Nel Texas degli anni ’70 avviene la fuga di quattro ragazzi ed un’infermiera da un ospedale psichiatrico: uno dei quattro è il feroce Leatherface da adolescente.
In breve. Un piccolo capolavoro dell’horror moderno: frenetico, imprevedibile, ricco di citazioni e mai scontato. Prequel dell’originale Non aprite quella porta e sostanzialmente fedele allo stesso, ne esce fuori come saggio intelligente quanto feroce del genere.
È davvero incredibile quello che sono riusciti a fare Bustillo/Maury in questo film: riprendere un cult sacro con tanto di ambientazione ed imprecazioni tipicamente USA, girando l’intero film in Bulgaria (per ragioni di budget, a quanto pare) e farlo sembrare credibile. Se il film di per sè non è piaciuto a troppi fan della saga inventata da Hooper (i commenti su IMDB sono perlopiù impietosi), c’è da dire che lo stesso regista compare in veste di produttore esecutivo, accreditandosi assieme a Kim Henkel come autore di soggetto e sceneggiatura.
Abbastanza per non temere un reboot o prequel della peggior specie, insomma, anche perchè l’horror di Alexandre Bustillo e Julien Maury lo conosciamo, ed è almeno in parte in linea con quanto faceva l’Hooper dei tempi d’oro (basti pensare al celebre A l’interieur, o anche a quel Livide passato un po’ in sordina anni fa).
Quello che vediamo in questa sede, del resto, è una ricostruzione fedele dell’antefatto di Non aprite quella porta, a partire dall’ambientazione texana a finire alla casa dei Sawyer, la famiglia di psicopatici la cui residenza è stata rifatta sulla base di quella realizzata per il cult del 1974.
C’è tutto quello che ci si aspetterebbe: prima viene mostrata l’infanzia traumatica di Leatherface, costretto a commettere delitti fin da ragazzino: poi si passata ad un ospedale psichiatrico, nel quale le identità dei ragazzi sono state cambiate al fine ridurre le possibilità di contatto con le famiglie di origine. Un espediente furbo e funzionale per ottenere un effetto di tensione incredibile: fino alla fine, infatti, non sappiamo chi, tra quei giovani psicopatici, sia Leatherface. E l’unico modo per scoprirlo è quello di guardare il film per intero, sopravvivendo al consueto (per i registi) tasso di gore e violenza: una mattanza crudele ed imprevedibile, che passa per citazioni più o meno clamorose di cult del passato (la scena della rapina di Pulp Fiction, ed un raggelante tributo a Nekromatik di Buttgereit), in grado di raccontare, almeno in parte, come il miglior road movie la fuga dei ragazzi dall’ospedale.
Lo spirito della pellicola originale sembra passare intatto, per quanto l’idea che due registi francesi abbiano ripreso una vecchia saga horror americana possa sembrare bizzarra: eppure è un buon horror. Se quello di Hooper era genuinamente splatter, b-movie e politico quanto basta, quello dei francesi possiede sicuramente più budget, ma è altrettanto cruento quanto focalizzato su una follia generalizzata, senza risparmiarsi qualche tocco di classe (l’osservazione su come sia facile trovare armi in Texas, su tutti). Non solo, quindi, il body count è implacabile (22 vittime in tutto il film), ma ogni tentativo di sottrarsene è vano. Leatherface è anche uno dei pochi horror in cui i villain sembrano moltiplicarsi e proliferare all’infinito: sono crudeli tutti, dalla famiglia ai ragazzi rinchiusi nell’ospedale, lo sono i medici (che praticavano, all’epoca, l’elettroshock), lo sono i poliziotti e lo sceriffo accecato dal desiderio di vendetta (uno stereotipo che più americano non si può, in effetti). L’unica figura positiva del film è proprio la bella e mite infermiera (Lizzy), che assisterà ad una mattanza senza tregua fino all’imprevedibile, raggelante conclusione del film.
Proprio sul finale è opportuno spendere qualche parola, trasgredendo la regola generale che, su questo blog, evita gli spoiler come politica editoriale: per una volta penso si possa fare un’eccezione. Dopo aver costruito un’intreccio semplice e scorrevole, l’identità di Leatherface viene finalmente svelata – ed anche il motivo della sua faccia sfigurata. Nonostante Lizzy sia riuscita a cogliere qualcosa di umano dentro Jedidiah Sawyer, la furia omicida si scatenerà anche contro di lei. A questo punto maschera di pelle umana che comporrà poco dopo (spaccando lo specchio dopo averlo fatto) è appena stata ricucita, ed è composta da due pezzi: la parte superiore è del viso dello sceriffo, quella inferiore è di Lizzy (che, infatti, trucca con il rossetto). Ecco come nasce “faccia di cuoio”: dai visi delle persone che hanno più segnato la sua esistenza. Nel mentre, ascoltiamo le note di It’s over di Patti La Salle, col suo testo It’s over that’s all there is no more lonely tears a creare un contraltare struggente quanto terrificante.
L’equilibrio perfetto per un horror, insomma – in grado di mostrare la natura feroce del protagonista e quell’unico, traballante barlume di umanità rimastagli, ripensando alla comprensione di Lizzy che ha perso per sempre. Del resto, nel finale alternativo presente nel blu-ray, e riproposto per primo da Bloody Disgusting, la ragazza non viene decapitata bensì imprigionata tra gli altri “cimeli” della casa: e non solo Leatherface le passa la sega elettrica tra le gambe, ma chiarisce ancora più inequivocabilmente dove abbia preso parte della sua “maschera in pelle”.
Leatherface è l’ottavo film riconducibile alla saga, ed è anche l’ultimo film prodotto da Hooper, che verrà a mancare nell’estate di quell’anno per cause naturali.
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