Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Morituris: il film di Raffaele Picchio è stato uno dei più massacrati dalla censura di ogni tempo (purtroppo)

    Morituris: il film di Raffaele Picchio è stato uno dei più massacrati dalla censura di ogni tempo (purtroppo)

    Tre giovani e due donne si recano in macchina ad un rave: questo è quanto fanno credere…

    In breve. Un film crudo e terrificante, un saggio magistrale di decadenza come non se ne vedevano da anni: censurato in Italia con poco giustificabili toni inquisitori, ed ingiustamente maltrattato da chi non ha saputo neanche vederlo, è uno slasher quasi revenge movie che gioca a decostruire il genere, meritevole di rispetto e di una riscoperta. Un vortice di nichilismo, realismo e ferocia umana, ispirato parecchio al primo Wes Craven.

    Abbiamo trascorso anni della nostra vita da recensori a farci affascinare, deprimere o esaltare da prodotti cinematografici al limite dell’amatoriale, spesso qualitativamente non eccelsi, con l’etichetta cult appiccicata a volte meritatamente, altre a casaccio. Abbiamo sofferto nel vedere certe produzioni, soprattutto quando le idee non mancavano, provando a salvare il salvabile – e stroncando ove e quando necessario lo stroncabile (difetti di recitazione e buchi narrativi, in primis). Abbiamo trascorsi serate tra amici e conoscenti a raccontare quante sorprese sappia riservare il cinema di genere, sentendoci fare “spallucce” un numero innominabile di volte. Di una cosa, pero’, potete stare certi: il cinema di genere exploitation non sarà più quello di prima, per voi, dopo aver visto questa opera prima di Raffaele Picchio. Morituris è libero da qualsiasi carattere di amatorialità e mostra che, una volta nelle sale, ogni film può possedere pari dignità: peccato che questo film non abbia avuto questa opportunità, visto che è stato bloccato dalla censura italiana e ne è stata vietata la proiezione in qualsiasi cinema (festival esclusi).

    Un film sporco, violento e destinato a lasciare il segno sullo spettatore, prendendo abbastanza evidentemente ispirazione dal primo Wes Craven (quello del cult L’ultima casa a sinistra), ma andrebbero citati anche L’ultimo treno della notte di Aldo Lado ed il torbido Cani arrabbiati di Mario Bava. Picchio non ama scherzare col cinema, in tutti i sensi: se da un lato infatti mostra una certa maestria nel riprendere (considerando che moltissime scene sono girate al buio), dall’altro evita di virare sui toni da cine-fumetto che tendono, in questi casi, ad ammorbidire il contesto mediante le solite abusate dicotomie Buoni/Cattivi o Indiani/Cow-Boys. Morituris è un horror slasher in cui non devi parteggiare per nessuno, non puoi farlo perchè è un prodotto talmente atipico ed originale da non consentirtelo. Il risultato, certo, potrà sembrare visivamente eccessivo ad alcuni, ma a ben vedere l’insistere sulla violenza (e le accuse di misoginia conseguenti) è un ingrediente necessario, parte dell’intreccio stesso (e della decadenza che condanna), necessario per generare un climax di tensione che giunge all’estremo nella (parecchio emblematica) scena finale.

    La tagline del film è “il male ha la meglio“, ed è così. Non volevamo fare una commedia horror, bensì una metafora surreale di ciò che, realisticamente, producono le azioni malvagie. Quando una bomba nucleare esplode, muoiono tutti (R. Picchio)

    Girato con spirito antropologicamente pessimista (la tagline del film non poteva che essere “evil prevails”) Picchio mostra non solo di conoscere “tarantinamente” il cinema di genere – ed in particolare l’exploitation – ma anche di saperlo rielaborare, usando bene i mezzi a sua disposizione ed esplicitando l’orrore in modo sorprendentemente equilibrato. Nonostante la violenza sia spesso ben visibile (e questo ovviamente, non lo rende un film da guardare “a cena coi parenti“: del resto, quale horror di qualità lo è?), si gioca sapientemente sul “non visto” e sugli sguardi malati (oltre che sulle perversioni) dei protagonisti: no violence for free, at all, per usare le parole del regista stesso, perchè tutto ciò che si mostra è necessario al contesto. Il quadro che ne esce è notevole: non solo i carnefici subiscono un violento contrappasso (che non dovrebbe essere una novità), ma anche le vittime non sono risparmiate da un culto della vendetta assoluto ed al di sopra di tutto, e che si propaga evidentemente da millenni.

