Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Recensione di “The substance” senza spoiler, per chi non l’avesse ancora visto

    Recensione di “The substance” senza spoiler, per chi non l’avesse ancora visto

    In pochissime parole The substance è un film sul tema del doppio, ben oltre i canoni del sottogenere e ricco di cinematografia horror classica come non se ne vedeva da tempo. Un lavoro complesso, stratificato su almeno due direttive (la società dello spettacolo e la questione femminile) e che fa ampio uso dei canoni cinematografici tipici dei classici dell’horror anni Ottanta. Un tema, quello del doppio, da sempre al centro di cinematografia e letteratura mondiale, declinato come espressione della crisi di un personaggio in senso universale, sociologico: “il” conflitto per eccellenza. Un sottogenere di film, quelli incentrati sul doppio (Doppelganger) che suggerisce, da che mondo è mondo, miriadi di metafore sociali, psicologiche ed esistenziali. Il punto è che una discreta parte di queste pellicole si limitano a esibire l’aspetto scenografico limitando l’apparato simbolico, o al limite fanno l’esatto opposto con risultati comprensibili a pochi. The substance trova un equilibrio anche in questo, e tanto basta.

    Film del 2024 della regista Coralie Fargeat, al suo secondo lungometraggio dopo Revenge, rientra nello spinoso novero degli horror sociologici, e presenta un body horror (l’horror incentrato sulla genetica del corpo e sulle sue degenerazioni), sulla falsariga di come l’avrebbe concepito David Cronenberg in quel gioiello noto come Inseparabili (la storia, per chi non lo ricordasse, di due gemelli chirurghi che si scambiano e confondono i rispettivi ruoli). Ma si dirige con maestria, essenzialità e gusto del macabro strizzando l’occhio a uno degli horror sociali più famosi di ogni tempo: Society di Brian Yuzna, un mini trattato sociologico, anche stavolta in chiave grottesca, del mondo ipocrita delle apparenze e dei VIP. C’è realmente tutto, dentro The substance, senza neanche l’esigenza di esibire autoindulgenza, richiamarsi ad una pompa magna cinefila fine a se stessa, senza autocelebrazione, senza pretenziosità, senza l’ossessione del riferimento culturale da nerd che finirebbe per dare più fastidio che altro. Al netto degli eccessi di un finale esageratamente gore (e forse un po’ troppo lungo, che abbiamo deciso di non rivelare per non togliervi il gusto di scoprirlo da soli)  The substance non lascerà il pubblico indifferente, specie se paragonato al precedente lungometraggio della Fargeat quasi sulle stesse tematiche che, a dirla tutta, aveva convinto solo in parte. E le tematiche sono e rimangono di genere, naturalmente: patriarcato, questione femminile, parità di diritti, tutti declinati in chiave splatter.

    Non a caso Peter Bradshaw ha scritto sul The guardian che Roger Corman avrebbe certamente amato The substance, dato che è un’opera imbevuta di riferimenti smart ai classici del genere: Society, La cosa di John Carpenter – e potremmo spingerci addirittura fino a Elephant Man di David Lynch. The substance è probabilmente uno dei migliori esempi di horror splatter moderno per il quale la metafora è tanto ben costruita da evocare uno studio scientifico di genere, e per cui i dettagli fanno la differenza (anche quelli più apparentemente insignificanti: su tutti il fatto che i produttori televisivi siano rappresentati sempre e solo come maschi di età avanzata). Non a caso, il film si apre con l’immagine di un uovo nel cui tuorlo viene iniettato quello che si scoprirà essere un siero per ringiovanire le persone, il quale produce la scissione del tuorlo in un doppio identico per partogenesi (anche qui, non a caso, un processo di fecondazione senza spermatozoi).

    La società delle apparenze di THE SUBSTANCE non è solo e semplicemente bigotta e conformista: è imbevuta di cultura patriarcale, di un mansplaining irritante e superbo, di aspettative sociali irrealizzabili quanto ambite, intollerabili per qualsiasi donna che, di sicuro, mai potrà mantenersi “giovane & bella” come vorrebbe (o meglio, come il mondo maschile si aspetta). Il mito dell’eterna giovinezza evocate sulle prime, pertanto, diventa un pretesto per costruire un horror femminista, sulla falsariga di Revenge della stessa regista e con maggiore consapevolezza di stile, mezzi e modi, più centrati in questo caso sull’horror puro che sulla exploitation. Con le idee più chiare sul messaggio da recapitare al pubblico, con l’idea che il cinema possa ancora, contrariamente all’aspetto meramente speculativo amato dalla maggioranza dei cinefili, essere espressione di critica sociale in senso praticamente marxista. Woke, diranno i detrattori!

