Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Il seme della follia: il miglior horror anni 90 di sempre

    Il seme della follia: il miglior horror anni 90 di sempre

    John Trent è un agente senza scrupoli che stana i truffatori per conto di un’assicurazione, il quale viene incaricato di indagare sulla scomparsa dello scrittore horror americano Sutter Cane. L’uomo è convinto che si tratti di una messinscena di marketing per vendere il nuovo libro, ed inizia a documentarsi sull’autore leggendone le opere (dei “polpettoni” senza capo nè coda). Ma la verità sconvolgente sta per rivelarsi agli occhi del protagonista…

    In breve. Uno dei migliori Carpenter di sempre: un film tesissimo, ricco di horror ottantiano, apocalittico e folle. In una parola, perfetto; da vedere almeno una volta nella vita.

    La storia di Sutter Cane – lo scrittore dall’aria inquietante che ha probabilmente ispirato, tra gli altri, Ubaldo Terzani – ha fatto scuola, a suo modo, e rimane come testimonianza di una delle migliori opere mai viste sullo schermo in questo genere. Pur con la sua aria da b-movie – ostentata con orgoglio in una delle sequenze più celebri, quella in cui Trent viene rincorso dentro ad un tunnel da creature puramente “lovecraftiane” – scalza dignitosamente molte alte produzioni di livello del periodo, e si candida a diventare negli anni uno dei film di culto del genere horror apocalittico. In effetti esso assume un senso pienamente compiuto se viene affiancato alle altre due componenti fondamentali dello stesso regista (La cosa e Il signore del male), a formare così una trilogia concettualmente molto ben definita e che richiama la poetica del macabro, ad esempio, espressa da Lucio Fulci con i suoi tre film più famosi (L’aldilà, Paura nella città dei morti viventi e Quella villa accanto al cimitero). Si trova qui, per la cronaca, il Carpenter più apertamente nichilista, che dopo aver espresso chiaramente il suo pensiero politico (Essi vivono) riprende in parte le atmosfere dei precedenti Fuga da Los Angeles / Fuga da New York, e le declina come se “la cosa” stesse per arrivare a fare strage sulla Terra. Il risultato è privo di difetti, incalzante, oscuro e con un finale da brivido.

    Sutter Cane ha scritto un libro con il quale – potenza dello scrivere, vedi anche “La metà oscura” – prenderà possesso del mondo diventandone un diabolico deus ex machina, popolandolo dei mostri orribili dei suoi intrecci da romanzetti pulp. La stessa Hobbs End, il mitico luogo in cui egli si sarebbe rifugiato, non esiste su alcuna cartina geografica: è un semplice luogo immaginario che testimonia a suo modo l’inafferabilità dell’autore, ed il suo porsi al di fuori della storia come una sorta di nuova divinità. Un film sul potere della penna, dunque, e più in generale sui fenomeni di culto legati ad un’opera, da cui (forse con una certa auto-ironia) il grande regista americano decide di mettere in guardia. Abbondanti nel film sono i riferimenti all’amatissimo (da Carpenter) Lovecraft (verso la fine compare per qualche istante il mostro-pesce Dagon, ad esempio) e ad alcuni classici come “L’esorcista” (donna che scende le scale con la testa rovesciata) ed il poliziotto-zombi che sembra uscito fuori direttamente da “Maniac Cop”: Carpenter fa fuori, quindi, la linearità del racconto riempendolo di non sequitur, ma non per questo il film diventa inintellegibile o vuotamente “accademico”. Piuttosto è un film che si segue con passione, e Carpenter si diverte, nel finale, a giocare pure con il meta-cinema (durante l’apocalisse il protagonista va a cinema a vedere “Il seme della follia” di John Carpenter e… impazzisce dopo averlo (ri)visto!). Un tema, quest’ultimo, che deve essere piaciuto talmente tanto al regista da proporlo in veste rinnovata anche nel suo più recente (e notevolissimo) Cigarette Burns.

  • Sleepaway Camp: lo slasher di culto dal finale a sorpresa

    Otto anni dopo la morte improvvisa di parte della sua famiglia, l’introversa Angela viene mandata in campeggio col cugino Ricky; saranno entrambi vittime predestinate di bullismo da parte degli altri ragazzi. Un killer si aggira nel campeggio, nel frattempo…

    In breve. Cult del terrore, per appassionati del genere e pochissimi altri, ampiamente ispirato al cinema di genere di qualche anno prima; sarebbe un epigono come tanti, se non fosse per un finale sui generis.

