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Cinema, arte, spettacolo e filosofia spicciola.

  • Le musiche di Mulholland drive

    Le musiche di Mulholland drive

    Mulholland Drive 2001

    David Lynch

    musiche Angelo Badalamenti (… e altri).

    Non ho parole per sostituire e per descrivere una lista davvero lunghissima di premi riconosciuti a questa pellicola. Lynch nel 2001 suscitò un qualcosa che tuttora rimane nell’immaginario di molte persone. Occupandomi dell’aspetto sonoro, però, devo dire che “il solo”- premio 2002 – Online Film Critics Society Awards, come miglior colonna sonora originale – ad Angelo Badalamenti, in effetti sta un po’ stretto.

    Certo siamo a vedere un film, non a chiudere gli occhi per ascoltarne le musiche, ma ci sarebbe da provare. L’inizio è esplosivo. E’ un jitterbug che riporta a epoche non troppo distanti nel tempo, con musiche fatte di positiva e nervosa frenesia, con degli effetti e montaggio dei titoli di testa, davvero interessanti, che con la loro “grafica” e il tema iniziale, ti catapultano in un altra epoca.

    Poi …

    la realtà, il tema principale nonché titolo della pellicola … passano i nomi degli artisti davvero perfetti, e un atmosfera di archi delicatissima ma inquietante a poco a poco, contrasta fortemente la prima parte, e ci riporta bruscamente alla realtà. Contrasto sonoro diretto frontale tra due auto.

    Stop.

    Silenzio per alcuni istanti.

    Ancora un po’ di archi.

    Benvenuti in questo dramma.

    Silenzio, chi sono? Dove sono?

    Il film è partito e Lynch è maestro di silenzi, ma non solo avendo partecipato in più tracce all’arrangiamento con Badalamenti. Probabilmente la descrizione di un suo stato d’animo è diventata film proprio grazie a quelle note, azzeccatissime (non è un aggettivo appropriato, ma funziona).

    Badalamenti in questi primi minuti, già fa capire che ha “confezionato” (composto e diretto) un vestito perfettamente su misura. Un maestro delle atmosfere cupe ma ricche di correnti e contenuti miscelati davvero da top player e dirigendo un’orchestra europea di spessore.

    … e badate bene, questo è solo l’inizio del film … e non posso prendere troppo spazio a Salvatore, in effetti ho preferito indicare la track list con le specifiche del caso. Se si riterrà opportuno scriveremo una seconda parte di digressioni su questa soundtrack.

    Di seguito la track list completa di tutto. Badalamenti è stato, peraltro, pure produttore.

    TRACK list

    • Jitterbug
      Composto da Angelo Badalamenti. Eseguita da Angelo Badalamenti con la Filarmonica della Città di Praga. Arrangiamento aggiuntivo di David Lynch e John Neff.
    • Mulholland Drive
      Composto da Angelo Badalamenti. Eseguita da Angelo Badalamenti con la Filarmonica della Città di
      Praga.
    • Rita Walks/Sunset Boulevard/Zia Ruth
      Composta da Angelo Badalamenti. Eseguita da Angelo Badalamenti con la Filarmonica della Città di Praga. Arrangiamento aggiuntivo di David Lynch e John Neff.
    • Diner
      Composto da Angelo Badalamenti e David Lynch. Eseguita da Angelo Badalamenti con la Filarmonica della Città di Praga.
    • Mr. Roque/Betty’s Theme
      Composto ed eseguito da Angelo Badalamenti.
    • La Bestia
      Scritta da Dave Cavanaugh. Eseguita da Milt Buchner.
    • Bring It On Home
      Scritto da Willie Dixon. Eseguita da Sonny Boy Williamson.
    • I’ve Told Every Little Star
      Scritto da Oscar Hammerstein II e Jerome Kern. Eseguita da Linda.
    • Dwarfland/Love Theme
      Composto ed eseguito da Angelo Badalamenti e David Lynch.
      Silencio
    • Composto da Angelo Badalamenti e David Lynch. Eseguita da Angelo Badalamenti con la Filarmonica della Città di Praga.
    • Llorando (Crying)
      Scritto da Roy Orbison e Joe Melson. Eseguita da Rebekah Del Rio. Traduzione spagnola di Thania Sanz.
    • Pretty 50s
      Scritto da David Lynch e John Neff. Interpretato da David Lynch e John Neff, dall’album Blue Bob.
    • Go Get Some
      Scritto da David Lynch e John Neff. Interpretato da David Lynch e John Neff, dall’album Blue Bob.
    • Diane e Camilla
      Composte da Angelo Badalamenti. Eseguita da Angelo Badalamenti con la Filarmonica della Città di Praga.
    • Dinner Party Pool Music
      Composta ed eseguita da Angelo Badalamenti.
    • Mountains Falling
      Scritto da David Lynch e John Neff. Interpretato da David Lynch e John Neff, dall’album Blue Bob.
    • Mulholland Drive/Love Theme
      Composto da Angelo Badalamenti. Eseguita da Angelo Badalamenti con la Filarmonica della Città di Praga.