    Del resto The substance è anche un corposo splatter incentrato sulle mostruosità della società dello spettacolo, lo stesso spettacolo che secondo Guy Debord consiste in “un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini“. Non bisogna, in altri termini, limitarsi a vedere l’aspetto esteriore delle immagini patinate delle atlete di aerobica perfette quanto sessualmente allusive, ma bisognerebbe considerarle frutto di un contratto, di una burocrazia televisiva che pretende di conoscere e modellare i gusti del pubblico (qualsiasi cosa si voglia intendere con esso), in uno scenario di un mondo maschile tendenzialmente gretto quanto ambivalente – qui rappresentato come volgare e irrispettoso verso le donne più avanti con l’età quanto servile e disponibile, grottescamente, nei confronti delle giovani.

    The substance, col suo incendere inesorabile ed essenziale (e la sua forma prima da thriller, poi da body horror, infine da splatter puro con tanto di litri di sangue che sgorgheranno da ogni dove), racconta una storia ambientata ai giorni nostri che (probabilmente non a caso) strizza l’occhio agli anni Ottanta (come fa anche Maxxxine, ad esempio). Serve a creare un riferimento culturale ben riconoscibile ma, a ben vedere, se esistono le penne USB non possono essere gli anni Ottanta. Perchè forse non è quello il punto: e allora diciamo sì all’immaginario iconico da fitness televisivo (inteso non in termini salutisti, ma puramente estetici), e rappresentiamo un mondo in cui la chirurgia estetica si potrà fare anche in casa. Il fai-da-te che osanna l’individualismo sfrenato del mondo in cui viviamo, per cui non esistono che post verità ed ognuno, letteralmente, si fabbrica in casa la propria, arrivando a rimodellarsi il corpo in autonomia. Al tempo stesso, il rapporto sociale in gioco è tra la donna e la società di oggi, ovviamente patriarcale, una donna ridotta a blanda fisicità, a forme sempre perfette, invidiabili, prive di imperfezioni; una donna pressata ossessivamente ad essere bella quanto passiva, sempre sorridente, presente agli eventi, socialmente impeccabile, sessualmente attiva.

    Elisabeth (Demi Moore) conduce un programma televisivo sul fitness per cui tutto sembra andare per il meglio, dato che il pubblico la segue con interesse e lo show gode di grande successo. Dopo aver finito le riprese di una puntata, proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, sente casualmente il suo produttore fare considerazioni sulla necessità di sostituirla con una showgirl più giovane. La circostanza la manda in crisi esistenziale: poco dopo fa un incidente d’auto, da cui esce miracolosamente illesa. È a questo punto che un ambiguo infermiere le consegna una chiavetta USB con su scritto THE SUBSTANCE – il film sarà periodicamente intervallato da queste scritte emblematiche, tutte in maiuscolo, che sembrano assolvere una funzione analoga a quella dei cartelli portati in scena dal teatro brechtiano.

    La chiavetta contiene la pubblicità di una misteriosa azienda che si occupa di chirurgia estetica “fai da te”, in grado di fornire un kit per far ringiovanire chiunque volesse farlo. Da questo acquisto Elisabeth sarà effettivamente rigenerata e potrà proporsi al suo stesso programma in veste di Sue (Margaret Qualley), con l’unico dettaglio che il suo corpo non è stato propriamente sostituito, ma si è scisso in due: i due corpi sono dipendenti tra loro, hanno bisogno di essere alimentati periodicamente e uno potrà trarre giovamento dall’altro, come un parassita. È una situazione puramente cronenberghiana, a ben vedere, tipica del body horror di ogni latitudine, in cui da un lato c’è l’ossessione per l’estetica perfezionista (e la critica sottintesa al fatto che una donna che passa i cinquanta anni debba ricevere un trattamento sociale ben più crudele di quanto avvenga per l’uomo), dall’altro c’è l’ossessione per uno spettacolo artefatto e mortifero, che “deve” andare avanti ad ogni costo. E in ultimo, ma non ultimo come importata: la lotta tra i due corpi giovane / anziano di Elisabeth e Sue non esiste, non è mai esistita e mai potrà esistere, perchè è solo l’ennesimo conflitto interiore di una donna: un’allegoria talmente potente da dare l’impressione di uscire dallo schermo durante la proiezione.