    Vagamente ispirato al massacro del Circeo (il terribile fatto di cronaca nera avvenuto nel settembre 1975), Morituris si avvenutra in una storia di violenza girata con taglio quasi documentaristico, cupo e molto realistico, con tre giovani romani che adescano, con la scusa di un rave, due ragazze.  Dopo averle ferocemente violentate, scopriranno un Male assoluto (un gruppo di feroci gladiatori non morti) in grado di colpire con una cattiveria ben più grande della loro.

    Si ibridano nel film due componenti principali: da un lato la exploitation più cruda, dall’altro (abbastanza curiosamente per il contesto) l’horror a tinte sovrannaturali: il risultato di questo intelligente mix è uno slasher efficace, realistico quanto legato alla teatralità mitologica dei gladiatori dell’Antica Roma, ed alla rivolta di Spartaco in particolare. La scelta di attenuare l’elemento revenge dalla storia – che comunque, a suo modo, è presente quanto abbreviato dalle circostanze – è spiazziante, almeno quanto la citatissima sequenza dello stupro con le forbici (tensione allo stato puro). Al tempo stesso, Picchio riesce a non appesantire il contesto, che resta ovviamente più nero della notte ma che mostra qualche accenno di un sentire più vario, dagli aggressori che non capiscono il latino fino all’avviso finale, che ricorda agli spettatori che nessun animale è stato maltrattato in questo film (solo vedendo la scena del topolino, altra sequenza spoilerata senza pietà dal vituperato “popolo del web“, si può afferrare l’ironia).

    Al tempo stesso, al netto delle sproporzionate polemiche da parte di chi aveva stabilito non potesse andare nelle sale (c’è una Commissione Censura che lo ha fatto) Picchio e Perrone sono stati inequivocabili sul messaggio sottinteso (i personaggi non si chiamano mai per nome, perchè rappresentano archetipi universali di umanità; per non parlare del sulfureo in memory of mankind visibile sui titoli di coda), ma non c’è dubbio nemmeno sul contesto narrativo (i protagonisti sono three young, rich-upper class, fascist roman guys pick up two Italian girls), sulla caratterizzazione dei personaggi (la loro doppiezza è inquietante quanto realistica), ed infine sul genere, che è un thriller-slasher a tinte fosche girato quasi come uno snuff (molte riprese in movimento, ma nessun effetto “mal di mare” ed altrettanta perizia nel riprendere e nessuna inutile pornografia della violenza, per inciso).

    Non vi è alcuna speranza di redenzione o di vendetta in Morituris, il che è probabilmente sottinteso nel nome stesso del film: forse è questo, più di tutti, a rendere il film destabilizzante quanto preda di polemiche feroci, spesso da parte di webeti e a volte inappropriate. Certo, probabilmente il film non è perfetto, ma è pur sempre un’opera prima, non presenta momenti di calo, è ben recitato (e questo è un punto a favore considerevole), ma credo in tutta franchezza che farlo passare per uno snuff di bassa lega (come anche testate horror normalmente competenti e sempre sul pezzo hanno fatto) sia fuori luogo quanto profondamente ingiusto. Guardatelo con l’idea di assistere ad uno spettacolo estremo, certo, ma anche ricco di qualità e di idee, ed ovviamente preparatevi a soffrire (nel senso migliore del termine).

    Morituris si trova in DVD su Amazon (la versione che ho linkato è la francese uncut in lingua italiana di 90 minuti, della Elephant Films), mentre quella tagliata ne dura solo 83, ed è uscita per la Sinister Film.

    Nota: le parole del regista sono tratte da una interessante intervista al sito Bloody Disgusting.

  • Io, Caligola: un film scabroso a sette facce, rinnegato da chiunque

    L’imperatore Tiberio sta per morire, e convoca il successore Caligola, suo nipote, dedito ad una vita più dissoluta della sua.

    In breve. Sesso esplicito e violenza nella Roma decadente dell’epoca: ecco la storia di Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico vista dalla regia di Tinto Brass. In verità, questo è vero solo sulla carta. Il film ebbe una produzione travagliatissima, il regista venne licenziato prima della fine dei lavori e ci furono incalcolabili problemi con la censura (e con varie forme di boicottaggio).