    Sixteen Reasons di Connie Stevens è presente nel film, ma non inclusa nella soundtrack a causa di problemi relativi ai diritti.

  • Uscire da X non è la soluzione

    Uno strano gioco. L’unica mossa vincente è non partecipare.

    Nel film WarGames di John Badham ricorderete la sequenza in cui, dopo aver fermato l’intelligenza artificiale del supercomputer WOPR dallo scatenare una guerra nucleare, il terminale del computer mostra la scritta “A STRANGE GAME. THE ONLY WINNING MOVE IS NOT TO PLAY“.

    WOPR era un acronimo per War Operation Plan Response, un dispositivo in grado di simulare scenari di guerra nucleare. Una visione delle nuove tecnologie inquietante e – come va di moda scrivere in questi casi – profetica di ciò che viviamo in questi anni. Nello stesso film, del resto, il personaggio di David – l’hacker protagonista – aveva attivato il programma “Guerra globale termonucleare” accedendo ad un terminale di comando remoto, dal computer di casa, ritenendo si trattasse di un banale videogame. L’IA reagisce alla circostanza alzando i propri livelli di sicurezza, mentre si addestra con un numero sempre maggiore di dati e di potenziali casistiche belliche, senza fare differenza tra realtà (uno scenario di guerra effettivo) e simulazione (una battaglia simulata allo scopo di fornire informazioni ai militari).

    La morale del film è nota, e vale la pena ribadirla: l’abuso tecnologico porta sempre alla rovina, ed esistono “giochi” a cui è opportuno non giocare: l’unica mossa vincente, a quel punto, è quella di non parteciparvi affatto. Un social network come X si addestra con i nostri dati personali e le nostre storie, non è interessato a fare differenze tra reale e virtuale, possiede un potere di suggestione ben superiore a WOPR e, cosa davvero grottesca, riesce a farlo abbassando il livello di protezione e sicurezza della piattaforma, al posto di alzarlo. Un parallelismo inquietante a cui, complici le esternazioni sempre più politicizzate e radicali di Musk, molti utenti hanno risposto fermando il proprio account, sospendendolo o cancellandolo del tutto.

    Chiaro, bisogna saper dire di no. Lo facciamo ogni giorno, a pensarci, ed è una strategia di sopravvivenza nota: ci tiriamo indietro da relazioni che riteniamo poco adatte, anche se sembravano invitanti all’inizio. Cambiamo idea su una proposta di lavoro perchè precaria o mal pagata. Diciamo no a certe uscite tra amici perchè stanchi, stressati, poco focalizzati su noi stessi, poco a nostro agio – e per quanto la compagnia possa essere teoricamente desiderabile. Dire “no” è un valore aggiunto e sottovalutato, in genere. Ma il punto da cogliere è che in molti casi una discreta parte di chi sta abbandonando X è un organo di informazione, il che rischia di creare una situazione autoritaria o distopica in cui la totalità degli stessi sarà presente perchè a favore di Musk (pro-Trump / repubblicano, per estensione).

    In certi giochi, nessuna mossa è quella vincente e lo sappiamo. E sui social come X, del resto, dovrebbe valere a maggior ragione: ci relazioniamo con una maggioranza di utenti che non vediamo mai dal vivo e, plausibilmente, non vedremo mai. Bisogna saper usare i social, e non darne per scontato l’uso. Abbiamo spesso a che fare con contatti sregolati, eufemismo per dire troll, in molti casi. Rispondiamo in modo incerto o perplesso a messaggi privati inattesi, invasivi e via dicendo. Leggiamo post inconcepibili o eccessivi perchè non possiamo accettarne la presenza e la convivenza. Sono in tanti a non aver accettato le regole del gioco di X, in effetti, e in tantissimi stanno progressivamente andando via dalla piattaforma (tra gli ultimi, Internazionale). Tanto per essere chiari, proverei a spiegare per esteso perchè – da utente tutt’altro che a favore di Trump –  trovi l’abbandono in massa una mossa generalmente poco efficace alla causa, al netto di motivazioni personali di altro tipo.

