Salvatore

  • Vetro: il thriller sull’isolamento degli utenti internet

    Vetro: il thriller sull’isolamento degli utenti internet

    È uscito nei cinema il lungometraggio thriller d’esordio firmato Domenico Croce, girato sulla falsariga del sottogenere psicologico, e pervaso da curiose reminiscenze ai classici del genere e, cosa non da poco, con un sottotesto tecnologico tutt’altro che accessorio. Un lavoro per molti versi originale quanto semplice nella sua struttura, che sembra rifiutare l’effetto shock facile (troppo spesso banale scappatoia per accattivarsi il pubblico, o costruire serie TV pop) e si declina sulla tradizione del cinema di genere italiano, più ragionata e introspettiva. Un film che vale la pena, definitivamente, vedere almeno una volta nella vita e coglierne, in definitiva, ogni singola sfumatura.

    Il film è incentrato su un forte senso di claustrofobia, mood immarcescibile che pervade costantemente tutta la narrazione, e che racconta una singolare vicenda “di ogni giorno” scritta e sceneggiata da Luca Mastrogiovanni e Ciro Zecca. La sinossi assume tratti inusuali, rispetto alla media del genere, fin dal principio: il focus è infatti su una giovane protagonista, interpretata da Carolina Sala, rinchiusa da tempo indefinito nella propria camera.

    Vetro è un giallo zero-knowledge più classico che mai, quello in cui lo spettatore è catapultato nel mondo voluto dal regista senza complimenti, nè troppi preamboli. Non sappiamo perchè la ragazza si trovi lì, non conosciamo tantomeno il nome dei personaggi, non siamo nemmeno sicuri dell’ambientazione (Torino? Milano? …?), soprattutto non sappiamo di cosa abbia paura la ragazza. Nel frattempo la vediamo brancolare timidamente nella propria camera, in perenne ricerca di un qualcosa, di uno stimolo, di un perchè ad una vita, che sembra vivere isolata dal mondo esterno, in compagnia del solo padre. Padre che, di fatto, non appare per gran parte del film: sentiamo solo la sua voce, poi si affaccia dalla porticina del cane, rigorosamente chiusa a chiave dalla ragazza, giusto per portare da mangiare alla figlia, dialogando  amorevolmente con lei dietro una porta chiusa. Non sembra esserci verso di farle cambiare idea: quella porta non deve essere aperta, là fuori c’è qualcosa che la terrorizza. In questo scenario programmaticamente claustrofobico tutto potrebbe ancora essere, da una potenziale apocalisse in corso fino a eventuali morbose implicazioni relazionali.

    Non c’è tempo per rifletterci troppo durante la visione del film, peraltro, e – cercando di evitare spoiler che in questa circostanza potrebbero guastare parte della bellezza dell’opera -la narrazione si articola in due fasi ben distinte tra loro. Nella prima ci limitiamo ad entrare nella stanza (e nella vita) della diciassettenne protagonista, alle prese con quella che sembrerebbe una “ordinaria” crisi adolescenziale ed un rigetto verso il mondo esterno, forse a causa di un trauma regresso. Il film ci mostra il primo contatto coi social network della ragazza, la sua titubanza nell’iscrizione e la sua conoscenza (e frequentazione virtuale) in videochat con un ragazzo. Non è il mondo virtuale che conosciamo via Google e Facebook, per inciso: la scelta registica è quella di mostrarci motori di ricerca e piattaforme sociali inventate per l’occasione, con l’effetto di incrementare il senso di straniamento e concludere una prima sezione del film intrigante quanto forse, a ben vedere, un po’ prolissa. La seconda parte fa degenerare Vetro in un thriller onirico, anti-causale e vagamente simil-lynchiano, in cui la situazione è portata verso un’evoluzione psichedelica (uso e abuso di farmaci), fantasmatica e sempre più stringente, fino alla rivelazione ed al twist finale modello argentiano (Profondo rosso, peraltro, viene omaggiato da una specifica sequenza talmente evidente da provocare un sussulto nello spettatore, che sicuramente non passerà inosservata per quanto è azzaccata e liberatrice). Dopo aver visto il film sono abbastanza sicuro che non sarà difficile vedere nel personaggio della Sala una tragica, silente figura Femminile per eccellenza, un po’ anti-eroina un po’ scream queen, nella tradizione raccontata da autrici pluri-citate come Carol J. Clover.