    La suggestione che si tende incosciamente a fare, in questi casi, è legata ai “film horror con ragazzi in vacanza”, fino ad arrivare al celebre Venerdì 13: questo per via di alcuni elementi del film che sono effettivamente comuni (il campeggio, l’assassino in soggettiva che diventerà villain di una saga, la paura irrazionale dell’acqua, la sessualità controversa), per quanto Sleepaway camp sia, a conti fatti, un prodotto sostanzialmente diverso. A dirla tutta, un b-movie di qualità non paragonabile al lavoro di Cunnigham, per quanto finisca per tributare più un genere ampio che un singolo film nello specifico.

    Del resto gran parte della sua popolarità (inedito in Italia, e disponibile in DVD con sottotitoli italiani su box di lusso) deriva dall’incredibile hype generato dal web, mediante articoli entusiastici (complex.com) per quanto – a conti fatti, ed al netto dei vari seguiti girati – si riconduca quasi esclusivamente allo shockante finale. Non c’è dubbio, quindi, che Sleepaway Camp sia un horror nella media del periodo e del genere, lontano dal capolavoro ma con un suo perchè, e soprattutto destinato ad un pubblico “ggiovane” e familiare, se possibile, con una realtà tipicamente americana (i campeggi estivi dove le famiglie inviavano, e probabilmente inviano anche oggi, i propri figli in vacanza). Probabilmente proprio questa realtà fatta di teenager e ninfette che fanno molto Porky’s lo ha allontanato dalle prospettive di chi, a suo tempo, avrebbe potuto portarlo nelle sale italiane; scetticismo forse a ragion veduta, che rende comunque godibile il tutto al patto di considerarlo quello che è: un thriller a basso costo a forti tinte slasher, con qualche omicidio sopra la media, un cast giovanissimo ed un segreto che si svelerà solo negli ultimi minuti.

    Si introduce infatti nell’apparente normalità della situazione la presenza di un killer, che agisce in prima persona: il che rientra anch’esso nella standardizzazione dello slasher e che, anzi, risulta quasi fuori tempo e fuori moda rispetto al periodo, mostrandosi chiaramente solo nel finale – e che finale! A parte questo, è impossibile non rilevare qualcosa che non quadra a livello di intreccio, specie la credibilità dell’avere un singolo assassino motivato, peraltro, dallo scaricare la propria rabbia e frustrazione sui bulli del camp. Questo ha portato addirittura ad ipotizzare che di assassini ce ne siano due, ma credo che scomodare una teoria del genere sia – se non altro – azzardato e mi convince poco, per quanto effettivamente risolva qualche incongruenza di fondo. Trascurabile, in ogni caso, rispetto alla sostanza del film stesso, che resta godibile in ogni senso seppur con qualche momento di “fiacca”.

    Sulla conclusione del film, quei magici 60 secondi che non sto qui a raccontare (“spoilerare“) per l’ennesima volta – anche solo per differenziarmi dalla massa di webzine e blog che l’hanno impunemente svelato – ci sarebbe da dire parecchio; a mio avviso l’effetto è notevole, ma resta vero che lo spettatore abituato a vedere film del genere (e con una certa familiarità con i colpi di scena alla Argento, per intenderci) potrebbe aspettarsi ed anticipare il tutto qualche tempo prima. Del resto è impossibile continuare a parlarne senza raccontare tutto, ed ha anche poco senso (come mi pare facciano alcuni) astrarlo dal contesto del film stesso: certamente non è un capolavoro – ma è cult, e tanto basta. Il finale di Sleepaway camp vale, come si sarebbe detto all’epoca, da solo il prezzo del biglietto, ma impallidisce rispetto al resto del film – a confronto, mediocre – e crea uno sbilanciamento a mio avviso troppo pronunciato; il rischio, di fatto, è che molti abbandonino la visione prima della fine, ed è un paradosso notevole visto che l’idea risolutiva è a suo modo geniale ed irrazionalmente spaventosa. Con un gioco di lento accrescimento della tensione al limite del subdolo, e con qualche succitato calo di ritmo, Hiltzik crea uno slasher diretto e sostanzialmente efficace, che sembra dovere più di qualcosa al cinema anni 70 senza disdegnare, a riguardo, riferimenti a certo cinema italiano, che era solito anch’esso – come viene fatto per Angela – mostrare scene oniriche per raccontare la psicologia dei personaggi (Tutti i colori del buio), che non risparmiava allo spettatore il sadismo di certe sequenze (l’uccisione con l’alveare sarebbe stata degna di Argento o Bava) e che – soprattutto – era solito, specialmente nei gialli, basare l’efficacia delle storie sulle ambiguità e sugli “scambi” di personaggio.