    Manifesto del non-abbandono

    Alla base del tasso di abbandono di X c’è una linea di gestione della piattaforma che viene considerata troppo libertaria, al punto di minare le basi della democrazia, della reciproca convivenza e, in alcuni casi, sminuendo la portata di potenziali reati come hate speech, razzismo, cyberbullismo, apologia del fascismo e via dicendo. Fermo restando ovviamente che non tutti devono stare sui social e che qualcuno potrebbe semplicemente decidere di starne alla larga, ecco le principali motivazioni per cui trovo mediamente fuorviante uscire dalla piattaforma “per protesta”.

    La protesta, a ben vedere, va fatta dall’interno, per il semplice fatto che è impossibile cambiare qualcosa da cui prendiamo le distanze.

    Le regole possono cambiare

    Anche se ad oggi (gennaio 2025) sembra improbabile un cambio di direzione nella gestione di X (che equivarrebbe ad un cambio di proprietario, da quello che capiamo), le cose potrebbero comunque cambiare nel medio-lungo periodo. Vedremo.

    Soprattutto se persisteranno le polemiche sull’utilizzo, sulla ridotta usabilità della piattaforma, sul timore e sul disagio che provano molti utenti e sul fatto che gli inserzionisti potrebbero ritirare i finanziamenti se gli utenti non sono abbastanza vari per loro. Estremizzando, se tutti coloro che provano disagio andranno via da X, rimarranno primariamente troll a sguazzare liberamente tra loro, o saranno comunque una netta maggioranza rispetto agli utenti ordinari. E questo, naturalmente, realizza in modo preciso e macabro il “piano” iniziale voluto dal suo fautore. Chi esce per protesta, in altri termini, rischia semplicemente di spianare la strada alla normalizzazione dei contenuti violenti per cui è andato via. Come suggerisce Scully a Murder nel film di X-Files, “se me ne vado, vincono loro“. Senza contare che i troll, per loro stessa natura, sono spesso difficili da monetizzare per gli inserzionisti. E se perdi appeal commerciale, la piattaforma decade.

    Non sei tu a stabilire colpe e meriti

    Per quanto le piattaforme social siano ammantate di “democrazia” a corrente alternata (leggasi: solo quando conviene), in genere sono spazi privati, assimilabili più a centri commerciali che a piazze pubbliche. Nonostante parecchi analisi suggeriscano il contrario ed assimilino piattaforme come X a luoghi pubblici, l’ingresso in questo luogo pubblico richiede un’iscrizione, per quanto innocua possa sembrare – e per quanto si sia banalizzata l’idea di fornire i nostri dati per farlo. Quanti di noi entrerebbero serenamente in una piazza in cui non solo ti chiedono un documento all’ingresso, ma registrano almeno una parte dei nostri dati su un dispositivo non in nostro possesso? Sui social, dopati da campagne di marketing sempre più radicali e prive di scrupoli, il problema neanche ce lo poniamo. Men che meno su X dove, di fatto, aleggia una singolare e burrascosa idea di “libertà” dettata, più che altro, da egotismo e isteria di massa.

    Sembrerebbe forse l’unico punto in favore della disiscrizione di massa, in effetti, e presenta un suo fascino oggettivo: il problema pero’ è che in questo caso bisognerebbe cancellarsi da qualsiasi piattaforma social. Senza voler difendere Musk in modo acritico, per intenderci, è quantomeno curioso come le figure di Zuckerberg o di Bezos (da tempo nell’occhio del ciclone per il loro avvicinamento alle politiche repubblicane di Trump, e tutt’altro che neutri politicamente) siano poco considerate dai media e dall’opinione pubblica, e difficilmente si metta in discussione l’opportunità etica di far parte dei loro mondi. Se il criterio per cui ci togliamo da X vale per Musk, uno dovrebbe valutare seriamente di cancellare il proprio account Facebook e, a quel punto, anche quello Amazon. Chi lo farebbe?

    Cosa che farebbero in pochi, dato che i social network e gli ecommerce sono quasi un genere di prima necessità, e creano pure un effetto di attaccamento per cui, per semplificare, non ci cancelliamo per non perdere i contatti a cui magari, nel frattempo, siamo pure affezionati. Anche qui, sembra valere il mantra “if I quit, they win“: nessuno ci obbliga ad interagire con tutti, nessuno ci vieta di cercare altri spazi più flessibili.

