasi esclusivo di idee conservatrici.

    Un concetto che è stato svuotato, distorto e manipolato in modi che sarebbero ridicoli, se non fossero tragici. Quello che dobbiamo comprendere è che il termine, alla sua origine, aveva una radice di consapevolezza sociale. “Woke“, in inglese, vuol dire letteralmente “sveglio“, “risvegliato“, un risveglio rispetto alle ingiustizie sociali, in particolare quelle legate al razzismo e alle disuguaglianze di classe. Era, insomma, una presa di coscienza dalla realtà brutale in cui viviamo. Ora il problema con il “woke” oggi è che è diventato una sorta di spauracchio, una minaccia invocata dai conservatori e dai neoliberisti, come se fosse il nuovo mostro sotto il letto. Ma in che senso? Il vero mistificatore qui non è il “woke” come concetto di consapevolezza sociale, ma piuttosto come esso viene manipolato e travisato da chi ha interesse a preservare l’ordine capitalistico.

    Il “woke” non è una minaccia per la società; è una risposta al fallimento di una società che non ha mai veramente affrontato il razzismo, la discriminazione e la disuguaglianza economica.

    Se guardiamo alle critiche conservatrici, troviamo un fenomeno interessante: quasi mai viene usato il termine “svegliato” o la traduzione italiana “risvegliato”. Perché? Perché questo sarebbe troppo chiaro, troppo facile da smascherare come un movimento che si basa sulla presa di coscienza. Invece, si preferisce usare “woke”, che suona strano, esotico, come qualcosa di distante dalla realtà della gente. È come se volessero mantenere una distanza tra ciò che è radicale e ciò che potrebbe veramente cambiare le cose. Così, la critica conservatrice al “woke” non è mai una critica all’effettiva consapevolezza sociale, ma una critica a una forma di resistenza, alla possibilità di cambiamento, che minaccia lo status quo. Per certi versi l’assurdità è che si mette in discussione un concetto che è legato a un movimento di liberazione e giustizia sociale. Chi ha paura del “woke” in realtà ha paura di una vera trasformazione sociale, una che sfida le strutture di potere che perpetuano la disuguaglianza. È il classico caso di chi difende la stabilità di un sistema che ha creato queste ingiustizie e non vuole fare i conti con la sua responsabilità storica.

    La minaccia è quella di un sistema che si ostina a negare il bisogno di cambiamento radicale. E, stranamente, è proprio chi sostiene lo status quo che ha paura della “sveglia”.

    Aspetti basilari del “woke

    Mentre la cultura woke ha come obiettivo la promozione della giustizia sociale e l’eliminazione delle discriminazioni, il termine “woke” è spesso usato come insulto per criticare un atteggiamento percepito come eccessivo o intollerante, soprattutto nel contesto di una polarizzazione politica e culturale. Vediamo i principali aspetti di questo fenomeno:

    1. Stereotipi e Caricature: Spesso, chi usa “woke” in modo dispregiativo lo fa per ridicolizzare o criticare chi è percepito come eccessivamente sensibile, politicamente corretto o moralmente superiore. In questi casi, “woke” diventa sinonimo di estremismo ideologico o di intolleranza verso opinioni diverse.
    2. Critiche alla Cancel Culture: Una delle principali critiche alla cultura woke riguarda la “cancel culture” o “cultura della cancellazione”, dove individui o gruppi vengono boicottati o esclusi per comportamenti o opinioni considerati inaccettabili. I detrattori vedono questo fenomeno come una minaccia alla libertà di espressione e un metodo coercitivo di imposizione di norme sociali. La “cancel culture” (o “cultura della cancellazione”) è un concetto che suscita molte discussioni e controversie, e la percezione della sua esistenza e delle sue implicazioni può variare ampiamente. Alcuni vedono la cancel culture come una minaccia reale alla libertà di espressione, mentre altri la considerano un fenomeno esagerato o persino immaginario.
    3. Polarizzazione Politica: In molti paesi, inclusa l’Italia, l’uso di “woke” come insulto è spesso parte di una più ampia polarizzazione politica. Chi critica la cultura woke può farlo per difendere valori tradizionali o per opporsi a ciò che vede come un cambiamento sociale troppo rapido o radicale.
    4. Resistenza al Cambiamento: Spesso, il termine “woke” viene usato in maniera negativa da chi è resistente o contrario ai cambiamenti promossi dai movimenti per la giustizia sociale. Questo può includere opposizione alle politiche di diversità e inclusione, ai diritti LGBTQ+, o alle campagne contro il razzismo e il sessismo.
    5. Appropriazione e Degradazione del Termine: Con il passare del tempo, il termine “woke” ha subito una trasformazione nel suo significato originale. Inizialmente un termine positivo che indicava consapevolezza e impegno sociale, è stato poi appropriato e degradato dai suoi detrattori per discreditare e ridicolizzare coloro che sostengono tali cause.