    Nel disperato tentativo di capire cosa turbi così tanto la protagonista, tanto da far prefigurare allo spettatore apocalissi varie o eventuali nel mondo esterno, lo spettatore è messo davanti ad un’unico spiraglio di speranza: il talento per il disegno che caratterizza la protagonista, abile a disegnare fedelmente ciò che osserva, esasperato dall’essere alle prese con la manìa di spiare i vicini di casa dagli spiragli delle tapparelle della stanza, anch’esse tenute barricate. Un riferimento voyeuristico che non esprime solo una citazione al classico hitchcockiano di sempre (La finestra sul cortile), ma che diventa allegoria dell’utente qualunque, del popolo del web sui social network alle prese con lo sbirciare – e provare a ricostruire – le vite altrui.

    Non è un caso, a questo punto, che la protagonista sia una donna, una giovane donna in un universo popolato da quasi soli uomini, dove il proprio ruolo di vittima viene ribaltato da assunti sempre più spaventosi, in cui la lotta per la riscoperta del proprio Sè represso diventa causa di dolore, liberazione ed emancipazione. Sembra in altri termini la raffigurazione di un incubo cristallizzato, destinato a frantumarsi o a ricomporsi – lo stesso che abbiamo vissuto nei tempi più difficili della pandemia, quando il contatto con gli stessi consaguinei era limitato per motivi sanitari, ed in cui il “virus” questa volta è sociale, radicato nel nostro inconscio e, a questo punto, nell’intera società in cui ci pregiamo di vivere. Un incubo sconnesso in cui lo scenario è grottesco quanto paradossale, a volte onirico-psichedelico, e che non sembra un azzardo inquadrare come una raffigurazione dell’isolamento disagiato dell’individuo, così come una raffigurazione delle più atroci dipendenze da internet che affliggono tanti esseri umani sul pianeta.

    Come una novella protagonista di Luis Buñuel (L’angelo sterminatore), la donna non può uscire dalla propria stanza, bloccata da una paura irrazionale del mondo esterno, che riesce quantomeno ad esorcizzare mediante originali disegni e ritratti, anche grazie all’amore incondizionato per un cagnolino, unico essere vivente ammesso in sua compresenza. Una fobia, la sua, realmente esistente e ben nota in psicologia, tipicamente curata da farmaci e percorsi di psicoterapia, e che si riconduce al fenomeno degli hikikomori, i giovani giapponesi che si isolano dalla vita sociale volontariamente, costruendo il proprio mondo esclusivo all’interno della propria stanza.

    Su Wikipedia italiana, peraltro, una frase impietosa (quanto forse troppo generalizzante) ne definisce il comportamento: uno dei motivi che spingono gli adolescenti giapponesi a isolarsi – si scrive – è la volontà di sfuggire al conformismo tipico della società giapponese. Se è davvero così, il fenomeno degli hikikomori diventa il dilemma di un qualsiasi giovane pronto ad inserirsi nella società, attratto dalle lusinghe del guadagno e del sesso facili, quanto respinto da individui ostili e organizzazioni gerarchiche quanto stereotipate. Insomma, è una delle più grandi tragedie psicotiche del nostro tempo, o poco ci manca perchè lo sia. Nel caso di Vetro questa motivazione non sembra reggere del tutto, e presenta un considerevole distacco narrativo da quella tradizione anime/manga (da cui, peraltro, sembrerebbe prendere ispirazione almeno in parte), in cui il ragazzino isolato era l’eroe del fumetto o cartone animato di turno: la protagonista assume semmai la valenza di un’eroina più smaccatamente sociologica, immersa in un mondo in cui non ha colpe e da cui, probabilmente, vorrebbe mantenere il distacco. È dopo aver considerato tutto questo che – forse – entra in gioco il vetro del titolo, non solo chiave di volta a livello narrativo ma anche simbolo della psicologia della protagonista, fragile e tagliente al tempo stesso, trasparente quanto potenzialmente dannosa una volta fracassato.

    Per un thriller d’esordio, a conti fatti, tutto questo ci piace molto e, al netto di qualche momento di stanca ravvisabile soprattutto nella prima metà del film, la missione potrà dirsi compiuta. E molti di noi, speriamo per molto tempo, continueranno a vedere, amare e discutere Vetro. Un film italiano autentico e terrorizzante (soprattutto negli intensi, quanto improvvisi, minuti finali) di cui, sballottati come sempre tra improbabili reboot e terrificanti rehash delle medesime trame da quasi cento anni, avevamo bisogno.