    La cosa essenziale è essere consapevoli che esiste il diritto di cancellare l’account, inalienabile, ma al tempo stesso è poco credibile come mezzo di protesta limitarsi a dire “non gioco più”. La vera protesta si fa dall’interno, come gli hacker della prima ora hanno sempre suggerito: trovando falle nel sistema, evidenziandole, mettendole a nudo nella loro debolezza o viltà. Sarà anche utopia e sì, certmente non tutti hanno gli strumenti per farlo, ma quegli hacker spesso diventati famosi non studiavano neanche nelle università e si limitavano ad aguzzare l’ingegno.

    Del resto se queste figure mitologiche si fossero limitate a barricarsi dientro Linux e cancellare Windows e Mac OS dai loro PC, oggi non saremmo a conoscenza di molte delle falle informatiche che affliggono i sistemi Microsoft e Apple.

    I social non usano dati esatti

    Per quanto i sistemi informatici dispongano di molti dati – e per quanto la precisione possa essere elevata (anche solo per il gran numero di fonti da cui generalmente attingono), i dati non sono mai perfetti: approssimano, rendono l’idea in modo parziale, non per forza rappresentano ciò che dovrebbero. Questi errori sono subdoli e difficili / impossibili da rilevare, anche in casi banali: per intenderci, una persona potrebbe aver caricato nel proprio profilo una foto non recente, e potrebbe non essere realmente la “versione” di sè che racconta nel proprio storytelling digitale.

    Del resto non siamo obbligati a dire la verità sui social, anche se tendiamo a dare per scontato che sia proprio il contrario e che tutti attorno a noi lo facciano. Questo vale a maggior ragione dopo l’esplosione creativa di content creator e guru di vario genere, che propongono contenuti commerciali dietro una maschera di “spontaneità” che è solo marketing, alla fine. Troviamo sempre più spesso prodotti miracolosi, servizi presunti innovativi, truffe di ogni genere, donne e uomini che sembrano perennemente carichi di sensualità o infinitamente disponibili. Sono falsi d’autore che collimano solo parzialmente con la realtà, che sembrano bastarci al punto di sostituirsi alla realtà, sulla falsariga di Baudrillard e della società dello spettacolo di Guy Debord. Internet non esprime la totalità del mondo: uno studio del 2024 afferma al contrario che gli LLM come ChatGPT e Gemini sono malamente addestrati su internet, e per questo tendono a replicare passivamente il punto di vista del “popolo del web” – populista, egemonico e non per forza maggioritario come potrebbe sembrare.

    Abbandonare X perchè promuove contenuti falsi significa dimenticare questo aspetto, oltre a rischiare – alla lunga – di arrendersi alla falsa evidenza che i social siano la realtà, al posto di esserne una rappresentazione camuffata, ipocrita, grottesca e/o fuorviante. O magari una vera rivoluzione si potrà un giorno fare offline?

    Non esiste il “paradiso perduto”

    La migrazione in massa su BluSky di qualche mese fa è stata sostanziale, e (per inciso) anch’io vi ho partecipato (senza pero’ uscire da X, per i motivi che discuto qui). Ritenevo giusto stare su due piattaforme simili, anche in considerazione del fatto che molti contatti erano passati lì, e mi interessava continuare a seguirli. Questo porta a fare una considerazione ulteriore: abbandonare una piattaforma sgradita può portare a pensare che andare su un’altra sia salvifico o “balsamico” di per sè. Autori come Cory Doctorow raccontano da tempo per quale motivo non esiste la “piattaforma perfetta” mediante la teoria della enshittification: una catena di decisioni che porta ogni piattaforma social (quindi non solo X) dal sembrare un paradiso sulla terra, fino a un’overdose di contenuti commerciali e ad tossiche, tipicamente per finanziare la piattaforma in perdita finchè, dopo mille tribolazioni, finisce per collassare / perdere interesse.

    Di fatto Musk sembra puntare a rendere X sempre più simile alla board 4chan, una board di utenti anonimi di grande successo, simile a Reddit – ma incentrata per larga parte su contenuti controversi, assenza totale di moderazione e contenuti con un tempo di vita mediamente breve. Finora, tutto sommato, ha funzionato, e gli abbandoni in massa rischiano ancora una volta di renderla esattamente ciò che il suo proprietario vorrebbe: un covo di troll sregolato e piatto, conformista e tragicamente (per loro) autoriferito.

    Come se non bastasse, la scelta di mille piattaforme su cui distribuire gli utenti evoca sempre più la frammentazione del sociale, con miriadi di micro-board, distanziate e difficilmente interfacciabili tra loro, in cui ci saranno sempre più predicatori e sempre meno pensiero razionale e critico.

    A meno che, ovviamente, non si segua il mantra “if I quit, they win“.

    Non sei obbligato a leggere tutto

    Questo è un punto che X non promuove abbastanza, a mio avviso.

