Salvatore

  • Se credi di essere un giornalista da Pulizter, guarda “Il corridoio della paura”

    Se credi di essere un giornalista da Pulizter, guarda “Il corridoio della paura”

    Un giornalista molto ambizioso si fa rinchiundere in un ospedale psichiatrico: il suo obiettivo è descrivere direttamente la propria esperienza con i malati di mente – e vincere il Premio Pulizter.

    In due parole. Ottimo film dai toni hitchcockiani con un tocco di follia in più, capace di essere particolarmente appetibile per gli amanti del thriller psicologico. Un protagonista apparentemente sicuro di sè, ed in cui è facile riconoscersi, viene progressivamente travolto dal male interiore che affligge l’ospedale psichiatrico. Il tutto diventa una scusa per tenere sulle spine lo spettatore, lanciare messaggi sociali e satireggiare razzismo e intolleranza.

    Un ospedale psichiatrico diventa teatro di un omicidio ai danni di un paziente, ed un giornalista intraprendente – aiutato dalla compagna spogliarellista – si fa ricoverare fingendosi impazzito. Lo scenario che si apre davanti a lui è inquientante: il “corridoio della paura” + quello dell’ospedale, nel quale i ricoverati trascorrono “l’ora dell’amicizia” comportandosi come se fossero sul corso principale della città. Due infermieri (prevedibilmente uno “buono” e l’altro “cattivo”) ne seguono perennemente i movimenti, mentre Johnny Barrett fa amicizia con un italiano-tenore, con un reduce dalla guerra in Corea, con un nero che inneggia al Ku Klux Klan e con un promettente fisico regredito allo stato infantile. Grandissima cura dei dettagli, riprese efficaci ed incisive ed ottime interpretazioni la fanno da padrone, in un film in cui la follia arriva sempre senza preavviso (e in modo probabilmente non irrealistico).

    Lo scorrere del film è suddiviso fra tre personaggi in particolare, da cui il protagonista cerca di trarre informazioni per risolvere il caso di omicidio. Particolarmente riuscita la sequenza annessa al razzismo, nella quale il ragazzo di colore fa un vero e proprio comizio nel corridoio, riuscendo ad istigare tutti i pazienti contro un singolo: una scena che rivela uno dei tanti messaggi di natura satirico-sociale del film stesso. Il contesto de “Il corridoio della paura” fa capire, effettivamente, quante poche possano essere le differenze tra il mondo reale e quello di un ospedale psichiatrico, in quanto in entrambi regnano sostanzialmente i medesimi meccanismi perversi. Le incomprensioni, la mancanza di comunicazione ed i fraintendimenti sembrano coniugarsi ai medesimi livelli, con la differenza che la parte repressiva viene affidata agli infermieri invece che alle autorità. Geniale, poi, che Fuller abbia reso le allucinazioni dei vari personaggi a colori (i footage tratti da “Japan for House of Bamboo” e quelli girati per l’incompiuto “Tigrero“), mentre il resto del film è in un vivido bianco e nero.

    Una nota di merito ulteriore è legata poi al meccanismo quasi hitchockiano con il quale i due amanti si fingono fratello e sorella: gli incontri che avvengono periodicamente nel “giorno delle visite” sono dei veri e propri capolavori di tensione, proprio perchè i due sono tentati dal comportarsi da coppia mentre il resto del mondo deve credere che siano consanguinei.

    Una visione “must”, in definitiva, nell’ambito del filone thiller “manicomiale”, che molti emuli avrà negli anni successivi (“Qualcuno volò sul nido del cuculo” e, più recentemente, Gothika).

  • Recensione di “The substance” senza spoiler, per chi non l’avesse ancora visto

    In pochissime parole The substance è un film sul tema del doppio, ben oltre i canoni del sottogenere e ricco di cinematografia horror classica come non se ne vedeva da tempo. Un lavoro complesso, stratificato su almeno due direttive (la società dello spettacolo e la questione femminile) e che fa ampio uso dei canoni cinematografici tipici dei classici dell’horror anni Ottanta. Un tema, quello del doppio, da sempre al centro di cinematografia e letteratura mondiale, declinato come espressione della crisi di un personaggio in senso universale, sociologico: “il” conflitto per eccellenza. Un sottogenere di film, quelli incentrati sul doppio (Doppelganger) che suggerisce, da che mondo è mondo, miriadi di metafore sociali, psicologiche ed esistenziali. Il punto è che una discreta parte di queste pellicole si limitano a esibire l’aspetto scenografico limitando l’apparato simbolico, o al limite fanno l’esatto opposto con risultati comprensibili a pochi. The substance trova un equilibrio anche in questo, e tanto basta.