    Se la Mirren (che nel film interpretava il personaggio Cesonia) commentò sobriamente dopo la fine delle riprese di “un mix irresistibile di arte e genitali“, Rogert Ebert parlò di “vergognosa spazzatura“, stigmatizzandone la partecipazione di attori di grosso calibro. Il Malcom McDowell di Arancia Meccanica interpreta Caligola, e la scelta sembra essere felicissima – fa anche sorridere che qualche movenza dell’imperatore decadente per eccellenza ricordi quella di Alex, soprattutto quando cerca falsamente di convincere chi teme (autorità o rivali al potere che siano) che la situazione sia sotto controllo. Non valgono a molto, viste oggi, le pesanti critiche che vennero mosse a Caligula, anzi lette oggi sembrano piuttosto fini a se stesse, come spesso accade nel caso di film banditi dal genere umano per scelta di uno o più censori: naturale pensare anche a Morituris.

    Quattro furono gli anni necessari per girare questo film, che in Russia fu vietato fino al 1993, in Australia fino al 1981; bisognerà aspettare il 1984 per la versione uncut vietata ai minori, “lusso” che durò qualche anno, perchè di divieti assoluti ne arrivarono altri due, nel 2005 e nel 2010. In Brasile Io, Caligola venne trasmesso in TV solo parzialmente, per poi sparire per sempre in seguito alle proteste degli spettatori (che non videro mai la seconda metà). In Bielorussia, poi, questo film non circola neanche oggi. Un vero e proprio “bollettino di guerra“, insomma, per uno dei film che – come avvenuto anche per La fortezza di M. Mann, ad esempio. – avrebbero potuto essere qualcosa di memorabile, se solo ci fosse stata unità di intenti e – mi permetto di aggiungere – rispetto delle libertà artistiche.

    Basato su un’idea dello scrittore Gore Vidal, il soggetto è fortemente incentrato su un focus sul mondo dell’omosessualità, che pero’ nella pellicola si nota solo in parte (eufemismo per non scrivere molto poco). Il girato vide un primo cambio di rotta nell’imposizione di Bob Guccione (produttore, oltre che regista, di alcune sequenze aggiunte/manipolate in seguito), il quale temeva, con la scelta di mostrare rapporti gay, di andare contro i gusti del famigerato “grande pubblico”. Per protesta Vidal non volle farsi accreditare tra gli autori, ma venne comunque pagato 225.000 dollari, a quanto risulta.

    Non si può dire che Caligula sia nato sotto una buona stella, e questa prima discrepanza artistica fu solo l’inizio di una storia che vide scandali, licenziamenti, soldi investiti e mai più recuperati, critica schierata militarmente contro il film e via dicendo. Parliamo di quello che, secondo IMDB, fu uno dei film indipendenti (quando fare film indie non era roba da hipster, forse) più costosi della storia, che diede lavoro a più di 1500 persone tra attori, tecnici, addetti ad effetti speciali e via dicendo. Eppure, paradosso dei paradossi, a nessuno sembra importare della sostanza del film, che – sia pur nei suoi eccessi erotici – sembrava addirittura esserci, per quanto un film manipolato ad arte possa consentire. Caligula è significativo ancora oggi per quanto rientri nelle grandi occasioni mancate (e non per colpa di un singolo, beninteso) perchè sarebbe forse potuto essere una delle migliori trasposizioni storico-decadenti sull’Imperatore in questione. Parliamo di pure speculazioni, ovviamente, che mai potremo provare o smentire, ma tant’è.

    Tra gli attori che non vollero farsi coinvolgere nel progetto, per la cronaca, troviamo sia Orson Welles, il quale indicò motivi morali per questi diniego, e Maria Schneider, che aveva iniziato a girare le prime scene – ma che venne sostituita perchè in imbarazzo nel girare le scene di incesto (l’imperatore Caligola aveva infatti una relazione incestuosa con la sorella Drusilia). Del resto le sequenze grevi nel film non mancano: al di là di nudi più o meno artistici o necessari cosparsi in tutto il film, molte sequenze finiscono per evocare una lettura da cinema pasoliniano, dove l’obiettivo è quello di esorcizzare gli abusi del Potere mediante la rappresentazione di sesso e decadenza. Brass (e/o Guccione) non risparmia nulla e mostra scene di sesso di gruppo, omosessuale quanto eterosessuale, inasprendo le stesse in modo imprevedibile (si vede anche una castrazione punitiva, ad esempio, ed una brutale sodomia) e rendendo gli atti stessi quasi indispensabili al mantenimento di un impero che, con Caligola, sembrava avviarsi alla rovina.

    Stai assistendo alla … distruzione dell’Urbe!