    Sue non sarà pertanto solo l’alter ego giovane, dinamico, bello e propositivo di Elisabeth: ad un certo punto inizierà ad (auto)abusare del suo vecchio corpo, per egoismo ed avidità personale, mentre Elisabeth sarà sempre più sola, affranta e sregolata emotivamente per la scelta compiuta. Con risultati sempre più devastanti, come prevedibile, e con il merito da attribuire alla regia di aver costruito un horror compatto, molto ben girato, privo di fronzoli e che sicuramente farà discutere (farà discutere soprattutto chi percepirà l’opera come un attacco allo status quo, e che finirà per rilevarne difetti inesistenti).

    In definitiva ci sono discrete probabilità che con The substance Coralie Fargeat (classe 1976, che firma regia e sceneggiatura) sia rientrata con questo film nell’olimpo dei cult, dei film che rivedremo anche in futuro nelle retrospettive, affiancandosi a mostri sacri del cinema horror come Cronenberg e Carpenter. Non a caso, forse, tra le prime donne a muoversi (finalmente) in questa direzione.

  • Faster, pussycat! Kill! Kill!: il Russ Meyer che piace a Tarantino

    Il re dell’eccesso del cinema exploitation ci da’ dentro con donne formose e aggressive, auto in corsa e violenza di strada: Tarantino e Rodriguez applaudono e ringraziano.

    Hai uno strano modo di divertirti…

    Il trio protagonista di “Faster pussycat…” è espressione estrema ed archetipica di sessismo, violenza e cinismo. La spietata Varla (Tura Satana, deceduta a febbraio 2011), la frivola Billie (una Lori Williams da capogiro) e la romantica Rosie (Haji) finito il turno di lavoro sono in giro per il deserto con le proprie auto: incrociata una coppia di giovani, Varla sfida il ragazzo ad una corsa automobilistica.

    Dopo aver perso la gara, il giovane ha una collutazione con la sfidante e viene brutalmente ucciso, mentre la sua fidanzata viene sequestrata. Mentre il trio sta ancora escogitando cosa fare della sopravvissuta incrociano un vecchio misogino da cui si fanno ospitare. Nel frattempo la ragazzina cerca più volte di scappare, e familiarizza con il figlio apparentemente ragionevole del burbero padrone di casa.

    “Tu sei per me una ragazza malata! Ricorda che ero abbastanza sana mezz’ora fa, o la pensi diversamente quando non sei in posizione orizzontale?”

    Russ Meyer sa il fatto suo: gira con maestria, caratterizza con cura anche i personaggi secondari ed accompagna il tutto con un costante tocco di ironia. Probabilmente è un’affermazione scontata, ma bisogna dare atto al regista che, probabilmente in modo inconsapevole, ha gettato le basi di Kill Bill, Grindhouse e Machete, tanto per citare tre cult recenti. “Faster, pussycut” è un b-movie ante-litteram, con tutti i limiti del caso.

    Quindi si tratta di un film intrinsecamente valido, con l’importante rivoluzione dettata da tre ragazze come assolute protagoniste dell’intreccio, quindi decisamente avanti per l’epoca in cui è stato girato, in barba a convenzioni e moralismo. Impossibile non notare la grossa pecca del doppiaggio italiano (secondo me non proprio impeccabile): questo fa perdere un po’ dell’efficacia delle battute delle tre protagoniste, e così – ad esempio – alcune allusioni di tipo sessuale diventano spaventosamente inefficaci.

    Nonostante questo, “Faster, pussycat! Kill! Kill!” è un film da godere e riscoprire: godimento puro per gli occhi di chi apprezza le forme femminili, ma anche per lo spirito pioneristico senza compromessi dei suoi personaggi.

  • Manhattan Baby è il terrore lovecraftiano che partiva dall’Egitto

    Susy (Brigitta Boccoli) si trova in Egitto, assieme al padre archeologo ed alla madra giornalista; avvicinata da uno strano personaggio, riceve un ciondolo che si rivela, dopo poco tempo, alquanto pericoloso.