    Film del 2024 della regista Coralie Fargeat, al suo secondo lungometraggio dopo Revenge, rientra nello spinoso novero degli horror sociologici, e presenta un body horror (l’horror incentrato sulla genetica del corpo e sulle sue degenerazioni), sulla falsariga di come l’avrebbe concepito David Cronenberg in quel gioiello noto come Inseparabili (la storia, per chi non lo ricordasse, di due gemelli chirurghi che si scambiano e confondono i rispettivi ruoli). Ma si dirige con maestria, essenzialità e gusto del macabro strizzando l’occhio a uno degli horror sociali più famosi di ogni tempo: Society di Brian Yuzna, un mini trattato sociologico, anche stavolta in chiave grottesca, del mondo ipocrita delle apparenze e dei VIP. C’è realmente tutto, dentro The substance, senza neanche l’esigenza di esibire autoindulgenza, richiamarsi ad una pompa magna cinefila fine a se stessa, senza autocelebrazione, senza pretenziosità, senza l’ossessione del riferimento culturale da nerd che finirebbe per dare più fastidio che altro. Al netto degli eccessi di un finale esageratamente gore (e forse un po’ troppo lungo, che abbiamo deciso di non rivelare per non togliervi il gusto di scoprirlo da soli)  The substance non lascerà il pubblico indifferente, specie se paragonato al precedente lungometraggio della Fargeat quasi sulle stesse tematiche che, a dirla tutta, aveva convinto solo in parte. E le tematiche sono e rimangono di genere, naturalmente: patriarcato, questione femminile, parità di diritti, tutti declinati in chiave splatter.

    Non a caso Peter Bradshaw ha scritto sul The guardian che Roger Corman avrebbe certamente amato The substance, dato che è un’opera imbevuta di riferimenti smart ai classici del genere: Society, La cosa di John Carpenter – e potremmo spingerci addirittura fino a Elephant Man di David Lynch. The substance è probabilmente uno dei migliori esempi di horror splatter moderno per il quale la metafora è tanto ben costruita da evocare uno studio scientifico di genere, e per cui i dettagli fanno la differenza (anche quelli più apparentemente insignificanti: su tutti il fatto che i produttori televisivi siano rappresentati sempre e solo come maschi di età avanzata). Non a caso, il film si apre con l’immagine di un uovo nel cui tuorlo viene iniettato quello che si scoprirà essere un siero per ringiovanire le persone, il quale produce la scissione del tuorlo in un doppio identico per partogenesi (anche qui, non a caso, un processo di fecondazione senza spermatozoi).

    La società delle apparenze di THE SUBSTANCE non è solo e semplicemente bigotta e conformista: è imbevuta di cultura patriarcale, di un mansplaining irritante e superbo, di aspettative sociali irrealizzabili quanto ambite, intollerabili per qualsiasi donna che, di sicuro, mai potrà mantenersi “giovane & bella” come vorrebbe (o meglio, come il mondo maschile si aspetta). Il mito dell’eterna giovinezza evocate sulle prime, pertanto, diventa un pretesto per costruire un horror femminista, sulla falsariga di Revenge della stessa regista e con maggiore consapevolezza di stile, mezzi e modi, più centrati in questo caso sull’horror puro che sulla exploitation. Con le idee più chiare sul messaggio da recapitare al pubblico, con l’idea che il cinema possa ancora, contrariamente all’aspetto meramente speculativo amato dalla maggioranza dei cinefili, essere espressione di critica sociale in senso praticamente marxista. Woke, diranno i detrattori!

    Del resto The substance è anche un corposo splatter incentrato sulle mostruosità della società dello spettacolo, lo stesso spettacolo che secondo Guy Debord consiste in “un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini“. Non bisogna, in altri termini, limitarsi a vedere l’aspetto esteriore delle immagini patinate delle atlete di aerobica perfette quanto sessualmente allusive, ma bisognerebbe considerarle frutto di un contratto, di una burocrazia televisiva che pretende di conoscere e modellare i gusti del pubblico (qualsiasi cosa si voglia intendere con esso), in uno scenario di un mondo maschile tendenzialmente gretto quanto ambivalente – qui rappresentato come volgare e irrispettoso verso le donne più avanti con l’età quanto servile e disponibile, grottescamente, nei confronti delle giovani.