    Una delle scene più note, del resto (lo stupro di Proculo e della sua promessa sposa) è una chiara metafora modello A Serbian Film, in cui si condanna e si esemplifica l’arbitrio e la prepotenza del potere (ovviamente personificato da Caligola) nei confronti di chi, come viene detto apertamente, ha come paradossale “colpa” quella di aver servito fedelmente Roma. Se il principio a cui si ispira l’Imperatore è degradato, pertanto, è chiaro che qualsiasi personaggio retto sarà condannato per colpa di un diabolico contrappasso. Ed in quest’ottica la sodomizzazione di Proculo (che McDowell rifiutò di girare, e Brass trasformò in un brutale fisting non inquadrato), probabilmente fu ancora più traumatizzante per lo spettatore. Per inciso, durante la scena in questione, più volte l’Imperatore invita la vittima ad assistere ad occhi aperti, omaggiando implicitamente la cura Ludovico di kubrickiana memoria.

    Io, Caligola meriterebbe, al netto dei dettagli controversi ad ogni latitudine, una riscoperta se non una rivalutazione filologica (ammesso che sia lecito farlo) anche solo per la maestosa interpretazione di Malcom McDowell nella parte dell’imperatore, che arrivò – per dirne una – ad inventarsi una scena di sana pianta, decisamente suggestiva, in cui il personaggio ha una sorta di esaurimento nervoso, giusto mentre invoca Giove sotto la pioggia battente. Per Gore Vidal, pero’, la natura del personaggio sarebbe dovuta essere quella di un uomo buono, corrotto dalla smania del potere; per Brass, più coerentemente con un’antropologia pessimista, Caligola era invece un “mostro nato. Sono noti peraltro dissapori tra Brass e Vidal, in cui il regista italiano lamentava una scarsa filmabilità del soggetto proposto che lo portò a rivedere il senso di molte scene, e rigirarle a modo proprio.

    Salvo poi entrare in contrasto anche con Guccione che, da semplice produttore, pretendeva di avere un (per noi inconcepibile) controllo della regia. Tra l’altro, con una differenza stilistica sostanziale: Guccione sembrava prediligere un film con attori avvenenti e scene pornografiche esplicite per “fare cassa“, Brass – per contestualizzare l’ambientazione decadente – avrebbe preferito filmare brutture, anche nel sesso (pensiamo ad esempio alla donna con tre occhi, decisamente surreale ma efficace in tal senso). L’idea di Brass sarebbe stata, stando a IMDB, addirittura quella di far recitare autentici criminali con la condizionale, per rendere l’idea, mentre il sesso – a differenza di altri suoi film in cui assume una valenza giocosa e liberatoria – sarebbe dovuto essere più shockante che eccitante.

    Come andò a finire è storia: insensibile alla filosofia decadente (e forse a qualsiasi filosofia in generale), Guccione licenziò Brass prima della fine del girato, curando arbitrariamente e senza supervisione l’edit finale, che quindi possiamo considerare un “apocrifo” di Brass (di cui il regista parla, lecitamente, poco volentieri). A quanto pare, inoltre, la fama di “film maledetto” deriva anche dalle scelte del produttore e del tecnico al montaggio Baragli, che decisero di assemblare in modo arbitrario le sequenze e di togliere di mezzo vario girato che, ovviamente, non sappiamo precisamente se il regista avrebbe mantenuto o meno.

    Un film che sembra nato sotto una maledizione, di cui tanti (troppi?) hanno scritto e che nessuno, in effetti, sembra aver davvero visto in una qualche forma final cut. Questo anche per una ragione pratica: la versione italiana è stata mutilata, in alcune edizioni, di tutte le scene erotiche (e di qualcuna porno, presente nell’uncut e forse voluta / girata da Guccione), per cui l’unico modo per vedere una versione simile a quella che si sarebbe voluta è quella di reperirlo in lingua originale su DVD.

    Sulle versioni di Caligula, poi, bisogna fare una breve digressione: sono numerosissime le versioni che circolano di questa pellicola. Wikipedia italiana ne conta sette, di cui quella di 156 min (uncut o integrale, del 1979, di cui pero’ circa 6 minuti sono stati girati da Guccione), ed una da 133 min (versione italiana, del 1984). Esistono almeno due versioni in cui le scene hardcore non sono presenti (che sono ovviamente più brevi), anche se in questo caso è improprio parlare di Director’s cut, visto che fu il produttore ad aver preso il controllo della situazione. Nel Regno Unito, poi, circolerebbe (secondo IMDB) una versione da 2 ore e 39 minuti con le scene hardcore sostituite da altre, che poi sarebbe diventata misteriosamente più corta nell’edizione successiva (1 ora e 42 minuti). Contrariamente a varie voci circolanti sui forum, poi, non esiste alcuna versione da più di tre ore: l’equivoco deriva da una durata indicata erroneamente nel programma del Cannes Trade Festival (da non confondersi con il Festival di Cannes che finisce, ogni anno, sotto i riflettori). Sarebbe quindi il caso (?) di riprendere in mano l’uncut del film, che sono circa due ore e mezza di girato, e vederlo (possibilmente non in presenza di minori ed impressionabili vari) prima di emettere un giudizio.