    Il termine “woke” è in altri termini un’espressione inglese che ha assunto diversi significati e sfumature nel corso del tempo. Originariamente, “woke” è stato utilizzato nel contesto dei diritti civili e della giustizia sociale per descrivere l’essere consapevoli delle ingiustizie razziali e sociali. Nel corso degli anni, però, il termine è stato oggetto di dibattito e ha assunto anche connotazioni più ampie. Oggi, “woke” è spesso usato per riferirsi a una sensibilità o attenzione elevata nei confronti delle questioni sociali, politiche e culturali, come il razzismo, il sessismo, l’omofobia e altre forme di discriminazione. Tuttavia, può essere anche usato in modo critico per indicare un eccesso di sensibilità o percepita ipocrisia nell’affrontare tali temi. In quest’ultimo senso, il termine è spesso utilizzato per criticare persone o movimenti che sembrano enfatizzare in modo eccessivo la loro consapevolezza sociale, a scapito di altri aspetti della discussione.

    Storia del termine woke

    L’uso del termine woke (dal 2012 circa) nel dibattito politico si collocava inizialmente nell’ambito del Black Lives Matter, il movimento attivista che lotta contro il razzismo attraverso periodiche manifestazioni, soprattutto negli USA e in particolar modo nei confronti di frequenti episodi di violenza razziale. Se la pagina Wikipedia di BLM è particolarmente chiara e dettagliata, quella del termine Woke – nell’ipotesi che le tassonomie e le interpretazioni fornite dagli autori di Wiki siano indice, in qualche modo, di una qualche chiarezza collettiva a livello di significato – sono semplicemente confuse.

    Woke viene usato anche in Italia da diversi Youtuber, che sfruttano un po’ l’onda del trend (come del resto proviamo, nel nostro piccolo, a fare anche noi), un po’ finiscono per metterla su un piano che aderisce al bastian-contrariarismo, al pregiudizio spiattellato come manifesto culturale, al gusto di andare “contro” qualcosa che diventa (secondo loro, ma soprattutto secondo i loro seguaci) pensiero critico.

    L’idea a mio avviso assurda è che la carta dell’anti-marketing sia, in definitiva, già abbastanza per collocarsi nella propria nicchia – anche a costo di diventare promotori di pensiero becero e anti-culturale (pensiamo ad esempio ai corsi di seduzione che si alimentano, in molti casi, sull’insoddisfazione sociale da incel). E nel mentre vale la pena ricordare ciò che pensava Hicks sull’anti-marketing.

    Che vuol dire woke

    Il termine “woke“, di per sè, si riferisce in genere a un atteggiamento o una consapevolezza sociale riguardo alle ingiustizie, in particolare legate alle questioni di discriminazione, disuguaglianza e identità. In alcuni contesti, l’uso del termine “woke” sembra voler essere stato associato a un’eccessiva sensibilità politica o a una mentalità eventualmente rigida, che è una mentalità insidiosa perchè finisce per farci aderire ad una mentalità maschia, circolare, autoreferenziale, autogiustificativa, che fa addirittura sembrare “eccessiva” la rivendicazione sacrosanta di un diritto.

    Woke mind virus“, come scrisse una volta Elon Musk su Netflix e sulla sua deriva “politicamente corretta“, a suo dire, può quindi essere impiegato per descrivere un modo di pensare che, secondo alcuni, si starebbe diffondendo troppo rapidamente o in modo troppo dogmatico, influenzando il dibattito pubblico in modo controverso o negativo.

    Le critiche alla cultura “woke” sono interessanti forse più della cultura woke stessa, ammesso che sia quantificabile e qualificabile e che non rientri, come temibile anche per il politicamente corretto, nel nugolo dei nemici immaginari che servono ad avere un bersaglio contro cui scagliarsi, fare dibattiti o scrivere libri. Di fatto, quelle critiche sono interessanti perchè non possono essere ridotte a un’unica provenienza politica, per quanto poi woke venga usato quasi sempre come termine discriminatorio da conservatori di vario ordine e grado. Più in generale questa forma di critiche sono affette da diagonalismo, se preferite sono trasversali, figlie di un irreversibile sparigliamento delle carte che subiamo ormai da molti anni, nella società in cui viviamo.

    Le critiche alla cultura “woke” possono provenire da diverse prospettive e posizioni politiche, e se a volte possono presentare punti di vista vagamente interessanti, in altri casi sono figlie degeneri di benaltrismo, qualunquismo, presunto acume sociale, sfoggio di culturame alternativo e soprattutto desiderio egotico di porsi al di sopra della massa a cui tutti, senza eccezioni, ci riteniamo superiori.

    Vale anche la pena di chiedersi come questa ennesima tassonomia del pensiero, questo tag che etichetta il modo di pensare delle persone (o cerca di farlo, in qualche modo) non sia diversa dall’uso del termine incel (involuntary celibate), ad esempio, e di come il diagonalismo faccia la propria comparsa in una mentalità tendenzialmente sempre più liquefatta, per cui dalla stessa persona potrebbero arrivare discorsi contro il nazi-femminismo (ad esempio) ed essere a propria volta accusati di essere woke nei confronti del razzimo.