    Il fiume di contenuti che arrivano nelle nostre app è tale da mandarci in confusione, ma gli strumenti per evitarlo ci sono: basta cliccare sui tre puntini in alto al post che non ci interessa, e selezionare (neanche a dirlo!) “il post non mi interessa” – alla peggio si può ancora bloccare l’utente sgradito, oppure segnalarlo. Precisiamo: la segnalazione dell’era Musk di X è, per usare un eufemismo, quasi inutile: di circa una ventina segnalazioni che ho fatto, per capirci, solo una o due si sono concluse con il ban dell’utente. In fondo se scorgi qualcosa che ti scandalizza significa che vivi, in fondo, in una società libera.

    Le leggi devono essere violate dalla società per progredire

    Secondo il terzo punto del “manifesto” di Rickard Falkvinge – fondatore del Partito Pirata svedese – sulla società della sorveglianza c’è un aspetto importante da considerare: violare le regole, per quanto suoni sovversivo o criminale, è stato spesso necessario, nella storia, per far progredire la società. È capitato per le leggi dell’apartheid, con le discriminazioni di alcune minoranze e con molte leggi palesemente ingiuste che il progresso ha superato e sconfitto, anche a costo di pagarlo con il carcere o la morte dei suoi promotori.

    Di contro, un social che faccia rispettare ogni regola è, come abbiamo già visto, irrealizzabile.

    Al contrario, uno che non abbia alcuna regola sembra altrettanto utopistico, perchè alla lunga diventa ingestibile e perchè finirebbe per scaricare la colpa sui singoli utenti, al posto di assumersi responsabilità per eventuali mancanze (oltre che essere difficile da monetizzare e poco credibile agli occhi degli investitori).

    Scrive Falkvinge:

    Il progresso sociale impone la necessità assoluta di infrangere le leggi ingiuste, per mettere in discussione i propri valori, al fine di imparare dagli errori e andare avanti.

    Tutto sta nel far apprendere gli errori “giusti” e non quelli errati alla piattaforma, notificandoli e sottolineandoli a dovere. Se al contrario nessuno segnala più che razzismo, cyberbullismo e fascismo sono errori che il sistema non dovrebbe accettare, saranno normalizzati, con conseguenze non prevedibili nel mondo reale.

    Tanto vale, quindi, porsi la domanda in modo diverso: cosa posso fare di utile?

  • Guida pratica alla società senza memoria

    Immagina un mondo in cui il passato evapora, un mondo in cui ogni mattina è una pagina bianca e la memoria una reliquia inutile, vivi il presente come un sussurro costante, non c’è storia, non c’è identità, solo flussi infiniti di dati che si cancellano, costruire una società senza radici non è un paradosso, è un metodo, e questa guida è la mappa per camminare in un tempo che non lascia tracce, sei pronto a dimenticare per davvero?

    “Guida pratica alla società senza memoria” potrebbe essere un titolo evocativo per affrontare il tema del progressivo declino della memoria collettiva nella società contemporanea. Potremmo strutturare questa guida per analizzare le cause, gli effetti e le possibili strategie per contrastare tale tendenza.

    Ecco una possibile traccia:


    Guida Pratica alla Società Senza Memoria

    1. Introduzione

    • Cos’è una società senza memoria?
      • Definizione e implicazioni.
      • Il ruolo della memoria collettiva nella costruzione dell’identità culturale.
    • Perché questo tema è importante oggi?
      • Velocità dell’informazione e cultura dell’oblio.

    2. Le Cause del Declino della Memoria

    • La tecnologia e l’oblio digitale
      • Dominio dei social media e frammentazione dell’attenzione.
      • L’archiviazione infinita come paradosso: troppi dati, poca memoria.
    • La perdita delle tradizioni
      • Globalizzazione e omogeneizzazione culturale.
      • Diminuzione della trasmissione orale e delle pratiche rituali.
    • Educazione e memoria storica
      • Programmi scolastici impoveriti.
      • Focus su competenze tecniche a scapito della formazione umanistica.

    3. Le Conseguenze della Dimenticanza Collettiva

    • Crisi identitaria
      • Smarrimento delle radici culturali e storiche.
      • Difficoltà a riconoscere errori passati per evitarli in futuro.
    • Manipolazione e disinformazione
      • La vulnerabilità a fake news e revisionismo storico.
    • Disinteresse per il futuro
      • Mancanza di una visione a lungo termine.