  • Vieni avanti cretino: il manifesto della commedia all’italiana

    Vieni avanti cretino, a cominciare dal suo epico inizio col il monologo dentro al cesso di Lino Banfi, è un piccolo capolavoro nel mare dei film dell’epoca, fatto di momenti realmente esilaranti e reso digeribile (prima che cult)” da una bella struttura ad episodi. Il protagonista che cerca lavoro appena uscito dal carcere, infatti, diventa un valido pretesto perchè Banfi regali al pubblico quella che è rimasta una delle interpretazioni più amate fino ad oggi.

    Come soy desperado / pero’ non mi so’ sparado

    sono pieno de libido / arrapeto ed ingrifìdo

    e anche un pooooooo’…oooo-oooh… rincoglionido!

    Pasquale Baudaffi è un ex galeotto appena scarcerato che il cugino (Franco Bacardi) cerca di aiutare a trovare un’occupazione: questo diventa la scusa perchè da un lato Banfi faccia sfoggio – come accennavamo – delle sue doti di caratterista, e perchè dall’altro Luciano Salce (che si diletta di meta-cinema nei panni di se stesso nel finale) possa mostrare vizi (tanti) e virtù (poche) dell’italiano medio: esaurito, stressato, rincoglionito al cubo e ossessionato dal desiderio di sesso facile e senza pensieri.

    Molte scene sono tratte direttamente dai classici dell’avanspettacolo, a cominciare dall’equivoco dentista-bordello (con Banfi che per 10 minuti circa scambia l’uno per l’altro), a continuare per la scenetta dal meccanico con strip-tease della bella, disperata e scervellata Michela Miti, a finire con la scena mitica degli schiaffi, tutta in dialetto pugliese e sottotitolata in arabo. E come dimenticare, soprattutto, “la sua soddisfazione è il nostro miglior premio! … piripiripiripiripiripiri” che si fa beffe delle manie industrialiste di produttività, senza risultare mai greve, e con un certo piglio non-sense.

    Pasquale è prima indotto a recarsi in un bordello, che in realtà è uno studio dentistico nel quale si consumano una serie di equivoci clamorosi: successivamente prova a fare il meccanico, va all’ufficio di collocamènDo tentando di avere l’autorizzazione a fare il cacciatore, prova a fare il tecnico-elettronico, e poi anche il cantante (Filomegna in barese-spagnolo è un capolavoro totale del trash, perltro completamente improvvisato a quanto pare).

    Alcuni momenti non spiccano per brillantezza, come la scena in cui il cugino cerca di nascondere la propria relazione clandestina alla moglie servendosi di Banfi come goffa spalla, ma al di là di mostrare belle donne un po’ dovunque, l’intenzione di Vieni avanti cretino è quella di divertire con spunti di intelligenza – a differenza di altri film del genere – al di sopra della media.

    Il film vive comunque vari momenti deboli (la comparsata dell’affascinante Michela Miti, per quanto gradevole per lo scompiglio ormonale maschile, c’entra come i cavoli a merenda e potrebbe risultare irritante), che pero’ si controbilanciano grazie alle numerose scenette efficaci e dal ritmo perfetto. Questo avviene soprattutto nella seconda metà del film, almeno fin quando non arriva la notissima scenetta nell’industria elettronica, tasto-rosso-verde e piri-piri-piri-piri-piri.

    Tra le interpreti meno note, Moana Pozzi (poco riconoscibile, ma accreditata come l’assistente di laboratorio), oltre alla bella Francesca Viscardi (che in quel periodo fece anche Tenebre di Dario Argento). La nudità femminile del film, sempre sospesa in comportamenti surreali delle donne in questione (belle o brutte che siano, in costante attesa di accoppiamento col primo che incontrano): fa ridere il consueto tono sessista con cui tali corpi sono ritratti, senza pero’ cambiare nulla al senso ed al divertimento del film stesso.

    La scena di Banfi operaio nell’industria elettronica, se da un lato entra nella storia del cinema per il suo compiaciuto e demenziale non-sense (Mel Brooks non avrebbe saputo fare di meglio), è stata da alcuni paragonata al celebre film di Chaplin Tempi Moderni che ritrae impietosamente (e con la giusta leggerezza, se vogliamo) il rapporto uomo-macchina. Un paragone che regge francamente poco, ripensandoci oggi, ma che nulla toglie al carattere straordinario di questo film dei primi anni 80 ed alle sue irresistibili macchiette da cabaret.

    Un film leggendario e divertentissimo: uno dei miei preferiti nel panorama del cosiddetto, e spesso abusato, genere trash.