    Hiltzik sembra aver preso quasi tutto da qui, dal cinema di genere di un decennio prima, ed il risultato si fa apprezzare per quello che è: un discreto slasher con alti e bassi, ed un sano pugno nello stomaco conclusivo.

  • I vampiri, il primo horror italiano di Freda e Bava

    La polizia indaga su una serie di omicidi di giovani donne, scoprendo una terribile verità legata alla figura di un’affascinante contessa…

    In breve. Il primo horror italiano in assoluto (se si esclude Il mostro di Frankenstein di Eugenio Testa, pellicola muta del 1920 ad oggi persa), incentrato su una serie di omicidi di giovani donne che vengono ritrovate prive di sangue. Gotico, horror e sci-fiction si fondono in uno dei cult assoluti del nostro cinema di genere.

    Noto con svariati titoli (tra cui Evil’s Commandment, Lust of the Vampire, The Devil’s Commandment, The Vampires, Les Vampires), è un film dall’importanza storica basilare per lo sviluppo del genere, soprattutto nell’Italia d’epoca abbastanza avulsa, di per te, a valorizzare storie sanguinose o violente. Freda inventa il proprio horror portando ai produttori un soggetto inciso su un magnetofono, con tanto di rumori sinistri all’interno: la storia, comunque, sembra dovere più di qualcosa a quella sinistra della contessa Erzsébet Báthory. Il film è incentrato sul mito della giovinezza, e sull’autentica ossessione per la bellezza che porta la protagonista a compiere delitti pur di soddisfarla.

    Bava si è occupato, oltre che della doppia regia, degli effetti speciali del film: notevole per l’epoca, ad esempio, la scena dell’invecchiamento precoce della baronessa, utilizzata a più riprese e diventata un leitmotiv dei film vampireschi (ad esempio ricorre in una lunga sequenza di Miriam si sveglia a mezzanotte con David Bowie). La tecnica usata è un ingegnoso gioco di contrasti di luce: l’attrice era truccata con un fondo di cerone blu (invisibile a causa del bianco e nero del film) e delle rughe di colore rosso, sfruttando poi un gioco di lampade colorate per nascondere o esaltarne l’invecchiamento. Una strategia da autentico artigiano dell’orrore che spiegò anche, in seguito, durante un programma televisivo (che trovate su Youtube).

    I Vampiri è carico delle classiche suggestioni del gotico, dai castelli maledetti ai riferimenti alla magia nera, in un agglomerato vintage che risulta forse un po’ datato, ad oggi, ma che resta in grado di mantenere il proprio fascino per i cinefili.

  • Nel cuore dell’oscurità: l’incubo di Amityville Possession (1982)

    Informazioni sul film

    Ecco alcune curiosità sul film “Amityville Possession” del 1982, diretto da Damiano Damiani:

    1. “Amityville Possession” è il terzo capitolo della serie di film basati sui tragici eventi che si sono verificati nella casa di Amityville, in Long Island, New York. È un sequel diretto del film del 1979 intitolato “Amityville Horror”.
    2. Il film è stato diretto da Damiano Damiani, un regista italiano noto per il suo lavoro nel genere thriller e horror. Damiani ha contribuito a creare un’atmosfera inquietante e angosciante nel film.
    3. “Amityville Possession” è stato prodotto dalla Dino De Laurentiis Cinematografica, una rinomata casa di produzione italiana che ha realizzato numerosi film di successo nel corso degli anni.
    4. Il cast del film includeva attori come James Olson, Burt Young, Rutanya Alda e Jack Magner, che hanno offerto interpretazioni convincenti dei personaggi coinvolti negli eventi soprannaturali della storia.
    5. Una delle curiosità più interessanti riguarda la casa di Amityville utilizzata nel film. Per rispettare la privacy dei proprietari della vera casa di Amityville, la produzione ha costruito una replica identica della casa per le riprese.
    6. “Amityville Possession” ha continuato ad alimentare l’interesse per la storia di Amityville, offrendo una visione unica degli eventi e dei fenomeni paranormali che si dice siano accaduti nella casa infestata.