    Tra le ulteriori curiosità, una sequenza pornografica girata da Guccione dovrebbe coinvolgere Anneka Di Lorenzo (modella di Penthouse ed indimenticabile infermiera in Vestito per uccidere); a quanto pare, la donna fece causa al produttore per molestie sessuali e per avergli rovinato la carriera. La conclusione della storia fu piuttosto beffarda, perchè la donna vinse la causa ma non riuscì mai a recuperare i soldi del risarcimento (se non, racconta IMDB, per la quota simbolica di 4 dollari e 6 centesimi).

  • The Lighthouse: alla ricerca del nostro faro psichico

    1890: due guardiani del faro vivono su una remota isola del New England, prendendosi cura della struttura. L’equilibrio sembra destinato a saltare per via del maltempo e delle provviste che scarseggiano…

    In breve. Affascinante nella forma quanto vagamente logorroico nella sostanza, The lighthouse restituisce una dimensione horror primordiale, claustrofobica, d’essai, a volte illuminante, altre un po’ persa nel proprio linguaggio. Un film non banale e destinato, più che altro, a chi cerchi qualcosa fuori norma.

    Diretto da Robert Eggers (e scritto dal medesimo assieme al fratello Max), The Lighthouse è una sorta di piece teatrale al cinema, in cui ovviamente giganteggia il ruolo di Willem Dafoe (che nel teatro molto ha lavorato). Imponente, insopportabile, sorprendente nella sua mutevolezza, solo di pochissimo più convincente del proprio antagonista. The Lighthouse è senza dubbio un horror fuori norma, il che dovrebbe “far bene” al genere per sua stessa natura, dato che la narrazione procede in modo anti-causale (e forse addirittura senza un vero e proprio riferimento cronologico), evocando una meta-narrativa al passato – si racconta o si rivive ciò che si è già vissuto – un po’ come avveniva a Jack Torrance in Shining, condannato a rivivere un passato dimenticato o forse, per dirla diversamente, come se la foto finale del party prendesse vita e mostrasse lo scrittore al party del 1921. In The Lighthouse sembra quasi mancare, peraltro, una trama vera e propria, nel senso che nella prima mezz’ora sembra esserci ma poi non c’è, va in scena un tipo psicologico, poi un altro, poi ancora un’altro che mette in crisi gli altri due. Un espediente narrativo che farà storcere il naso ad alcuni ma che, ad esempio, chi segue il teatro moderno non dovrebbe aver difficoltà a seguire.

    Non sfigura Robert Pattinson nel ruolo del custode gentile e senza esperienza (salvo ravvedimenti come da copione), costretto a sottostare alle angherie del proprio capo per motivi, per la verità, alquanto criptici. Tanto da appensantire vagamente la visione (un’ora e mezza abbondante, che sembra almeno il doppio), tenuta vivida – se non altro – dal dettaglio della sirena, il personaggio che si frappone furtivamente nelle visioni (o forse nella realtà) del Thomas giovane. “Il terzo incomodo” appare fugacemente come una mancata liberazione, un sogno soffocato alla nascita, impossibile da realizzare a livello anatomico quanto, di fatto, ideale assoluto di bellezza non raggiungibile. Anche in questo confermiamo l’impressione che l’unico modo di parlare del film, oggettivamente difficile da raccontare, sia quello di descrivere micro-scene legate convulsamente tra loro.