  • L’occhio nel triangolo: gli zombi nazisti di Weiderhorn

    Un gruppo di naufraghi, il Triangolo delle Bermuda ed un generale delle SS che comanda un manipolo di soldati zombi invincibili: per usare una metafora calcistica, il film vince (per la tripla interpretazione Carradine, Cushing, Adams), ma non convince affatto nella sua interezza.

    In due parole. Esperimenti tedeschi segreti hanno permesso di realizzare dei pericolosi soldati modificati geneticamente, sopravvissuti alla guerra fino agli anni 70. Nonostante l’interpretazione di due “mostri sacri” quali John Carradine (il capitano della nave) e Peter Cushing (il comandante SS sull’isola), il film finisce per essere un’occasione persa.

    L’ispirazione della trama è basata su alcune notissime dietrologie, come confermato dall’introduzione originale del film in cui si racconta di soldati tedeschi visti combattere a mani nude durante la seconda guerra mondiale, apparentemente invincibili e mai catturati vivi. Si tratta di una delle note teorie del complotto nazista, con annessa creazione mediante ingegneria genetica di superguerrieri, unite alle ipotesi inquietanti sul Triangolo delle Bermuda. Non si può fare a meno di notare come la storia sia piuttosto fragile nel suo incedere, con momenti decisamente poco credibili ed un po’ campati in aria (l’attacco di claustrofobia di uno dei protagonisti), mentre altre trovate appaiono piuttosto azzeccate, quantomeno per la loro portata “economica” (ad esempio il regista riuscì a far sembrare numeroso un esercito di soli otto attori-zombi, e ridusse a quattro giorni le riprese con gli attori più famosi per poter rientrare nel budget).

    Il film, per la verità, non dice moltissimo: piuttosto prevedibile nello sviluppo, un po’ lento, poco coinvolgente ed interpretato in modo piatto: tuttavia Ken Weiderhorn (regista de “Il ritorno dei morti viventi – parte II” come de “I paraculissimi”) fornisce una prova sostanzialmente non disprezzabile. Un film che potrebbe divertire per la sua ostentata serietà, che racconta una trama prevedibile che fa quasi passare la voglia, e che vive di un’eccessiva ripetitività dell’azione (gli zombi tendono a ripetersi fin troppo), ed è bene che il pubblico abituato a ben altri prodotti stia alla larga.

    Gli automi nazisti sono stati realizzati sui corpi dei soldati migliori dell’esercito tedesco, ed hanno sviluppato forza disumana, capacità di stare sott’acqua e di essere “non morti, non vivi, ma qualcosa di mezzo“: essi non tarderanno ad attaccare gli sventurati naufraghi dell’isola, convinti di essere ancora in guerra agli ordini del proprio comandante. Esiste soltanto un modo per sconfiggerli, e sarà la giovane Brooke Adams a scoprirlo incontrandone uno; nel frattempo pero’, si sono create delle aspettative nello spettatore, che si aspetta una svolta al piattume che lentamente sommerge lo schermo, fino ad arrivare ad un finale amaro e piuttosto “vuoto”.

    La tagline del DVD italiano, in versione integrale con reintegrazione di tutte le scene originali con sottotitoli, è da apoteosi del kitsch, e riassume efficacemente l’intero film: “zombi nazisti in cerca di prede umane“. Dato che la storia non è impresentabile di per sè, “L’occhio nel triangolo” sembra – visto oggi – un’occasione persa o, se preferite, un cult mancato.

    Fonte: imdb

  • Non ho sonno: la storia dei delitti del nano

    Ulisse Moretti (Max Von Sydow) indaga sul serial killer denominato “Il Nano”, considerato responsabile di almeno tre omicidi, collegato ad una storia di 17 anni prima…

    In breve. Epigono di Profondo Rosso ricco di suspance, forse prevedibile in alcuni suoi sviluppi quanto considerevole nel suo insieme. Argento non è inferiore alle aspettative, e si diverte con le citazioni da altre sue opere.