    La pagina sul termine Woke di Wikipedia, ad esempio, è attualmente imbottita di dettagli poco chiari in merito, ad esempio la descrizione delle motivazioni che spingono i conservatori all’uso del termine:

    cio che invece la maggior parte delle persone considera normale buona educazione, per esempio non usare termini dispregiativi per persone di colore

    oppure un esempio di quello che caratterizza questo genere di discussioni, ovvero il fenomeno del puntacazzismo:

    Il termine awake, tuttavia, viene tuttora utilizzato dagli oppositori dell’ideologia woke e politicamente corretta per distinguersi appunto dai sostenitori e portavoce di quest’ultima, da qui lo slogan “Awake, not woke”

    Se in questi termini sembra in sostanza di assistere ad un catfight scoordinato e vuotamente irriverente, vale la pena ricordare che le tassonomie si diffondo con facilità sui social, e vale la pena evocare la regola 12 di internet: “tutto quello che scrivi potrà essere usato contro di te“, unita alla successiva regola 13: “tutto ciò che scrivi potrà essere travisato e trasformato in altro“. Che è anche quello che è successo a Pepe The Frog, da webcomic a fumetto simbolo dell’alt-right trumpiana senza soluzione di continuità, con tanto di causa vinta dall’autore.

    Punti chiave della cultura woke

    Ecco alcuni punti chiave sulla cultura woke:

    1. Origini: Il termine è emerso nel contesto della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti, in particolare all’interno della comunità afroamericana, come espressione di consapevolezza riguardo alle ingiustizie sociali e alla necessità di restare vigili contro le discriminazioni.
    2. Evoluzione: Negli anni recenti, “woke” è diventato un termine più ampio utilizzato per descrivere chiunque dimostri una particolare sensibilità verso le questioni sociali e sia impegnato in movimenti per il cambiamento sociale e l’uguaglianza.
    3. Critiche: La cultura woke è anche oggetto di critiche. Alcuni ritengono che il termine venga usato in modo eccessivo o che porti a un atteggiamento di superiorità morale. Altri criticano il fenomeno della “cancel culture” associato alla cultura woke, dove persone o aziende vengono pubblicamente condannate e boicottate per comportamenti o opinioni considerati inappropriati.
    4. Impatto: La cultura woke ha influenzato vari settori della società, tra cui media, politica, istruzione e industria. Ha portato a un maggiore dibattito sulle politiche di diversità e inclusione, e a cambiamenti nelle pratiche aziendali e istituzionali.

    In sintesi, la cultura woke rappresenta un movimento che promuove una maggiore consapevolezza e azione contro le ingiustizie sociali, ma è anche oggetto di dibattito e critiche riguardo alle sue implicazioni e modalità di espressione.

    Monologo standup sulla cultura woke

    [Rivolgendosi al pubblico, con tono deciso e un po’ stizzito]

    Ah, questi “woke”… ma chi si credono di essere? Quando ero giovane io, il mondo andava avanti senza tutte queste storie, senza dover stare attenti a ogni parola che esce dalla bocca! Oggi sembra che non si possa dire più nulla senza offendere qualcuno. “Oh, non puoi dire questo, non puoi dire quello”, e perché mai? Perché qualche gruppo di ragazzini che vive su internet ha deciso che ora bisogna cambiare tutto? Che ora bisogna stare sempre sul chi vive per non urtare la sensibilità di qualcuno?

    I “woke”… mah, io li chiamo “svegliati”, ma non nel senso buono! Sembrano sempre pronti a saltare addosso a chiunque non si allinei con il loro modo di pensare. Hanno quest’idea che il mondo debba essere un posto perfetto, dove nessuno si offende mai e tutti si sentono sempre accettati. Ma vi pare normale? Quando ero giovane io, si cresceva affrontando le difficoltà, non scappando da esse. E invece questi qui cosa fanno? Si rifugiano dietro uno schermo e si mettono a fare le prediche su come dovremmo vivere, come dovremmo parlare, come dovremmo pensare. È tutto sbagliato!

    E poi, questa tecnologia! I social, internet… non fanno altro che amplificare le loro lamentele. Ai miei tempi, se avevi qualcosa da dire, lo dicevi in faccia! Adesso invece scrivono tutto su Twitter, Facebook, TikTok, e pensano che le loro opinioni siano l’unica verità. Non c’è più il rispetto per le opinioni altrui, non c’è più la discussione vera. Se non sei d’accordo con loro, sei automaticamente un nemico, un “bigotto”, un “ignorante”. E tutto questo per cosa? Per sentirsi superiori, per sentirsi moralmente migliori.

    E non parliamo di questa ossessione per i “pronoun”, per “inclusività”. Ora devi chiedere il permesso pure per usare “lui” o “lei”. Non si può più parlare di uomo o donna senza fare attenzione a non offendere qualcuno che magari non si identifica in nessuno dei due. Ma stiamo scherzando? Questo mondo sta diventando assurdo, vi dico! Ai miei tempi, le cose erano semplici. C’era un uomo, c’era una donna, e punto. Non c’erano tutte queste complicazioni.