    In breve. Il messaggio di fondo è che certi segreti, come da tradizione lovecraftiana, non andrebbero violati da nessun essere umano. Un horror poco noto del grande terrorista dei generi, con pochi mezzi (effetti speciali molto artigianali) e discreta sostanza: tutto sommato, piuttosto intrigante quanto autenticamente b-movie.

    Ambientazione inizialmente egizia e successivamente – come da titolo – nella famosa città USA al giorni d’oggi: Manhattan Baby di Lucio Fulci, oltre a riprendere l’idea archetipica dell’orrore proveniente da luoghi oscuri ed esotici, si ispira in parte alle idee contenute in due pilastri dell’horror settantiano: “L’Esorcista” di Friedkin ed il “Il Presagio” di Donner. Pur senza la spettacolarizzazione fisica e psicologica di questi due cult movie, l’uso dell’innocente presenza di un ragazzino (in questo caso una ragazzina) come strumento, burattino infido nelle mani del maligno è piuttosto riuscita. Questo nonostante un ritmo rallentato nella metà del film, e degli effetti speciali non esattamente holywoodiani.

    Si tratta di un film che risente ovviamente del periodo in cui è uscito, e che giudicare oggi come datato appare scontato – e in parte secondario – rispetto alle idee sviluppate: il soggetto è affidato a Dardano Sacchetti ed Elisa Briganti, la coppia di artefici di piccoli capolavori di cinema off-limits, quali Zombi 2, Quella villa accanto al cimitero e, naturalmente, la creazione – assieme ad Umberto Lenzi – del personaggio di “Er Monnezza“. Non è un mistero che Sacchetti sia stato enormemente valorizzato da Fulci, e questo si nota in parte – e nonostante una pochezza di mezzi a volte troppo evidente – anche in “Manhattan Baby“, una storia veramente suggestica e con un discreto sottotesto storico abilmente ricostruito. Il celebre finale, poi, che finisce per evocare le fobie de Gli uccelli di Hitchcock, non soltanto lo cita, ma lo rielabora in chiave fulciana: solo il grande maestro romano, infatti, avrebbe potuto mostrare la soggettiva della vittima mentre viene massacrata dai becchi dei volatili, con tutto il cinico realismo che accompagnava molte delle sue sequenze più truci. Un film non indispensabile in mezzo alla sterminata filmografia di Fulci, ma probabilmente uno degli ultimo veri film diretti dal regista.

    Musiche, come sempre di grandissimo livello, a cura di Fabio Frizzi.

    Locandine: imdb.com

     “Le tombe sono dei morti”

  • Vestito per uccidere è la storia di un uomo imprigionato nel corpo di una donna

    Un killer uccide una donna dentro un ascensore: unica testimone del delitto, una prostituta che si trovava casualmente sul posto…

    In breve. Ottimo thriller di De Palma ispiratissimo ai lavori di Dario Argento, ma a questi livelli è quasi impossibile capire “chi” si sia ispirato a “cosa”: la trilogia argentiana era già uscita da un pezzo, Tenebre sarebbe venuto fuori solo due anni dopo. Un film, per toni e contenuti, decisamente iconico degli anni 80, uno dei migliori del genere.

    Sul finire degli anni 70 Brian De Palma scrisse una sceneggiatura basata su “Cruising” (che significa “trovare partner sessuali casualmente“), un articolo del giornalista Gerald Walker incentrato sulla figura di un serial killer che sceglieva vittime omosessuali. Non riuscendone ad ottenere i diritti, lo script passò al regista William Friedkin che lo diresse nello stesso anno proprio con quel titolo, mentre alcune influenze di quella storia finirono in “Vestito per uccidere“.

    Thriller forte, dai toni erotici marcati (anche se visto oggi, probabilmente, non fa lo stesso effetto) e caratterizzato da una vena tipicamente argentiana: ci sono il killer in impermeabile, il testimone chiave minacciato, il poliziotto-macchietta, l’assassinio in ascensore. Molto di questo film è chiaramente ispirato a Profondo Rosso (uscito cinque anni prima), con la differenza che i suoi toni sono molto più incentrati sulla componente erotica e sulle sue ambiguità, piuttosto che sull’atmosfera malsana. Molteplici riferimenti della storia, e a livello stilistico, rimandano al Fulci de Una lucertola con la pelle di donna, ma anche a Perchè quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? di Carmineo.