    Contaminatissimo dai suoi precedenti lavori, e con la collaborazione dei Goblin alla colonna sonora e di Sergio Stivaletti agli effetti speciali, Dario Argento produce uno dei suoi migliori film recenti, forse perchè influenzato in modo spinto dalle produzioni per cui è diventato famoso: è evidente che la storia dell’assassino di una medium ha giocato un ruolo determinante, soprattutto nella definizione delle scene clou (ne cito tre: la vivida morte per mano di un clarinetto, l’omicidio sul camino e la morte per soffocamento). Insanamente violento e curatissimo nei dettagli (come la prima morte sullo schermo, che sembra essere uscita da Tenebre), fu interpretato magistralmente da Max Von Sydow e preso un po’ alla leggera, a mio parere, dagli altri interpreti (ad esclusione della lucida follia dell’insospettabile assassino). La storia è ambientata nella Torino in cui vive la vicenda del pianista jazz, e racconta di un criminale che torna ad uccidere senza un apparente motivo dopo 17 anni. Sul suo conto indagano un commissario di polizia ed il figlio di una donna uccisa 17 anni prima in circostanze misteriose: l’assassino è un copycat, oppure si è risvegliato?

    Bellissima la storia basata sui ricordi ricostruiti dal protagonista, costruita grazie all’ausilio del giallista Carlo Lucarelli, perfetto ogni piccolo dettaglio di “Non ho sonno“: a partire dalla filostrocca di morte, all’aspetto scaramantico legato ai 17 anni, alla costruzione di Ulisse Moretti, sintesi argentiana di molti poliziotti visti in precedenti film. Probabilmente, invece, l’escamotage con cui si rivela l’assassino non è pienamente all’altezza della genialità delle opere precedenti: del resto basta guardare con attenzione il film per intuire quale esso sia, e questo un po’ stona nel quadro argentiano che da sempre si prefigura come una macchina mortale perfetta e senza una sbavatura. Del resto resta vero che dopo tanti successi si crei un clima di aspettativa insostenibile, che porta a sottovalutare tutto quello che esce oggi solo perchè, appunto, “non è roba degli anni 70/80“.

    Ad ogni modo la nostra onestà di spettatori dovrebbe imporci di affermare che “Non ho sonno” è un buon film focalizzato con cura e passione per il giallo classico, che fa invidia alle tante produzioni banali odierne.

  • Dracula cerca sangue vergine… e morì di sete: il decamerotico horror di Margheriti

    Il conte Dracula arriva nel nostro paese durante gli anni 30, assieme al suo insopportabile assistente, alla ricerca di ciò che in Romania sembra essere molto poco diffuso: giovani fanciulle senza alcuna esperienza in campo sessuale.

    In breve. Un film di Antonio Margheriti (sotto pseudonimo) che propone una variante, a tasso leggermente più erotico della media, al mito del celebre vampiro. Un film di vecchia scuola, influenzato dal gotico italiano ed incentrato interamente sulla ricerca di una giovane vergine italiana per sopravvivere. Grottesco e, quando necessario, sul filone del decamerotico.

    Come si può immaginare, il plot è uno scenario ideale per mostrare fanciulle vogliose di avventure erotiche, in molti casi represse dall’ambiente in cui vivono: le scene di nudo non sono poche, unite a  qualche momento di sesso per l’epoca piuttosto esplicito. Non mancano spunti ironici che rendono il film tutto sommato gradevole. L’atmosfera è puramente settantiana sia nell’ambientazione che nei velati riferimenti politici, espressi ad esempio nella figura del contadino dal bell’aspetto che se la intende con una delle giovani nobildonne. Tanto più significativa dato che nella casetta dove si appartano capeggia una falce e martello disegnata sul muro! Il film sembra dunque avere una doppia lettura: da un lato una metafora della borghesia (la nobiltà, esasperata nella figura di Dracula) che ha bisogno di sangue puro per sopravvivere (il contadino sfruttato, le fanciulle apparentemente innocenti); dall’altra, il perbenismo della maggioranza che cerca di sedurre i facinorosi con lusinghe irrinunciabili (il sesso tra nobildonna ed il contadino).

    “Non ricominciare con il socialismo! Lo sai che mi annoia a morte…”

    Esmeralda, Rubinia , Perla e Sapphiria sono le quattro figlie di nobile famiglia rigidamente cattolica, che nascondono uno strato di vizi insospettabili. Il mito del vampiro, del resto, non consentiva ampi margini di invenzione: Udo Kier è convincente nella parte del conte, mentre il film probabilmente rischia di annoiare un po’ lo spettatore moderno, per via del suo rallentamento (non diverso, per la verità, dalla media del gotico italiano). Ad ogni modo il gore estremo della scena finale vale il prezzo dell’allora biglietto (o del DVD, per i temerari di oggi).

    Per la cronaca, inoltre, si tratta dell’ultima apparizione sullo schermo del grande Vittorio De Sica: tutto sommato godibile, ben realizzato e divertente, anche se leggermente prolisso.

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