    Amityville Possession (Amityville II: The Possession) è un film horror del 1982 diretto da Damiano Damiani, che funge da prequel al primo film, Amityville Horror, uscito nel 1979. La regia di Damiani ricevette particolari apprezzamenti soprattutto per la sequenza particolare in soggettiva del demonio stesso, durante il momento in cui si impossessa di Sonny. Per il ruolo di Anthony, il padre di Sonny, fu scelto l’attore italo-americano Burt Young, all’apice della sua carriera grazie al ruolo del cognato del pugile Rocky.

    Trama Amityville II: the possession

    La trama di “Amityville Possession” (Amityville II: The Possession), diretto da Damiano Damiani, ruota attorno alla storia della famiglia Montelli, una famiglia italo-americana che si trasferisce nella casa di 112 Ocean Avenue ad Amityville, Long Island. Dopo aver acquistato la casa, i Montelli iniziano a vivere una serie di eventi inquietanti e inspiegabili. La madre, Dolores, si rende conto per prima che qualcosa di sinistro si annida nella casa e cerca l’aiuto del sacerdote padre Adamsky. Tuttavia, prima che possa intervenire, il figlio maggiore, Sonny, viene posseduto da una presenza demoniaca. Il demone che ha preso possesso di Sonny inizia a influenzare il suo comportamento, portandolo ad avere un rapporto incestuoso con la sua stessa sorella. La situazione si intensifica ulteriormente quando Sonny impugna un fucile e massacra brutalmente il resto della sua famiglia.

    Sonny viene arrestato, ma a causa delle circostanze paranormali che circondano l’accaduto, il prete padre Adamsky decide di liberarlo dalla prigione con l’intento di esorcizzarlo. Tuttavia, durante il tentativo di portarlo in chiesa per l’esorcismo, Sonny scappa e torna nella casa infestata. Padre Adamsky lo segue e, in un disperato sforzo finale, riesce a liberare Sonny dal controllo del demone. Sonny viene portato via dalla polizia, mentre padre Adamsky, esausto e provato, si ritrova posseduto dal demone che prima lo aveva dominato.

    Di cosa parla il film

    Il film “Amityville Possession” esplora l’oscura presenza demoniaca che ha afflitto la famiglia Montelli e mette in luce gli sforzi di un prete per affrontare il male sovrannaturale. La trama si basa su eventi ispirati al vero caso di cronaca della famiglia DeFeo del 1974, che ha sconvolto la comunità di Amityville.

    Quali sono i tragici fatti di cronaca su cui si basa il film?

    La storia di Amityville è una vicenda controversa che ha inizio il 13 novembre 1974, quando a Long Island, New York, sei membri della famiglia DeFeo vengono trovati brutalmente assassinati nella loro casa di Amityville. Ronald “Butch” DeFeo Jr., il figlio maggiore, viene successivamente arrestato e condannato per i delitti. Sostiene di aver commesso gli omicidi sotto l’influenza di voci demoniache che lo avrebbero spinto a compiere l’atroce gesto.

    Un anno dopo, nel dicembre 1975, George e Kathy Lutz acquistano la casa di Amityville, nonostante la sua oscura reputazione legata agli omicidi precedenti. La coppia, insieme ai loro tre figli, si trasferisce nella casa sperando di iniziare una nuova vita. Tuttavia, affermano di essere stati testimoni di fenomeni paranormali disturbanti e inquietanti sin dal loro arrivo. I Lutz raccontano di strani rumori, presenze sinistre, malfunzionamenti elettrici, porte che si aprono e si chiudono da sole, e persino di aver visto figure spettrali. Affermano anche di essere stati soggetti a un aumento di tensione e conflitti familiari, presumibilmente causati dall’influenza maligna che sarebbe presente nella casa. Dopo soli 28 giorni, la famiglia Lutz decide di abbandonare la casa, affermando di non poter più sopportare l’oppressione e la paura costante. Questo evento segna l’inizio di un’ampia copertura mediatica e di un’attenzione internazionale verso la storia di Amityville.

    La vicenda diventa un fenomeno culturale e suscita un ampio dibattito sulla veridicità degli eventi riportati dalla famiglia Lutz. Ci sono coloro che credono fermamente alla presenza di forze paranormali nella casa di Amityville, mentre altri ritengono che sia stata una semplice invenzione o esagerazione dei Lutz per guadagnare notorietà e sfruttare il successo dei libri e dei film basati sulla loro storia. Dal 1977, la storia di Amityville è stata oggetto di numerosi libri, documentari e adattamenti cinematografici. Le opere hanno spesso narrato la vicenda in modo romanzato, aggiungendo elementi di horror e suspense per amplificare l’atmosfera spaventosa. Nonostante le controversie e il dibattito in corso sulla veridicità dei fatti, la storia di Amityville continua a essere un’icona del genere horror e un argomento affascinante per coloro che sono interessati all’occulto e al paranormale. Resta un mistero irrisolto, lasciando spazio a diverse interpretazioni e opinioni.