    E sapete cosa mi fa più arrabbiare? Che queste idee stanno prendendo piede ovunque! Nelle scuole, nelle università, persino nei posti di lavoro. È come un virus che si diffonde e che non possiamo fermare. Io, però, non mi arrendo. Non mi farò piegare da queste sciocchezze. Non ho bisogno di un gruppo di “svegliati” che mi dica come vivere la mia vita. Ho vissuto abbastanza a lungo per sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato, e non sarà una moda passeggera a farmi cambiare idea.

    [Concludendo, quasi con rassegnazione]

    Ah, se solo potessero vedere quanto è ridicola questa loro battaglia… Ma tanto, tra qualche anno, quando cresceranno, si accorgeranno da soli di quanto tempo hanno sprecato a cercare di cambiare un mondo che, in fondo, non cambierà mai davvero.

  • L’orrore del semplicismo

    Per qualche strano motivo questo blog si è posizionato, per diversi mesi, sulla ricerca “Lacan spiegato semplicemente” (con questo articolo). Come tutti i contenuti del sito, per inciso, è stato modificato e aggiornato varie volte, e mai c’è stata l’esplicita intenzione di posizionarlo su quella ricerca. Per cui non interessa troppo da un punto di vista della SEO tecnica quanto, più sottilmente, da quello del novero dei tutorial “X spiegato semplicemente“, con X variabile da “carbonara” a “filosofia zen”.

    X spiegato semplicemente è parte dello zeitgeist che stiamo attraversando, lo spirito di un tempo che aborre (come avrebbe detto Mughini) la complessità, e vorrebbe spingere il riduzionismo al punto di rendere elementare ogni concetto, ogni idea, ogni cosa, anche a costo di stravolgerne la sintassi o la semantica. Il frutto marcio di questo atteggiamento è spiegato almeno in parte dal semplicismo che spinge milioni di persone a seguire gli influencer più improbabili, che fanno del semplicismo bandiera. Viene in mente l’account Youtube dal nome How To Basic che, in tempi non sospetti – andiamo a memoria, almeno una decina di anni fa – propose uno dei tutorial fake più visti di sempre: un iPhone che veniva utilizzato per preparare una ricetta, per essere sbattuto nell’uovo, impanato, impastato e infine demolito a martellate (il video purtroppo sembra scomparso dalla rete, ed è stato rimpiazzato da un “how to basic” molto più serio). Era un video non sense che mescolava la manìa evergreen per i prodotti Apple (e la loro presunta “sacralità”) con quella emergente delle video-ricette, che spiegano passo passo e in modo semplice (aridaje) come preparare qualsiasi tipo di piatto. Quel canale prendeva in giro, a suo modo, la tendenza al semplicismo che la rete ha sempre preteso di avere, in fondo, e a cui nessuno che compaia nel mondo dei tutorial / how to sembra essere immune.

    Sono tantissime le persone che cercano spiegazioni comprensibili a cose per le quali non hanno tempo, voglia e modo di approfondire. Non mancano le suggestioni che arrivano da Google Suggest: stoicismo, induismo, buddismo, p value (sic), effetto serra, spiegati semplicemente. Vale anche per cose come il sesso, neanche troppo paradossalmente, come è possibile rendersi conto spulciando un po’ Google. Spiegare tutto in modo semplice – qualsiasi cosa significhi – è il mantra della rete e di gran parte di quella più pop, senza contare che secondo autori come Ceruti/Bellusci (nel saggio Abitare la complessità) il semplicismo può diventare una potenziale anticamera del populismo e della sua annessa normalizzazione.

    Il tema del semplicismo è stato trattato variamente in letteratura scientifica, e trova tra i suoi principali esponenti Paul Watzlawick e la scuola di Palo Alto: nel libro Change si riferisce la ricorrenza di quelle che gli autori chiamano “semplificazioni terribili“, le quali si riducono in nuce al meccanismo della negazione. Un meccanismo di protezione dell’Io variamente studiato dalla psicoanalisi, del resto, che qui trova espressione in forma duplice: non si tratta, infatti, solo di semplificare la complessità (il che spesso si traduce, a livello pratico, nell’aggirare le regole o negare i diritti altrui), ma anche di aggredire chiunque faccia notare il diniego. Una negazione che, spiegano gli autori, si traduce a più livelli, dato che si nega la complessità e al tempo stesso si nega di averla negata, il che in termini prettamente logici porterebbe ad una affermazione. Il semplicismo ortodosso, in un tragico e grottesco contrappasso, il più delle volte finisce puer per complicare o aggravare il problema originario, quando non generare frustrazione a più livelli (ad esempio se si partiva da preconcetti o ipotesi semplicemente sbagliate, senza riconoscerlo).

    Il ricorso al semplcismo nasconde una forma di negazione della complessità del mondo che, lungi dall’essere di nicchia, è molto diffusa e radicata in parte di noi. Invece di affrontare le sfide intellettuali con serietà e approfondimento, si preferisce “sbrigarsi”, riducendo ogni argomento a qualcosa che, proprio per la sua superficialità, diventa più facile da digerire. Ma questa facilità è ingannevole. La spinta del semplicismo non è innocua e non andrebbe sottovalutata. Il rischio è che, a forza di semplificare, ci priviamo di ciò che conta.