    Sulla figura della sirena (Valeriia Karaman) vale la pena spendere qualche altra riga: personaggio ovviamente mitologico e derivante dall’Odissea di Omero, in cui la seduzione del canto veniva usata come arma per procurarsi carne umana (erano metà donne e metà uccelli, almeno all’inizio). La sirena eggersiana è più canonica, ricalca quella di origine medievale: fuoriesce dal mare metà donna e metà pesce. In una scena delirante – forse la migliore del film – appare sullo schermo a mo’ di twist e, vale la pena di notare, dal sapore cronenberghiano, dato che il personaggio si scopre dotato di vagina, sogno represso della pulsione sessuale del Thomas giovane. Sogno che viene espresso da un simbolo preciso: la statuetta con cui l’uomo si masturba pensando alla sua figura in carne ed ossa. D’altro canto il Thomas anziano, dualmente, sembra alludere ad una dimensione purificatrice, assoluta, forse anche erotica nella sommità del faro, dove viene intravisto senza vestiti e dove, presumibilmente, aleggia qualche misteriosa creatura marina. Vale la pena di sottolineare – attenzione allo spoiler successivo – il mood con cui finalmente il protagonista raggiunge la sommità della torre, estasiato dalla visione di quella luce da vicino con una colonna sonora che ricorda molto da vicino quella minacciosa e psichedelica di 2001 Odissea nello spazio. Il faro diventa il nuovo monolite, il barlume dell’evoluzione tecnologica a venire, con tutto quello che ne consegue (?).

    Se nell’horror c’è di mezzo il mare, del resto, la tradizione filmica insegna che è quasi sempre un delirio citazionistico che rischia di rimanere lettera morta: fu il caso di Dagon, ad esempio, e dei suoi incubi sottomarini che mai hanno davvero funzionato, senza contare le miriadi di monster movie con creature marine e citando doverosamente il film più di ogni altro, probabilmente, con qualche assonanza con The Lighthouse (mi riferisco a The Fog). La spiegazione del Male in Carpenter, tuttavia, aveva una spiegazione precisa (dei pirati-spettri, forse ricorderete); quella di Eggers al contrario non racconta di un villain, ma sembra alludere al trionfo del senso di colpa, all’annullamento dell’uomo all’interno di azioni che lui stesso, per primo, non comprende. Azioni irrazionali (e spesso violente) che è spinto ad eseguire da un Grande Altro mistico quanto non raccontabile, quasi come se Dio fosse il cinico sperimentatore di un qualche test di psicologia sociale. Che i due guardiani faranno degenerare il rapporto, del resto, è talmente scontato che non dovrebbe nemmeno essere scritto; ma serve comunque un’ancora di salvezza per il pubblico, gran parte del quale a mio avviso potrebbe non cogliere ogni sfumatura o adagiarsi sull’atteggiamento radical chic per eccellenza (far finta di aver capito). Una chiave di lettura puramente nichilista, a questo punto, con la rappresentazione di un uomo-fantoccio che agisce crudelmente e senza un vero motivo – autentico leitmotiv lovecraftiano, peraltro – sembra davvero l’unica possibilità per non uscire dalla sala maledicendo la scelta del film, provando ad interpretarlo in una qualche chiave.

    Il soggetto del secondo film di Eggers è vagamente tratto da Il faro di E. A. Poe, il mitologico (anche qui) ultimo racconto, incompiuto, dello scrittore, in cui manca il quarto capitolo (c’è solo il titolo, e qualcuno ha anche suggerito la fan theory che fosse quella la conclusione della storia, dato che il narratore è morto, in tutti i sensi): i fratelli Eggers tuttavia producono qualcosa di differente dalla storia in questione, incentrato su una via di mezzo tra il thriller psicologico ed il grottesco puro.

    E se fosse un unico personaggio sadico o auto-lesionista?

    Il sospetto che si possa trattare di una sorta doppelganger psichico del personaggio potrebbe, di fatto, avere un suo perchè, quantomeno a cavallo tra prima e seconda parte dell’opera. Ciò tuttavia non spiega parte del resto, impossibile o quasi da decifrare e complicato dalla presenza dell’elemento narrativo a sorpresa (il terzo guardiano biondo). Se non altro resta impresso il leitmotiv: Thomas Howard desidera raggiungere la sommità del faro, Thomas Wake fa di tutto per impedirglielo. Il punto più oscuro del film consiste, di fatto, nell’apparente mutevolezza dei ruoli dei due (tre?): i due Thomas sembrano infatti interscambiarsi i ruoli in modo psicotico, senza preavviso, da vittima a carnefice e viceversa, accomunati dall’abuso di alcol, da un atteggiamento antisociale e da una personificazione prima attiva, poi passiva, poi di nuovo attiva. A complicare ulteriormente il profilo psicologico dei protagonisti si aggiunge una vaga allusione omoerotica tra i due, ed il fatto che in vari momenti il Thomas giovane si faccia chiamare, contraddicendosi più volte, Ephraim Winslow (gli echi lynchiani in effetti non sono da poco: viene in mente, ad esempio, Mulholland Drive e i suoi personaggi che cambiano aspetto).

    Non sputare il tuo rospo, qualunque esso sia.