  • M. Butterfly: il tetro spettacolo di David Cronenberg

    Ispirandosi ad un fatto realmente accaduto, Cronenberg racconta la relazione semi-clandestina tra un diplomatico francese ed un cantante dell’opera…

    In due parole. Uno dei film meno noti di David Cronenberg: per la prima volta tanto lontano dall’estetica horror/sci-fi quanto intenso. Non cambia la poetica della mutazione (che in questo frangente è di natura prettamente sessuale) e si mostra la trasformazione umana e psichica di un protagonista: in parte, quella che il regista stesso stava attraversando.

    Il drammaturgo David Henry Hwang (sceneggiatore del film in questione) scrive la pièce teatrale M. Butterfly ispirandosi ad un singolare fatto di cronaca: un diplomatico francese venne accusato di spionaggio per via del rapporto con un’attrice dell’Opera di Pechino, la quale in sede giudiziaria si rivelò essere un uomo. Cosa ancora più singolare, l’uomo si convinse dell’impossibile, ovvero di avere avuto un figlio dalla compagna/compagno con immaginabili conseguenze sul piano mentale e psicologico: un terreno particolarmente fertile per un regista come David Cronenberg, che già in “Inseparabili” aveva giocato sul confronto tra due gemelli identici ma interiormente differenti, e che aveva a suo tempo sviscerato le proprie ossessioni in termini mentali (Scanners), medico-chirurgici (Rabid sete di sangue, Il demone sotto la pelle), ginecologici e sessuali. Un cinema improntato ad una fortissima passionalità di fondo, dunque, che in questo film mostra un’ennesima debolezza umana: noi siamo conquistati prima ancora dall’idea dell’amore e dell’amata che dalla sua concreta materialità.

    Un tema profondo che ha trovato sfogo, ad esempio, nella concettualizzazione della donna ideale da parte dell’impiegato Sam di Brazil (che immagina essere un angelo dai capelli biondi) e la sua materializzazione (una mascolina e rude camionista): in “M. Butterfly” la donna amata, che ha procurato piacere fisico e mentale al protagonista René Gallimard, si rivela essere un uomo. Questo scatena una crisi ulteriore nel personaggio, in bilico tra il dover riconoscere l’abbaglio e la fuoriuscita di una omosessualità probabilmente repressa. Del resto la visione del sesso nei film del regista canadese, almeno fino a quel punto, era improntata a mostrarne dilemmi, virtualizzazioni (Videodrome) e contraddizioni, e questo ad esempio nell’ottica della maternità, comunemente considerata l’aspetto più rassicurante del mondo femminile che assume invece parvenza da incubo (vedi il finale di Brood).  In questa sede il focus sembra spostarsi sull’uomo, sul suo dramma interiore e su un amore impossibile che si risolve nello splendido monologo finale di Jeremy Irons (che vale forse da solo l’intera visione del film).

    Non credo di scrivere eresìe se premetto, a questo punto, che probabilmente “M Butterfly” è uno dei meno immediati film, in termini di intenti, mai girati da David Cronenberg (senza parlare di vera e propria complessità). Quello che intendo prescinde da un discorso prettamente visivo o allucinatorio tipico del cinema del regista canadese (e che qui manca del tutto): l’intensità della storia, un dramma che si sviluppa inesorabile con i punti interrogativi che assillano lo spettatore fino alle ultime sequenze, rendono questo film in qualche modo un unicum. Non è la prima volta che Cronenberg si rifà a modelli letterari pre-esistenti, ma è probabilmente il primo caso in cui l’orrore non viene “esploso” brutalmente sullo schermo ma rimane splendidamente interiore. Del resto la storia ruota su un evento che cambierà per sempre la vita del protagonista, spazzandone via illusioni, equilibrio mentale e identità: una dinamica che ricorda la progressiva demolizione dei personaggi di una tragedia classica (oltre che di altri capolavori del regista, su tutti “La mosca”), e che non lascerà indifferente lo spettatore.

    Un film giocato sulle consuete ambiguità cronenberghiane, a cominciare dal titolo “M Butterfly” che sembra rimanere volutamente sospeso tra “Madame” e “Monsieur”, e che esprime senza retorica o virtuosismi inutili il dramma di un uomo (o di una donna) e di un amore impossibile.

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