  • Galleria di allucinazioni algoritmiche generate da StarryAI / Hugging Face

    StarryAI è un software emergente per la creazione di ritratti: anche se meno popolare rispetto al suo concorrente Midjourney, questa soluzione offre un’opzione più economica per coloro che cercano una soluzione accessibile e pronta all’iuso.

    A prescindere dalla scelta del prodotto l’intelligenza artificiale sta cambiando il modo in cui creiamo e apprezziamo l’arte, aprendo nuove possibilità per gli artisti di tutto il mondo.

    In questo contesto possono uscire fuori esempi di allucinazioni algoritmiche di vario genere, che andremo qui a mostrare.

    Le “allucinazioni algoritmiche” sono un termine che può essere utilizzato per descrivere l’output generato da un software che utilizza algoritmi o reti neurali per generare immagini a partire da una descrizione o da un input dati. Queste allucinazioni algoritmiche sono il risultato dell’elaborazione e dell’interpretazione dei dati da parte dell’algoritmo o della rete neurale, che cerca di tradurre le informazioni fornite in un’immagine visiva. Il termine “allucinazioni” viene spesso utilizzato per mettere in luce il fatto che l’output generato dal software può sembrare surreale o immaginario, poiché l’algoritmo sta cercando di immaginare e creare qualcosa basandosi su dati di input.

    In alcuni casi i testi non sono coerenti con le immagini ma, come dire, è proprio questo il punto. (credits: StarryAI)

  • Uscire da X non è la soluzione

    Uno strano gioco. L’unica mossa vincente è non partecipare.

    Nel film WarGames di John Badham ricorderete la sequenza in cui, dopo aver fermato l’intelligenza artificiale del supercomputer WOPR dallo scatenare una guerra nucleare, il terminale del computer mostra la scritta “A STRANGE GAME. THE ONLY WINNING MOVE IS NOT TO PLAY“.

    WOPR era un acronimo per War Operation Plan Response, un dispositivo in grado di simulare scenari di guerra nucleare. Una visione delle nuove tecnologie inquietante e – come va di moda scrivere in questi casi – profetica di ciò che viviamo in questi anni. Nello stesso film, del resto, il personaggio di David – l’hacker protagonista – aveva attivato il programma “Guerra globale termonucleare” accedendo ad un terminale di comando remoto, dal computer di casa, ritenendo si trattasse di un banale videogame. L’IA reagisce alla circostanza alzando i propri livelli di sicurezza, mentre si addestra con un numero sempre maggiore di dati e di potenziali casistiche belliche, senza fare differenza tra realtà (uno scenario di guerra effettivo) e simulazione (una battaglia simulata allo scopo di fornire informazioni ai militari).

    La morale del film è nota, e vale la pena ribadirla: l’abuso tecnologico porta sempre alla rovina, ed esistono “giochi” a cui è opportuno non giocare: l’unica mossa vincente, a quel punto, è quella di non parteciparvi affatto. Un social network come X si addestra con i nostri dati personali e le nostre storie, non è interessato a fare differenze tra reale e virtuale, possiede un potere di suggestione ben superiore a WOPR e, cosa davvero grottesca, riesce a farlo abbassando il livello di protezione e sicurezza della piattaforma, al posto di alzarlo. Un parallelismo inquietante a cui, complici le esternazioni sempre più politicizzate e radicali di Musk, molti utenti hanno risposto fermando il proprio account, sospendendolo o cancellandolo del tutto.

    Chiaro, bisogna saper dire di no. Lo facciamo ogni giorno, a pensarci, ed è una strategia di sopravvivenza nota: ci tiriamo indietro da relazioni che riteniamo poco adatte, anche se sembravano invitanti all’inizio. Cambiamo idea su una proposta di lavoro perchè precaria o mal pagata. Diciamo no a certe uscite tra amici perchè stanchi, stressati, poco focalizzati su noi stessi, poco a nostro agio – e per quanto la compagnia possa essere teoricamente desiderabile. Dire “no” è un valore aggiunto e sottovalutato, in genere. Ma il punto da cogliere è che in molti casi una discreta parte di chi sta abbandonando X è un organo di informazione, il che rischia di creare una situazione autoritaria o distopica in cui la totalità degli stessi sarà presente perchè a favore di Musk (pro-Trump / repubblicano, per estensione).

    In certi giochi, nessuna mossa è quella vincente e lo sappiamo. E sui social come X, del resto, dovrebbe valere a maggior ragione: ci relazioniamo con una maggioranza di utenti che non vediamo mai dal vivo e, plausibilmente, non vedremo mai. Bisogna saper usare i social, e non darne per scontato l’uso. Abbiamo spesso a che fare con contatti sregolati, eufemismo per dire troll, in molti casi. Rispondiamo in modo incerto o perplesso a messaggi privati inattesi, invasivi e via dicendo. Leggiamo post inconcepibili o eccessivi perchè non possiamo accettarne la presenza e la convivenza. Sono in tanti a non aver accettato le regole del gioco di X, in effetti, e in tantissimi stanno progressivamente andando via dalla piattaforma (tra gli ultimi, Internazionale). Tanto per essere chiari, proverei a spiegare per esteso perchè – da utente tutt’altro che a favore di Trump –  trovi l’abbandono in massa una mossa generalmente poco efficace alla causa, al netto di motivazioni personali di altro tipo.