    The substance, col suo incendere inesorabile ed essenziale (e la sua forma prima da thriller, poi da body horror, infine da splatter puro con tanto di litri di sangue che sgorgheranno da ogni dove), racconta una storia ambientata ai giorni nostri che (probabilmente non a caso) strizza l’occhio agli anni Ottanta (come fa anche Maxxxine, ad esempio). Serve a creare un riferimento culturale ben riconoscibile ma, a ben vedere, se esistono le penne USB non possono essere gli anni Ottanta. Perchè forse non è quello il punto: e allora diciamo sì all’immaginario iconico da fitness televisivo (inteso non in termini salutisti, ma puramente estetici), e rappresentiamo un mondo in cui la chirurgia estetica si potrà fare anche in casa. Il fai-da-te che osanna l’individualismo sfrenato del mondo in cui viviamo, per cui non esistono che post verità ed ognuno, letteralmente, si fabbrica in casa la propria, arrivando a rimodellarsi il corpo in autonomia. Al tempo stesso, il rapporto sociale in gioco è tra la donna e la società di oggi, ovviamente patriarcale, una donna ridotta a blanda fisicità, a forme sempre perfette, invidiabili, prive di imperfezioni; una donna pressata ossessivamente ad essere bella quanto passiva, sempre sorridente, presente agli eventi, socialmente impeccabile, sessualmente attiva.

    Elisabeth (Demi Moore) conduce un programma televisivo sul fitness per cui tutto sembra andare per il meglio, dato che il pubblico la segue con interesse e lo show gode di grande successo. Dopo aver finito le riprese di una puntata, proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, sente casualmente il suo produttore fare considerazioni sulla necessità di sostituirla con una showgirl più giovane. La circostanza la manda in crisi esistenziale: poco dopo fa un incidente d’auto, da cui esce miracolosamente illesa. È a questo punto che un ambiguo infermiere le consegna una chiavetta USB con su scritto THE SUBSTANCE – il film sarà periodicamente intervallato da queste scritte emblematiche, tutte in maiuscolo, che sembrano assolvere una funzione analoga a quella dei cartelli portati in scena dal teatro brechtiano.

    La chiavetta contiene la pubblicità di una misteriosa azienda che si occupa di chirurgia estetica “fai da te”, in grado di fornire un kit per far ringiovanire chiunque volesse farlo. Da questo acquisto Elisabeth sarà effettivamente rigenerata e potrà proporsi al suo stesso programma in veste di Sue (Margaret Qualley), con l’unico dettaglio che il suo corpo non è stato propriamente sostituito, ma si è scisso in due: i due corpi sono dipendenti tra loro, hanno bisogno di essere alimentati periodicamente e uno potrà trarre giovamento dall’altro, come un parassita. È una situazione puramente cronenberghiana, a ben vedere, tipica del body horror di ogni latitudine, in cui da un lato c’è l’ossessione per l’estetica perfezionista (e la critica sottintesa al fatto che una donna che passa i cinquanta anni debba ricevere un trattamento sociale ben più crudele di quanto avvenga per l’uomo), dall’altro c’è l’ossessione per uno spettacolo artefatto e mortifero, che “deve” andare avanti ad ogni costo. E in ultimo, ma non ultimo come importata: la lotta tra i due corpi giovane / anziano di Elisabeth e Sue non esiste, non è mai esistita e mai potrà esistere, perchè è solo l’ennesimo conflitto interiore di una donna: un’allegoria talmente potente da dare l’impressione di uscire dallo schermo durante la proiezione.

    Sue non sarà pertanto solo l’alter ego giovane, dinamico, bello e propositivo di Elisabeth: ad un certo punto inizierà ad (auto)abusare del suo vecchio corpo, per egoismo ed avidità personale, mentre Elisabeth sarà sempre più sola, affranta e sregolata emotivamente per la scelta compiuta. Con risultati sempre più devastanti, come prevedibile, e con il merito da attribuire alla regia di aver costruito un horror compatto, molto ben girato, privo di fronzoli e che sicuramente farà discutere (farà discutere soprattutto chi percepirà l’opera come un attacco allo status quo, e che finirà per rilevarne difetti inesistenti).