    4. Strategie per Ricostruire la Memoria Collettiva

    • Promuovere la consapevolezza storica
      • Valorizzare le celebrazioni e le commemorazioni.
      • Investire nella ricerca storica e nella divulgazione.
    • Innovare il sistema educativo
      • Includere l’educazione storica e culturale in modo trasversale.
      • Utilizzare la tecnologia come strumento di memoria, non di oblio.
    • Coinvolgere la comunità
      • Progetti locali di raccolta e condivisione delle memorie (archivi di quartiere, podcast, documentari).
      • Incentivare il dialogo intergenerazionale.

    5. Conclusione

    • La memoria come bussola
      • L’importanza di un equilibrio tra passato e presente.
      • La memoria non è solo un bagaglio, ma uno strumento per costruire un futuro più consapevole.

    Ti piacerebbe che sviluppassimo insieme uno dei punti di questa guida o che arricchissimo il contenuto con esempi pratici e consigli concreti?

     

  • Essere sapiosessuale

    Una volta un amico mi ha confidato di “essere sapiosessuale” – di sentirsi attratto da partner con cui possiede interessi in comune in termini culturali. Il sapiosessuale è infatti attratto dal cervello dell’altra persona, al punto di sognare di farlo proprio, di farselo, di renderlo organo sessuale.

    Il concetto mi sembrava affascinante e, qualche mese dopo, mi è capitato di metterlo alla prova: per mesi ho frequentato assiduamente una collega con cui vado molto d’accordo e c’è tuttora intesa mentale considerevole. Ogni aspetto del reale era motivo di confronto, diventava la scusa per parlare di libri, di film, di musica; per raccontare di noi, aprirci l’un l’altro. E poi condividere conoscenza, raccontarci storie, essere trasparenti, sinceri l’uno con l’altra, infarcite di autori che avevamo letto e cose che avevamo studiato. Sembrava il preludio di una delle più belle storie sapiosessuali mai raccontate, ma non è andata come si sperava: la persona in questione si è rivelata più attratta dai miei ragionamenti che da me, e il suo interesse era sinceramente lavorativo e non sentimentale o sessuale. L’altra persona che parlava di sapiosessualità, del resto, non ha mai esibito troppa cultura con la propria compagna, anzi ha sempre insistito su un registro colloquiale anche piuttosto banale, stantìo, nulla di elaborato. Mi venne il dubbio, a quel punto, che la sapiosessualità di fatto non esista, o al limite che si tratti di un modo per abbellire la propria narrazione emotiva (nulla di male nel farlo, intendiamoci).

    Di per sè, se andiamo ad indagare, la sapiosessualità sembra un neologismo senza alcun fondamento scientifico, al contrario di altri fenomeni come la demisessualità che sono attualmente allo studio. Può anche darsi che in futuro vengano fatti studi approfonditi anche sulla sapiosessualità e si possa saperne di più, ma ad oggi è bene sapere che il termine “sapiosexualcompare sul web sul finire degli anni Novanta, sul blog dell’utente con nickname wolfieboy. L’autore si considerava “entusiasta della sapiosessualità“, e del fatto “che parecchie persone stiano annoverando la sapiosessualità come interesse“. Nel blog, l’autore si attribuisce di aver “inventato” questato parola nel 1998, a seguito di una discussione con una blogger (nickname Jadine), con cui – in era pre-social / web 1.0 – era solito comunicare e scambiarsi idee.

    La sapiosessualità veniva definita da wolfieboy come un qualcosa di diagonale rispetto al sesso biologico, dato che (scrive l’autore)

    Non mi interessa molto “l’impianto idraulico”

    nel senso che non gli interessava il sesso del partner, probabilmente. L’autore specifica poco dopo la propria lista della spesa in fatto d’amore:

    Vorrei una mente incisiva, curiosa, perspicace e irriverente. Qualcuno per cui la discussione filosofica sia un preliminare. Qualcuno che a volte mi faccia venire il voltastomaco per la sua arguzia e il suo senso dell’umorismo maligno. Qualcuno che possa raggiungere e toccare dove capita. Qualcuno con cui potermi fare le coccole.

    Ho deciso che tutto ciò significa che sono sapiosessuale, conclude in modo lapidario.

    Se ammettiamo che questa dichiarazione possa essere una sorta di “manifesto” della sapiosessualità (termine popolarizzato ulteriormente, per inciso, dalla scrittrice erotica Kayar Silkenvoice), bisognerebbe premettere che quella wishlist interminabile di desiderata per un partner sia probabilmente irrealistica. Questo anche solo per il fatto che si basa su una lista della spesa discorsiva, poco applicabile alla realtà, e perchè – da che mondo è mondo, diremmo – ognuno trova i partner che trova, senza programmi, senza scadenze e soprattutto se li trova. Questo ci riconduce a pensare il problema della sapiosessualità in termini cognitivi, perchè sembrerebbe plausibile che si tratti di un paravento, un bias cognitivo che ci risparmia di fare i conti con la realtà e la sua irriducibilità ad una formula matematica. Molto più semplice pensare, per intenderci, che sono un/una nerd incallita e voglio un/una nerd incallita come me.