    Manifesto del non-abbandono

    Alla base del tasso di abbandono di X c’è una linea di gestione della piattaforma che viene considerata troppo libertaria, al punto di minare le basi della democrazia, della reciproca convivenza e, in alcuni casi, sminuendo la portata di potenziali reati come hate speech, razzismo, cyberbullismo, apologia del fascismo e via dicendo. Fermo restando ovviamente che non tutti devono stare sui social e che qualcuno potrebbe semplicemente decidere di starne alla larga, ecco le principali motivazioni per cui trovo mediamente fuorviante uscire dalla piattaforma “per protesta”.

    La protesta, a ben vedere, va fatta dall’interno, per il semplice fatto che è impossibile cambiare qualcosa da cui prendiamo le distanze.

    Le regole possono cambiare

    Anche se ad oggi (gennaio 2025) sembra improbabile un cambio di direzione nella gestione di X (che equivarrebbe ad un cambio di proprietario, da quello che capiamo), le cose potrebbero comunque cambiare nel medio-lungo periodo. Vedremo.

    Soprattutto se persisteranno le polemiche sull’utilizzo, sulla ridotta usabilità della piattaforma, sul timore e sul disagio che provano molti utenti e sul fatto che gli inserzionisti potrebbero ritirare i finanziamenti se gli utenti non sono abbastanza vari per loro. Estremizzando, se tutti coloro che provano disagio andranno via da X, rimarranno primariamente troll a sguazzare liberamente tra loro, o saranno comunque una netta maggioranza rispetto agli utenti ordinari. E questo, naturalmente, realizza in modo preciso e macabro il “piano” iniziale voluto dal suo fautore. Chi esce per protesta, in altri termini, rischia semplicemente di spianare la strada alla normalizzazione dei contenuti violenti per cui è andato via. Come suggerisce Scully a Murder nel film di X-Files, “se me ne vado, vincono loro“. Senza contare che i troll, per loro stessa natura, sono spesso difficili da monetizzare per gli inserzionisti. E se perdi appeal commerciale, la piattaforma decade.

    Non sei tu a stabilire colpe e meriti

    Per quanto le piattaforme social siano ammantate di “democrazia” a corrente alternata (leggasi: solo quando conviene), in genere sono spazi privati, assimilabili più a centri commerciali che a piazze pubbliche. Nonostante parecchi analisi suggeriscano il contrario ed assimilino piattaforme come X a luoghi pubblici, l’ingresso in questo luogo pubblico richiede un’iscrizione, per quanto innocua possa sembrare – e per quanto si sia banalizzata l’idea di fornire i nostri dati per farlo. Quanti di noi entrerebbero serenamente in una piazza in cui non solo ti chiedono un documento all’ingresso, ma registrano almeno una parte dei nostri dati su un dispositivo non in nostro possesso? Sui social, dopati da campagne di marketing sempre più radicali e prive di scrupoli, il problema neanche ce lo poniamo. Men che meno su X dove, di fatto, aleggia una singolare e burrascosa idea di “libertà” dettata, più che altro, da egotismo e isteria di massa.

    Sembrerebbe forse l’unico punto in favore della disiscrizione di massa, in effetti, e presenta un suo fascino oggettivo: il problema pero’ è che in questo caso bisognerebbe cancellarsi da qualsiasi piattaforma social. Senza voler difendere Musk in modo acritico, per intenderci, è quantomeno curioso come le figure di Zuckerberg o di Bezos (da tempo nell’occhio del ciclone per il loro avvicinamento alle politiche repubblicane di Trump, e tutt’altro che neutri politicamente) siano poco considerate dai media e dall’opinione pubblica, e difficilmente si metta in discussione l’opportunità etica di far parte dei loro mondi. Se il criterio per cui ci togliamo da X vale per Musk, uno dovrebbe valutare seriamente di cancellare il proprio account Facebook e, a quel punto, anche quello Amazon. Chi lo farebbe?

    Cosa che farebbero in pochi, dato che i social network e gli ecommerce sono quasi un genere di prima necessità, e creano pure un effetto di attaccamento per cui, per semplificare, non ci cancelliamo per non perdere i contatti a cui magari, nel frattempo, siamo pure affezionati. Anche qui, sembra valere il mantra “if I quit, they win“: nessuno ci obbliga ad interagire con tutti, nessuno ci vieta di cercare altri spazi più flessibili.