    In definitiva ci sono discrete probabilità che con The substance Coralie Fargeat (classe 1976, che firma regia e sceneggiatura) sia rientrata con questo film nell’olimpo dei cult, dei film che rivedremo anche in futuro nelle retrospettive, affiancandosi a mostri sacri del cinema horror come Cronenberg e Carpenter. Non a caso, forse, tra le prime donne a muoversi (finalmente) in questa direzione.

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  • Sbatti il mostro in prima pagina: manipolare la realtà grazie ai giornali

    Se c’è una certezza radicata in qualsiasi film anni 70 è l’espressività del titolo, l’uso di frasi che sanno di sentenza e che esprimono l’essenza della trama. Sbatti il mostro in prima pagina, è proprio uno di questi, sulla falsariga de La classe operaia va in paradiso e Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Siamo nella Milano degli anni di piombo, e un inquietante fatto di cronaca viene innestato con i subbugli e le assemblee politiche del periodo.

    Il giornale è un quotidiano politico di destra (solo omonimo di quello che uscirà due anni dopo, fondato da Indro Montanelli), formalmente una voce pacata e concisa. È quello che sentiamo affermare a Bizanti, giornalista manipolatore del quotidiano interpretato dal camaleontico Gian Maria Volontè.

    Sono gli anni 70, e Milano è in subbuglio, incendiata dagli scontri tra gruppi extraparlamentari: uno di questi colpisce a molotov e sassate la sede del quotidiano. Il gesto viene immediatamente strumentalizzato dalla redazione, che si appella al questore per ottenere quella protezione che, si fa intuire, devono essersi meritati grazie alla propria linea editoriale.

    Nella sceneggiatura concepita da Sergio Donati e  Goffredo Fofi, zeppa di riferimenti a fatti di cronaca realmente avvenuti (come il caso Valpreda, le bombe dei terroristi e la morte di Giangiacomo Feltrinelli), alla base di tutto vi sono le imminenti elezioni che, senza mezzi termini, il direttore ed il principale finanziatore del quotidiano intendono pilotare. A contrapporsi a Bizanti vi sarà un giornalista integro quanto strumentalizzato, che scoprirà le trame ed i reali intenti della redazione: fomentare il populismo e l’odio del lettore verso un nemico comune, per evitare la vittoria delle forze di sinistra alle elezioni. Bizanti, come se non bastasse la sua carica reazionaria e priva di scrupoli, arriva anche ad ispirarsi e a citare Göbbels, il quale “diceva nei suoi diari che le masse sono molto più primitive di quanto possiamo immaginare. La propaganda quindi deve essere essenzialmente semplice, basata sulla tecnica della ripetizione, tecnica peraltro modernissima, mandata avanti dalle agenzie americane. Unique selling proposition: unica proposta di vendita“. In questo senso, Sbatti il mostro in prima pagina è, nonostante l’età, un film profondamente moderno ed ancora molto attuale.

    L’occasione è subito sul piatto: il caso di omicidio e stupro di una ragazza, per cui si trova immediatamente un imputato di comodo, Mario Boni (reso credibile mediante l’infiltrazione degli stessi giornalisti), militante nelle fila della sinistra extraparlamentare.

    “Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli”. Ora, io non sono Umberto Eco e non voglio farti una lezione di semantica applicata all’informazione, ma mi pare evidente che la parola “disperato” è gonfia di valori polemici. Se poi me lo unisci alla parola “disoccupato”, “disperato disoccupato”, beh, allora ci troviamo di fronte a una vera e propria provocazione. Scrivi:”Drammatico suicidio”. “Drammatico suicidio“, due parole. “Di…” Cos’è, un calabrese, il poveretto?Ecco, “…di un immigrato“. “Immigrato”, una parola sola, che contiene implicitamente il “disoccupato” e il “padre di cinque figli”, ma dà anche un’informazione in più.

    Nella sua interpretazione, Volontè è ancora una volta un convincente quanto terrificante protagonista, abile con le parole quanto subdolo, in grado di impersonificare il potere dell’informazione che oggi, soprattutto grazie ad internet, è esasperato all’ennesima potenza.