    Viene altresì il sospetto che la sapiosessualità possa essere un costrutto sociale, dai tratti molto semplicistici nel suo concepimento, in netta opposizione alle caratteristiche sfuggenti della realtà in cui viviamo. Una realtà in cui – lo sappiamo bene – è complicato trovare un partner adeguato, soprattutto (ma non solo) in pianta stabile e se le nostre esigenze cozzano con le tendenze maggioritarie della società. Molti trovano subito in modo spontaneo nonostante varie disregolazioni emotive e caratteriali, altri lavorano su se stessi per anni senza trovare nulla. Questo aspetto è fonte di sofferenza per tanti, e spiega il discreto successo di cose come i corsi di seduzione online che, il più delle volte, si prefigurano come saggi incel riduzionisti per maschi bianchi etero. Sono dotati di dialettica argomentativa accattivante quanto semplificata, che sia in grado di catturare la mente delusa del single, ma non rendono (ed è questo il loro limite sostanziale) l’idea della soggettività dell’incontro, dell’irripetibilità della circostanza, della risonanza del contatto fisico e forse neanche della possibilità che possano esistere molte forme di amore, tra cui quelle non necessariamente sessuali. Non è poco, ed è sempre meglio di nulla per chi non trova davvero nient’altro. Viene insomma il dubbio che dire “sapiosessuale” sia un travestimento emotivo per suggerire alle persone che “mi considero degno e voglio una persona degna come me“. Vale la pena seguire la falsariga dell’anti-semplicismo e provare a capire meglio dove ci porta, a questo punto.

    Nel saggio “Abitare la complessità” Mauro Ceruti e Francesco Bellusci evidenziano come sia cresciuta, negli ultimi anni, la diffidenza generale nei confronti della complessità del reale, in favore di una tendenza a trovare una logica forzosa in ogni cosa. Al netto dei complottismi che giustificano sempre qualsiasi cosa, si finisce spesso per applicare criteri brutalmente cartesiani ad un mondo che, di suo, rifiuta questa categorizzazione, perchè è troppo sfuggente e complesso perchè si possa esprimere in termini deterministici. Gli autori si spingono a scrivere, in merito, che

    il semplice non esiste, ovvero è sempre il semplificato

    nel senso che qualsiasi schema mentale applichiamo alla realtà rivela null’altro che la nostra utilità, ciò che a noi serve, o anche la nostra ansia nell’accettare o meno quella benedetta complessità. Complessità che, a sua volta, non vuole essere sinonimo di complicanza, bensì rilancia la propria effettività in favore di scelte operate, in risposta alla giungla del reale, in maniera più flessibile, dalle conseguenze imprevedibili e non per forza funzionali ad una narrazione preconcetta.

    “La prima regola del club di Dunning–Kruger è che non sai di farne parte” (D. Dunning).

    Al tempo stesso, gli studi di David Dunning e Justin Kruger avevano analizzato ad inizio anni Novanta un campione di studenti universitari che sostenevano un esame, osservando un singolare fenomeno: la performance media effettiva, a confronto di quella auto-percepita, tendeva a presentare un divario sostanziale. Più nello specifico, sembrava che i meno studiosi tendessero a sopravvalutarsi e, al contrario, quelli con voti più alti a sottovalutare le proprie capacità.

    Un fenomeno dai tratti grotteschi che i due autori citano nel proprio articolo “Non qualificati e inconsapevoli: come le difficoltà nel riconoscere la propria incompetenza portano a autovalutazioni esagerate“, diventato un vero classico del pensiero razionale, dello studio dei bias cognitivi e del debunking in genere. Chi riferisce la sapiosessualità come una caratteristica di se stesso e del proprio potenziale partner (o meglio, del proprio io ideale e della proiezione idealizzata del futuro partner) potrebbe essere parte del club di cui nessuno è consapevole di essere, quello di Dunning e Kruger: potrebbe insomma considerarsi più intelligente di quanto non sia, e sovrastimare le doti del (o della) partner.