    La cosa essenziale è essere consapevoli che esiste il diritto di cancellare l’account, inalienabile, ma al tempo stesso è poco credibile come mezzo di protesta limitarsi a dire “non gioco più”. La vera protesta si fa dall’interno, come gli hacker della prima ora hanno sempre suggerito: trovando falle nel sistema, evidenziandole, mettendole a nudo nella loro debolezza o viltà. Sarà anche utopia e sì, certmente non tutti hanno gli strumenti per farlo, ma quegli hacker spesso diventati famosi non studiavano neanche nelle università e si limitavano ad aguzzare l’ingegno.

    Del resto se queste figure mitologiche si fossero limitate a barricarsi dientro Linux e cancellare Windows e Mac OS dai loro PC, oggi non saremmo a conoscenza di molte delle falle informatiche che affliggono i sistemi Microsoft e Apple.

    I social non usano dati esatti

    Per quanto i sistemi informatici dispongano di molti dati – e per quanto la precisione possa essere elevata (anche solo per il gran numero di fonti da cui generalmente attingono), i dati non sono mai perfetti: approssimano, rendono l’idea in modo parziale, non per forza rappresentano ciò che dovrebbero. Questi errori sono subdoli e difficili / impossibili da rilevare, anche in casi banali: per intenderci, una persona potrebbe aver caricato nel proprio profilo una foto non recente, e potrebbe non essere realmente la “versione” di sè che racconta nel proprio storytelling digitale.

    Del resto non siamo obbligati a dire la verità sui social, anche se tendiamo a dare per scontato che sia proprio il contrario e che tutti attorno a noi lo facciano. Questo vale a maggior ragione dopo l’esplosione creativa di content creator e guru di vario genere, che propongono contenuti commerciali dietro una maschera di “spontaneità” che è solo marketing, alla fine. Troviamo sempre più spesso prodotti miracolosi, servizi presunti innovativi, truffe di ogni genere, donne e uomini che sembrano perennemente carichi di sensualità o infinitamente disponibili. Sono falsi d’autore che collimano solo parzialmente con la realtà, che sembrano bastarci al punto di sostituirsi alla realtà, sulla falsariga di Baudrillard e della società dello spettacolo di Guy Debord. Internet non esprime la totalità del mondo: uno studio del 2024 afferma al contrario che gli LLM come ChatGPT e Gemini sono malamente addestrati su internet, e per questo tendono a replicare passivamente il punto di vista del “popolo del web” – populista, egemonico e non per forza maggioritario come potrebbe sembrare.

    Abbandonare X perchè promuove contenuti falsi significa dimenticare questo aspetto, oltre a rischiare – alla lunga – di arrendersi alla falsa evidenza che i social siano la realtà, al posto di esserne una rappresentazione camuffata, ipocrita, grottesca e/o fuorviante. O magari una vera rivoluzione si potrà un giorno fare offline?

    Non esiste il “paradiso perduto”

    La migrazione in massa su BluSky di qualche mese fa è stata sostanziale, e (per inciso) anch’io vi ho partecipato (senza pero’ uscire da X, per i motivi che discuto qui). Ritenevo giusto stare su due piattaforme simili, anche in considerazione del fatto che molti contatti erano passati lì, e mi interessava continuare a seguirli. Questo porta a fare una considerazione ulteriore: abbandonare una piattaforma sgradita può portare a pensare che andare su un’altra sia salvifico o “balsamico” di per sè. Autori come Cory Doctorow raccontano da tempo per quale motivo non esiste la “piattaforma perfetta” mediante la teoria della enshittification: una catena di decisioni che porta ogni piattaforma social (quindi non solo X) dal sembrare un paradiso sulla terra, fino a un’overdose di contenuti commerciali e ad tossiche, tipicamente per finanziare la piattaforma in perdita finchè, dopo mille tribolazioni, finisce per collassare / perdere interesse.

    Di fatto Musk sembra puntare a rendere X sempre più simile alla board 4chan, una board di utenti anonimi di grande successo, simile a Reddit – ma incentrata per larga parte su contenuti controversi, assenza totale di moderazione e contenuti con un tempo di vita mediamente breve. Finora, tutto sommato, ha funzionato, e gli abbandoni in massa rischiano ancora una volta di renderla esattamente ciò che il suo proprietario vorrebbe: un covo di troll sregolato e piatto, conformista e tragicamente (per loro) autoriferito.

    Come se non bastasse, la scelta di mille piattaforme su cui distribuire gli utenti evoca sempre più la frammentazione del sociale, con miriadi di micro-board, distanziate e difficilmente interfacciabili tra loro, in cui ci saranno sempre più predicatori e sempre meno pensiero razionale e critico.

    A meno che, ovviamente, non si segua il mantra “if I quit, they win“.

    Non sei obbligato a leggere tutto

    Questo è un punto che X non promuove abbastanza, a mio avviso.

    Il fiume di contenuti che arrivano nelle nostre app è tale da mandarci in confusione, ma gli strumenti per evitarlo ci sono: basta cliccare sui tre puntini in alto al post che non ci interessa, e selezionare (neanche a dirlo!) “il post non mi interessa” – alla peggio si può ancora bloccare l’utente sgradito, oppure segnalarlo. Precisiamo: la segnalazione dell’era Musk di X è, per usare un eufemismo, quasi inutile: di circa una ventina segnalazioni che ho fatto, per capirci, solo una o due si sono concluse con il ban dell’utente. In fondo se scorgi qualcosa che ti scandalizza significa che vivi, in fondo, in una società libera.