    La figura dell’assassino, un “uomo imprigionato nel corpo di una donna“, è una sorta di Norman Bates in forma più esasperata, anch’esso decisamente iconico. Il suo modus operandi prevede semplicemente l’uso di un rasoio, lo stesso che avremmo rivisto infinite volte nel seguito, quantomeno fino alle fantasiose trovate di Saw. A livello stilistico De Palma si ispira ad Hitchcock, specie in certe sequenze “virtuosistiche”: quella in ascensore (col suo indimenticabile gioco di riflessi nello specchio), la sequenza finale nella penombra (mix perfetto di erotismo e tensione), ma soprattutto quella dei due amanti occasionali al museo Metropolitan di New York, che dura ben 9 minuti. Dopo interminabili silenzi, il tutto culmina in un sesso che in Vestito per uccidere perde qualsiasi valenza liberatoria: è puro nichilismo. Il killer, in questo senso, è una sorta di giustiziere-moralista che, come si vedrà, vive per primo dei pesanti conflitti di personalità.

    La narrazione di “Vestito per uccidere” intriga nella sua semplicità: De Palma dirige un ottimo giallo (diremmo quasi all’italiana, se non fosse per l’ambientazione puramente U.S.A.) rinunciando a profili psicologici troppo complessi, dettagli rivelatori improbabili e finali ridicoli. Questo serve a mantenere credibile il livello della storia senza stroncarne l’efficacia e, soprattutto, senza esagerare con l’exploitation: l’unica sequenza davvero brutale, in effetti, è proprio l’assassinio di quella che sembrava la protagonista, mentre resta anche impressa una megalopoli spaventosa nella sua indifferenza (una rappresentazione che ricorda, per certi versi, quella vista in vari polizieschi tipo Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo).

    De Palma, regista ed autore del soggetto, crea di fatto l’equivalente di un thriller erotico all’italiana, un esperimento che riesce e lascia il segno ancora oggi. In “Vestito per uccidere” si respira un’atmosfera puramente ottantiana a cominciare dagli interpreti scelti: un dottore ambiguo, un poliziotto sbrigativo, una prostituta che si rivelerà la vera chiave di volta. In particolare è quest’ultima (interpretata da Nancy Allen, all’epoca moglie del regista) a caratterizzare “Vestito per uccidere” dal punto di vista narrativo e visuale: lontana duecento miglia dalla parte mascolina che l’ha resa più celebre (era l’agente Anne Lewis di Robocop), qui sprigiona la propria sensualità con classe e sicurezza. La “strana coppia” che il suo personaggio crea con il figlio adolescente di Kate Miller, nerd della prima ora deciso a scovare l’identità dell’assassino, rimane impressa nella memoria dello spettatore e colpisce per la sua carica di umanità.

    Come già nei film più espliciti di Argento, anche De Palma venne accusato di aver calcato troppo la mano (più che sulla violenza, ridotta all’essenziale) su sessismo ed erotismo: del resto il film si apre (e si chiude) in un’atmosfera onirica che, probabilmente, non è stata capita da molti. Una sorta di incubo erotico diventato di culto a cui Fulci ed Argento, a dirla tutta, erano già arrivati quasi dieci anni prima. “Vestito per uccidere” è uno dei migliori thriller del periodo a livello mainstream, e merita una visione ancora oggi.

     

  • Perchè “Halloween II” di Rob Zombi è un horror incisivo e accattivante

    Apparentemente morto nel capitolo precedente, il crudele villain con la maschera inespressiva Michael Myers è tornato sulle scene.

    In breve. Molto simile al primo episodio, ne costituisce un prosieguo naturale e funziona, a conti fatti, solo in parte. Non esente da difetti, ma certamente dignitoso.