    Girato in un sulfureo bianco e nero per scelta registica, The Lighthouse consta di soli due attori (più altre due comparsate che, peraltro, sembrano tutt’altro che irrilevanti). Resta sicuramente un film complesso, lontano dal mainstream, concettuale e filosofico, con echi psicologici di vario livello e spesso, c’è da ribadire, avulso ad una forma realmente chiara. In questi casi, come dire, de gustibus: probabile che la mia lettura non abbia convinto tutti e, mi verrebbe da dire, meglio così. Il film si presta a più interpretazioni e credo che in questi casi non sia nemmeno questo, esattamente, il punto. Oppure, parafrasando Lacan, il problema nemmeno si pone, dato che il linguaggio è ambiguo per natura e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite.

    Robert Eggers ha diretto, oltre a questo film, The Vvitch e The Northman.

    Finale del film: spiegazione (avviso spoiler)

    Il film è noto per la sua trama enigmatica e surreale, che può essere interpretata in diversi modi. Ecco una spiegazione generale del finale del film.

    Il film segue due guardiani di un faro, interpretati da Willem Dafoe e Robert Pattinson, che lavorano su un’isola remota nel New England alla fine del XIX secolo. Mentre sono bloccati sull’isola a causa di una tempesta, i due uomini iniziano a mostrare segni di paranoia, follia e conflitto.

    Alla fine del film, la situazione diventa sempre più caotica e instabile. Thomas Wake (Dafoe) cerca di convincere Ephraim Winslow (Pattinson) a salire in cima al faro, che è stato la sua ossessione per tutto il tempo. Quando Winslow finalmente raggiunge la cima del faro, scopre un’immagine terribile: una visione di una divinità marina o di un mostro tentacolare.

    La sequenza finale è aperta a interpretazioni. Alcuni vedono l’immagine come una manifestazione della follia di Winslow, mentre altri la interpretano come una sorta di giudizio divino o punizione per i peccati dei personaggi. Il film suggerisce che la follia, l’isolamento e la paranoia possono portare a visioni e percezioni distorte della realtà. Infine, Winslow uccide Wake e si impadronisce della luce del faro, ma viene attaccato e ucciso da un gabbiano. La luce del faro, che rappresenta un potere e una conoscenza inaccessibili, sembra essere la causa principale di tutta la discordia e della follia sull’isola.

    In generale, il finale del film è aperto a interpretazioni e lascia molte domande senza risposta. Può essere interpretato come una discesa nella follia, una metafora sulla lotta per il potere e la conoscenza, o una rappresentazione di forze soprannaturali. Il regista Robert Eggers ha intenzionalmente creato un film che sfida lo spettatore a trovare il proprio significato nella storia.

  • Under suspicion: scrutando la verità

    Nel cuore di una città affascinante e misteriosa, un rispettato avvocato di nome Henry Durand (interpretato da Hugh Jackman) si trova a un bivio tra il dovere professionale e la moralità personale quando viene incaricato di indagare su Richard Ames (interpretato da Anthony Hopkins), un carismatico uomo d’affari sospettato di aver commesso un brutale omicidio. Ciò che sembra essere un caso aperto e chiuso si rivela ben presto un labirinto di menzogne, inganni e segreti.

    Man mano che Henry Durand interroga Richard Ames, l’atmosfera si surriscalda, e una partita psicologica inizia tra i due uomini. Le verità svelate sono spesso contorte e difficili da decifrare, portando lo spettatore a dubitare costantemente delle motivazioni dei personaggi. Nel corso delle interazioni serrate, emergono passati oscuri, relazioni tese e rivelazioni scioccanti che mettono in discussione la natura stessa della giustizia e della colpa.

    Cast

    • Gene Hackman: Henry Hearst
    • Morgan Freeman: Capitano Victor Benezet
    • Thomas Jane: Ispettore Felix Owens
    • Monica Bellucci: Chantal Hearst
    • Nydia Caro: Isabella
    • Pablo Cunqueiro: Detective Castillo

    Curiosità:

    • Il film “Under suspicion” è un remake del film francese del 2000 “Garde à vue”.
    • La chimica tra Hugh Jackman e Anthony Hopkins sullo schermo è stata particolarmente acclamata dalla critica, aggiungendo tensione e intensità al confronto tra i loro personaggi.
    • La regia attenta e lo stile visivo distintivo del regista hanno contribuito a creare un’atmosfera di costante tensione e sospetto.