  • La questione di genere dentro Nosferatu di Robert Eggers

    Per l’osservatorio EIGE qualsiasi questione di genere può essere definita come qualsiasi questione o tematica determinata da differenze basate sul genere e/o sul sesso tra donne e uomini. Non è atipico che questa tematica venga riprodotta all’interno del recente horror di Eggers, diventando oggetto di una vera e propria sottonarrazione rispetto alla trama principale. Da sempre – e un po’ meccanicamente – si considera Thomas Hutter, agente immobiliare inviato nel castello del conte Orlok per fargli firmare un contratto, il vero protagonista della storia in sè. In realtà nella versione di Eggers è anche Ellen a relegarsi un ruolo di protagonista duale, rispetto alle vicende sanguinose che vengono richiamate nella trama e per l’aspetto legato proprio al sangue: del resto il sangue è vita, e sarà mia, viene ripetuto da McBurney (il capo di Thomas) più volte. (attenzione: il saggio contiene spoiler della trama)

    Inizialmente vediamo la città di Wisborg, in Germania, con Ellen che sembrerebbe vivere felicemente assieme al marito Thomas Hutter. La relazione tra i due viene delineata come profonda, toccante e romantica, ma suggerisce anche implicitamente che non sia una relazione fisica: i due coniugi sembrano non avere tempo e/o modo di avvicinare troppo i loro corpi, vuoi per il lavoro frenetico di Thomas (che arriverà in ritardo dopo essersi trattenuto in effusioni con la moglie), vuoi per una relazione di stampo tradizionalista improntata sull’inibizione reciproca, vuoi perchè (dice apertamente Thomas, ad un certo punto) non potrebbero mantenere un eventuale figlio, cosa che invece possono tranquillamente la coppia benestante di amici (che ne hanno anche un terzo in arrivo). Ellen appare intrappolata in questa visione angusta della relazione e della sessualità, e infatti la vive in maniera controversa: la prospettiva che Thomas vada via per un lungo viaggio la turba, riferisce terribili incubi (uno davvero spaventoso: sogna di sposare la Morte in persona, di voltare le spalle all’altare e constatare che tutti gli invitati sono deceduti all’improvviso), ma viene costantemente minimizzata e quasi ostracizzata nel manifestare il malessere interiore. È il tema legato ad ogni questione di genere: la donna come eterna Cassandra, condannata a non essere creduta nelle proprie affermazioni, che il pubblico sa avere un fondamento. In un momento storico in cui la psicologia e la psichiatria erano ancora ai primi passi, di fatto, non meraviglia che Ellen dopo alcune crisi di sonnambulismo venga semplicemente legata al letto, e solo l’atteggiamento progressista di Von Franz (che evoca grottescamente conoscenze occultistiche nel farlo) la libera da questo gioco.

    Vale la pena di osservare che Ellen ad un certo punto avrà una discussione con il ricco amico del marito, accusando l’uomo di essere responsabile del contagio della peste nei confronti della moglie di lui: l’uomo si limita a richiamare la donna all’ordine, e a restare al suo posto. Ellen non sembra disposta a farlo e, a quel punto, finirà per inseguire il proprio destino che è quello di redimere l’umanità con il suo sacrificio. Nel frattempo Thomas proverà gelosia per le intenzioni del Conte Orlok e si precipiterà a casa, una volta evaso disperatamente dal castello, per evitare di farli incontrare. Tuttavia la connessione tra Ellen e il villain della storia è soprattutto mentale, prima ancora che fisica, al punto che Ellen anela inconsciamente ricongiungersi al conte – con cui, si scoprirà in seguito, ha avuto una storia da giovane. Questa rivelazione cambia radicalmente il rapporto tra i due, facendolo diventare apertamente conflittuale ed instillando il sesso nella relazione nel modo più diretto: in una sequenza che non sappiamo essere o meno condizionata dall’influsso a distanza del conte, Ellen viene posseduta con brutalità dal marito (in modo traumatico per lo spettatore, che non si aspetta un’evoluzione del genere), in funzione della gelosia che prova e della “minaccia” che possa avere un rapporto con il conte. Il vampiro portatore di peste arriva, finalmente, a casa di Ellen, assicurandosi che il patto firmato subdolamente dal marito di lei venga rispettato: la terza notte la donna accetta, ma ha già concordato il proprio sacrificio con Von Franz, l’unico a conoscere le sue intenzioni. Così mentre Von Franz, Sievers e Thomas trovano Knock nella bara del conte e danno fuoco al rifugio del conte per garantire che possa scomparire con la luce del sole, non avendo più dove nascondersi, Ellen si concede al conte più volte, per tutta la notte. Continuerà a ripetere “ancora” e a farsi mordere alle prime luci dell’alba, stremata e morente, consapevole di aver salvato il mondo con la sua prima (e autentica) libera scelta.

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