    Le leggi devono essere violate dalla società per progredire

    Secondo il terzo punto del “manifesto” di Rickard Falkvinge – fondatore del Partito Pirata svedese – sulla società della sorveglianza c’è un aspetto importante da considerare: violare le regole, per quanto suoni sovversivo o criminale, è stato spesso necessario, nella storia, per far progredire la società. È capitato per le leggi dell’apartheid, con le discriminazioni di alcune minoranze e con molte leggi palesemente ingiuste che il progresso ha superato e sconfitto, anche a costo di pagarlo con il carcere o la morte dei suoi promotori.

    Di contro, un social che faccia rispettare ogni regola è, come abbiamo già visto, irrealizzabile.

    Al contrario, uno che non abbia alcuna regola sembra altrettanto utopistico, perchè alla lunga diventa ingestibile e perchè finirebbe per scaricare la colpa sui singoli utenti, al posto di assumersi responsabilità per eventuali mancanze (oltre che essere difficile da monetizzare e poco credibile agli occhi degli investitori).

    Scrive Falkvinge:

    Il progresso sociale impone la necessità assoluta di infrangere le leggi ingiuste, per mettere in discussione i propri valori, al fine di imparare dagli errori e andare avanti.

    Tutto sta nel far apprendere gli errori “giusti” e non quelli errati alla piattaforma, notificandoli e sottolineandoli a dovere. Se al contrario nessuno segnala più che razzismo, cyberbullismo e fascismo sono errori che il sistema non dovrebbe accettare, saranno normalizzati, con conseguenze non prevedibili nel mondo reale.

    Tanto vale, quindi, porsi la domanda in modo diverso: cosa posso fare di utile?

  • La vera storia del meme «Chill guy»

    Phillip Banks è il nome dell’artista autore del meme distribuito con nomi differenti, in genere “chill meme” o “chill guy“, letteralmente un “tizio rilassato”, dove la parola chill, “freddo”, “rigidezza”, “rigore”, va qui inteso come espressione gergale per indicare qualcuno che viva il proprio tempo in modo piacevole e senza eccessivi pensieri. Il suo account X / Twitter è ad oggi molto attivo, da quello che vediamo, e pubblica per lo più contenuti ironici o auto-ironici.

    Non si sa molto altro di Phillip Banks, se non che si tratta dell’omonimo del personaggio reso celebre dalla serie TV anni 90 Willy il principe di Bel Air. Sappiamo pure che Banks si oppone fermamente a qualsiasi utilizzo commerciale della sua opera senza consenso, in considerazione della grande adozione del suo disegno da parte di molte criptovalute uscite fuori sul web negli ultimi anni.

    Copyright: Philips Banks – https://x.com/phillipbankss

    Sebbene l’opera abbia avuto un notevole successo dopo la pubblicazione online, è diventata virale ad agosto 2024, quando un utente di TikTok ha creato una presentazione che la includeva tra i meme più interessanti visti online. Da lì in poi è stato un dilagare di nuove citazioni, che hanno ottenuto numerose visualizzazioni sui social, al punto di suscitare l’attenzione delle multinazionali Halo e Sprite.

    Cosa significa il chill meme

    Quello del chill meme è un cane dall’aria serena e composta, che sorride vagamente e che indossa un maglione grigio. Le mani sono in tasca, in un mood di silenziosa sicurezza di sè. Ogni dettaglio del suo essere, dal posato sguardo alle calzature ordinate, trasmette un messaggio che non è soltanto visivo, ma esistenziale: l’ideale del “chill”, quello stato d’animo in cui la vita si svincola dall’ansia per abbracciare un’armonia semplice e leggera.

    Secondo l’interpretazione più diffusa l’opera ha avuto successo come meme in quanto è stato considerato un invito riconoscibile, divertente e diretto a ricorrere all’autocontrollo nella vita di ogni giorno, sia utilizzando magari la psicoterapia o la psicologia oppure, ancora, i classici manuali di auto-aiuto (il mai abbastanza citato Fattore fortuna di Richard Wiseman, ad esempio). Il messaggio è quello di cercare di rimanere senza stress e affrontare la vita con un atteggiamento più rilassato di quanto la sregolazione emotiva media possa suggerire.

    Questo cane, che è ormai noto come the chill guy o chill meme, si erge a simbolo di una filosofia di vita: vivere serenamente senza il peso della frenesia, trovando il proprio equilibrio in un modo o nell’altro.

    Sarebbe un meme come tanti altri, ma qualcosa è profondamente diversa dalla media: il creatore dell’opera, Philip Banks, ha iniziato una battaglia per preservare l’aspetto artistico della sua creazione, opponendosi al suo uso commerciale, nello specifico in contesti legati alle criptovalute.

    Per rispettare la sua scelta, per inciso, su questa pagina abbiamo scelto di non inserire inserzioni pubblicitarie di alcun genere.

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