    La regia di Bellocchio è quasi quella di uno spy movie, abile a mostrare una società che stava cambiando e che è ricca di informatori in incognite, autorità repressive ed infiltrati. Il tutto intervallato dalle prime pagine del giornale, sempre più reazionarie ed inquisitrici nei confronti del movimento a cui Mario Boni apparteneva.

    L’autorevolezza di qualsiasi giornalista, da sempre in discussione fin dall’epoca dell’uscita del film, viene criticamente messa in discussione come la credibilità delle autorità: da un lato giornalisti caustici e conservatori, dall’altro forze dell’ordine dai metodi decisamente al di sopra della legge. La borghesia dell’epoca viene rappresentata come  un mostro globalizzato dalla parvenza mostruosa, pronto a fare appello al disordine morale ed alla decadenza dei costumi per provare ad imporre una società sempre più autoritaria. Si può, come sempre, essere d’accordo o meno con la sostanza espressa dal film, ma una regia impeccabile e ritmata, che eredita da più generi la propria essenza: spionaggio, giallo, neorealismo e via dicendo.

  • Il circo della farfalla: la storia dell’uomo senza arti di J. Weigel

    Will non possiede nè gambe nè braccia: e per questo motivo viene sfruttato da fenomeno da baraccone, modello Freaks.

    In breve. Un sintetico saggio di “crescita personale”, incentrato su un personaggio caratterizzato da un handicap fisico.

    Uscito nel 2009 e diventato molto popolare sul web, vanta circa 40 milioni di visualizzazioni il che vuol dire, senza cimentarci in calcoli improbabili, che moltissime persone al mondo lo hanno visto (e soprattutto citato). Se state cercando uno dei film virali per eccellenza, lo avete appena trovato: ma ovviamente il numero di views non dirà granchè, di suo, sulla qualità del prodotto.

    Per certi versi, l’ambientazione circense iniziale (siamo in un circo, diretto da un eccentrico direttore co-protagonista con la presenza di Will, personaggio principale sul quale si incentra il focus della storia) presenta un vago richiamo a quella dei grandi horror (si va da Rob Zombi a Tobe Hooper), ma ovviamente senza l’incisività aggressiva di quel tipo di riprese. I clown, gli acrobati ed i freak in genere sono espressione di una singolarità per cui vengono paradossalmente derisi o ammirati, a seconda dei casi. Il tono è assolutamente pacato, realmente per un pubblico di ogni età e gusti, ed è caratterizzato da toni favolistico-psicologici.

    Il circo in questione si rivelerà essere popolato da artisti reietti (la donna cacciata in malo modo perchè incinta, l’acrobata considerato troppo anziano per lavorare e via dicendo), e per questo The butterfly circus è anche intriso di una malinconia di fondo che, a lungo andare, potrebbe risultare vagamente artificiosa, al netto della fortissima teatralità e carica motivazionale di ciò che vediamo al suo interno. Consiglio anche di vedere il film in lingua originale, non per vezzo radical chic ma perchè il doppiaggio, a mio avviso, tende a rimarcare qualche difetto per un film che, tutto sommato, sembra totalmente sincero nella propria attitudine.

    Per chi conosce a memoria soprattutto The elephant man e Freaks (il cui pessimismo antropologico è qui assente, se non completamente invertito: Will troverà un proprio numero da eseguire nello spettacolo, ritrovando una propria dimensione umana e attraendo, così facendo, i propri simili) dovrebbe essere un must, anche per coglierne determinate sfumature che tendono vagamente al lacrimoso – lo ribadisco, senza passare per uno stereotipato “cuore di pietra” – ma che rendono la storia perfettamente godibile anche per chi non avesse presente quei canoni.

    Il messaggio di fondo è che dalle ceneri può nascere la bellezza, passando per un percorso di auto-consapevolezza a cui il protagonista, demoralizzato per la propria condizione fisica, viene indirizzato dal direttore del circo (peraltro in maniera apparentemente cinica). Al netto della validità del messaggio, rimane anche una forma registica molto compatta: non era agevole sintetizzare in soli 20 minuti tutto questo, senza cedere alla tentazione di incursioni didascaliche o moraliste.

    Il format non è esattamente da cinema d’autore classico, ma chissà che non venga considerato tale tra qualche anno, magari.

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