    Secondo episodio del reboot di Halloween di John Carpenter, che segue direttamente – e senza troppi preamboli – l’ottimo capitolo precedente girato da Rob Zombie: era francamente difficile bissarne le qualità (sempre soggettive, ovviamente, ma a mio parere è inequivocabile ci siano), ed il nostro regista riesce solo in parte nell’impresa. Lo fa, peraltro, impreziosendo la pellicola con spunti onirico-surreali del tutto assenti dal feeling generale della saga (la visione del cavallo e della madre di Michael, entrambi in bianco), che servono soprattutto a spezzare quella che, in mano ad altri registi, avrebbe rischiato di diventare monotonia. D’altro canto, pero’, si evidenzia il lato isterico e spaventoso della psiche di Laurie, che ignora di essere sorella di Micheal Myers ed accentua, per questo, il proprio lato più oscuro. Se in generale poteva essere uno spunto interessante, in certi momenti questo sembra un po’ monocorde.

    Il livello di splatter è prevedibilmente alto anche qui, con una sorta di seguito naturale delle vicende narrate in precedenza, e che mi pare opportuno vedere prima, per evitare che molti dettagli scorrano troppo velocemente senza comprenderne il senso. In questo Zombie è ancora una volta magistrale: il suo horror è rapido (in certe scene d’azione, forse troppo), diretto, essenziale e ricco della giusta dose di gore, che viene spiattellata in modo inesorabile ad un pubblico che, forse quasi esclusivamente, lo ama per questo motivo. Già Zombie aveva sfatato il tabù dell’intoccabilità dei classici, facendo togliere la maschera a Myers (una cosa impensabile, ai tempi dell’uscita), arricchendo la trama di un certo senso onirico e simbolico (sul cavallo bianco ed il suo significato ci sono varie interpretazioni), rielaborando la storia come se fosse un soggetto proprio – ed in effetti lo è: probabilmente la sua è anche l’unica strategia per dare dignità al concetto, perlopiù travisato, del fare un remake.

    Un problema di fondo di questo film è anche legato alla sua indistinguibilità dalla miriade di seguiti anche precedenti: non si tratta di Halloween II degli anni ’80 (quello che Carpenter sceneggiò e fece girare ad un esordiente Rosenthal), ovviamente, per quanto addirittura alcune scene siano simili (Myers nell’ospedale, ad esempio). Soprattutto – per certi versi – la rilettura della saga proposta dal regista, pur validissima nel suo esordio, in questa sede sembra smarrire un po’ di mordente, nonostante i tributi (vari horror classici ed uno al Rocky Horror Picture Show, con le tre ragazze vestite da Magenta, Columbia e Frank-n-further), riuscendo di meno a sorprendere e riavvolgendosi a spirale su idee già note, sia pur con l’apparizione improvvisa ed inquietante della madre di Michael, sempre accompagnata dal figlio da ragazzino. Alcune sequenze onirico-surreali rimangono sopra le righe, se non altro, ed è anche curioso come Loomis, la storica figura del dottore che aveva curato Myers, diventi quasi un personaggio negativo, avido e privo di scrupoli nel cercare di vendere il proprio libro. Alla base del film, la taglineFamily is forever“: Myers cerca ancora una volta la propria famiglia, per potersi ricongiungere ad essa.

    A quanto pare il regista decise di girare il seguito (cosa che inizialmente si sarebbe rifiutato di fare, a suo stesso dire) solo per evitare che la visione complessiva ne risultasse alterata da qualcun altro, buttandosi a capofitto nell’impresa che sa ancor più di kolossal, con questo secondo episodio. Il film stavolta è girato a 16mm in 1.85:1, a differenza del precedente remake che era invece in 2.39:1 (che per motivi tecnici Zombie ha dichiarato di non amare troppo). Di fatto non sembrano sussistere troppe differenze a livello di dinamiche d’azione e di omicidi, come è facile immaginare, senza contare che non sono neanche trascorsi troppi anni dal precedente (appena due): Myers diventa un’ombra che si aggira per uccidere nei modi più brutali, questa volta (dettaglio considerevole) comparendo in più occasioni senza maschera. Il Faerch che interpretava il giovane Myers, peraltro, viene qui sostituito da un altro interprete abbastanza somigliante, probabilmente perchè all’epoca sarebbe sembrato più grande rispetto al film precedente. Nota considerevole sul film, peraltro, è legata al fatto che alcuni attori interpretano più ruoli diversi: Jeff Daniel Phillips ad esempio è sia Howard Boggs che Uncle Seymour Coffins, mentre Dick Warlock ne interpreta addirittura tre.

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