    Produzione:Under suspicion” è stato diretto da un regista rinomato per i suoi thriller psicologici e complessi intrecci di trama. La produzione ha fatto affidamento su location suggestive che hanno contribuito a creare l’ambientazione tetra e sfuggente del film. La sceneggiatura è stata raffinata per accentuare i dialoghi taglienti e gli scambi intensi tra i protagonisti. La colonna sonora originale, composta da un maestro della musica cinematografica, ha ulteriormente amplificato l’atmosfera tesa e ha aiutato a guidare gli spettatori attraverso i momenti di sospetto e incertezza.

    Under suspicion è un’esperienza cinematografica coinvolgente che sfida il pubblico a mettere in discussione la realtà e ad esplorare i confini etici della giustizia. Con un cast stellare e una trama avvincente, il film offre uno sguardo penetrante nel lato oscuro dell’animo umano.

  • Tutti i colori del buio: l’Horror policromatico di Sergio Martino

    Una donna sopravvive ad un incidente stradale, ed inizia ad essere perseguitata da una setta satanica.

    In breve. Un Sergio Martino delirante ed onirico, a raccontare una storia accattivante di manipolazione e sensualità.

    Forse è tutto un incubo.

    Tutti i colori del buio è uno dei film di Sergio Martino più noti nel panorama del cinema italiano di genere. Un genere cupo, introspettivo e pieno di sorprese come ormai (purtroppo) non si usa produrre più. Ambientato nella Londra anni 70 e apertamente figlio di quell’epoca, vede tra i protagonisti Edwige Fenech e Ivan Rassimov, entrambi interpreti al di sopra delle righe.

    Jane (la Fenech) inizialmente ha un tremendo incubo nel quale vede una donna incinta uccisa su un lettino, un’anziana signora che la fissa, un orologio senza lancette ed un misterioso uomo dagli occhi azzurri (Rassimov). Quest’ultimo, in particolare, sembra perseguitarla dal sogno alla realtà, trovandoselo così in ogni luogo che frequenta, compreso lo studio dello psicanalista che la tiene sotto osservazione.

    Almeno questa è la sensazione che abbiamo nella prima parte del film, dato che le debolezze di Jane emergono lentamente a mostrare un personaggio fragile e facilmente manipolabile. Per cui le sue debolezze, tenute un po’ superficialmente a bada dal pragmatico marito, diventano bersaglio ideale per la vicina della donna, che è adepta di una setta satanica e si offre di aiutarla. Superata l’iniziale riluttanza, Jane si trova coinvolta in un rituale satanico nel quale il “santone” approfitta del proprio carisma per farsela e – neanche tanto strano a dirsi – “liberarla” temporaneamente dalle sue inibizioni e tormenti interiori. Ovviamente non finisce qui: Jane custodisce dei ricordi terribili che riguardano il suo passano, uno dei quali è legato strettamente all’uomo dagli occhi di ghiaccio…“…ma tu non muoverti da casa!”

    Il misterioso individuo continua infatti a perseguitare Jane (almeno è quello che lei crede di vedere, essendo la trama perennemente in bilico tra incubo e realtà). Dopo qualche ulteriore sviluppo della trama, tra cui un omicidio commesso (?) dalla protagonista stessa, si scopre che l’uomo che la perseguita brandisce lo stesso pugnale con il quale ha ucciso la madre di lei, anch’essa coinvolta nella setta. Inoltre Jane ha perso il proprio figlio a causa di un incidente stradale causato dal suo attuale marito, il che spiega il trauma di natura sessuale e la diffidenza verso il consorte. Consorte che, in barba a qualsiasi sospetto lo spettatore possa avere avuto, è l’elemento decisivo per arrivare al finale.
    L’ottima musica in stile prog-settantiano (Bruno Nicolai), con tonalità simili a quelle che possiamo sentire nel repertorio fulciano ed argentiano dello stesso genere, corona un cult thriller morboso e con diverse venature orrorifiche, sempre dosate con giustezza. Nel finale esce dunque fuori l’inaspettata verità, ovvero il marito di Jane ha ordito egli stesso un piccolo complotto al fine di far intascare una cospicua eredità alla moglie, arrivando a fare fuori la cognata. Questo basta a spiegare i continui dubbi ed insicurezze della protagonista, anche se a questo punto il resto della vicenda (esclusa la chiamata dell’avvocato a Jane senza dare ulteriori spiegazioni, quasi messa lì per essere dimenticata) è completamente collaterale alla storia stessa.
    Senza dubbio un film molto ben riuscito che piacerà ai cinefili incalliti – e a chi cerca film “fuori dalle righe”.

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