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  • E venne il giorno: il virus che induce al suicidio di Shyamalan

    E venne il giorno: il virus che induce al suicidio di Shyamalan

    Un insegnante di scienze, assieme alla moglie e ad una ragazza lottano per sopravvivere a un morbo che sembra causare il suicidio dei contagiati.

    In breve. Piccolo saggio post-apocalittico del 2008 che, rivisto oggi, conferma le perplessità della critica e del pubblico anche all’epoca della sua uscita.

    Guardare E venne il giorno di M. Night Shyamalan nel 2020, in tempi di Covid-19, può assomigliare più ad una mission impossible che ad altro. Se i toni di questi film di 12 anni fa, infatti, sono apertamente catastrofici, e parlano di un’umanità preda di un misterioso “qualcosa” che ne induce il suicidio – Suicide Club era già uscito nel 2002, tutto sommato – il tutto crea un’atmosfera che, a dirla tutta, avremmo già visto in quasi tutti i film del genere. Traffico bloccato, strade semideserte, gente rigorosamente morta (vedo la gente morta, cit.), morente, moribonda o meditabonda, un eroe “della strada” che sembra destinato a salvare il mondo. Il problema di fondo del film, al netto di un’intensità che sul momento non si discute, è che lascia poco o nulla allo spettatore, rendendo la visione di b-movie a tema virus (un genere che rimarrà tabù per molti anni, quasi peggio dei cannibalici, a mio modo di vedere) quasi preferibile e più accattivante, a confronto.

    Parliamo di cose già viste, che hanno certamente costituito parte dello Zeitgeist dal 2000 in poi, passando per vari titoli pop come ad esempio 28 giorni dopo o l’ancora più incisivo The divide. Mettere a paragone le varie produzioni di questo tipo, peraltro, appare come un’impresa ai limiti dell’apocalittico (tanto per dire la ricorsività, a volte), anche perchè si tratta di film prodotti con intenzioni, budget e “spiritualità” quasi sempre diverse l’una dall’altra. Conosciamo bene, a questo punto, la coralità e la coerenza delle opere di Shyamalan in generale: questo film la coglie appieno per quanto, alla prova dei fatti e al netto della spettacolarità visiva (peraltro neanche marcatissima), l’intreccio si riveli un pochino debole.

    Che altro dire? Possiamo anche fare finta che le candidature di “E venne il giorno” ai Razzie Awards 2008 siano state esclusivamente spocchia da intellettuali cinefili, perchè non è questo il punto: piuttosto, come nella tradizione dei film riusciti a metà, E venne il giorno scomoda un apparato universale che fa appello alle più profonde paure dell’uomo (e questo va benissimo), ma poi le risolve in una bolla di sapone (una didascalica rivolta della natura contro l’uomo, sia pur contestualizzando al 2008 e senza aggiungere un dettaglio “di quelli belli”, un si po’ sentì).

    Alla base dell’intreccio vi è la realtà scientifica (e psicologicamente analizzata in più contesti) dell’effetto spettatore, secondo cui maggiore è il numero dei presenti in una situazione di pericolo, minore è la probabilità che qualcuno di loro presterà aiuto alla persona in difficoltà o, peggio ancora, in pericolo di vita. Un principio sul quale si basano, del resto, la quasi totalità dei film di zombi di ogni ordine e grado, anche quelli che non scomodano il pessimismo antropologico alla Romero. Qui, semplicemente, non c’è abbastanza “carica” perchè il tutto possa detonare in un film realmente memorabile. “E venne il giorno”, per la cronaca, è stato girato in soli 44 giorni sfruttando quasi esclusivamente esterni (ben l’85% delle riprese, secondo IMDB).

    Vengono meccanicamente in mente i sempiterni anni 90, in cui uscì il video di “Just” dei Radiohead diretto da Jamie Thraves, caratterizzato da un mood probabilmente simile: la gente si sdraia dopo essersi fatta bisbigliare qualcosa nel video, che il pubblico non vedrà mai. Anche lì un clima “preoccupante”, nessuno sa perchè succeda quello sta accadendo, ma è la realtà. Un po’ come dice la tagline del film, insomma: “It’s Happening“, che poi sarà usata anche da altri film del regista come Signs. Il che è un po’ quello che abbiamo vissuto un po’ tutti in questo 2020, se vogliamo. E che questo film, di fatto, sembra vagamente “miope” nell’immaginare o aver reso in qualche modo suggestivo.

    Affermare che “E venne il giorno” sia stato un gran film, del resto, significherebbe fare un torto e non poter rendere omaggio ai film più sopra le righe del buon Manoj Nelliyattu Shyamalan, la cui migliore dimensione resta quella, a mio modesto avviso, di Unbreakable – Il predestinato, film per molti versi sorprendente rispetto all’epoca in cui uscì.

  • Non aprite quella porta – Parte 2: quando Hooper reinventa Leatherface

    Sono passati molti anni dagli eventi del primo film, ma la famiglia di Leatherface sembra essere ancora in circolazione: ad affrontarli saranno la DJ di una radio locale ed uno sceriffo in cerca di vendette personali.

    In breve. Piaccia o meno è il seguito (ufficiale) di Non aprite quella porta: in breve, poco o nulla è rimasto dell’originale, e ciò che era orrore da documentario diventa horror grindhouse. Difficile dare un giudizio certo, anche se fan e critica propendono per la stroncatura.

    Il caso è più unico che raro: un regista di uno dei più famosi film del genere, amato da generazioni e difficilmente criticabile sotto qualsiasi punto di vista, smantella pezzo per pezzo la sua storia e la prosegue assumendosi, nel farlo, il rischio di rendere la saga un polpettone gore anonimo e incolore. A ben vedere (e a confronti di tanti altri squallidi epigoni) questo film ha anche dei pregi, che certo usciranno fuori soltanto negli ultimi tre quarti d’ora – momento in cui la storia riprende ritmo e si ravviva – e che sono tipici di un b-movie pieno di splatter, con qualche buon momento di tensione e tutto sommato gradevole.

    Criticare Non aprite quella porta – Parte 2 fa parte dello “sport nazionale” degli amanti dell’horror per una varietà di motivi: alla base c’è un problema di mancata continuity. L’introduzione fa infatti presagire un seguito sulla totale falsariga del capolavoro precedente, ma non è così: Hooper non ha mai amato ripetersi, ed opta per un cambio totale di registro. Molti aspetti del film, che risaltano più nella seconda parte del film che nell’interminabile prima, sembrano voler ricalcare la violenza estetizzante ed i deliri quasi cartoonistici di film come La casa o L’armata delle tenebre. E in effetti è facile pensare ai due protagonisti (sceriffo e DJ) come ad un calco di Ash ne La casa 2, se non fosse che questo film è uscito prima di quest’ultimo (e comunque dopo La casa, da cui potrebbe aver preso spunto). È chiaro, a questo punto, che pur non trattandosi di un capolavoro (difficilmente se ne trovano, nell’ambito slasher-splatter in assoluto) molta della fama negativa di Non aprite quella porta – Parte 2 è quantomeno ingiustificata.

    Il film soffre comunque per una sceneggiatura non troppo curata – per dire, si capiscono più i mugugni di Leatherface che certe frasi pronunciate da Drayton Sawyer – c’è qualche doppio senso che probabilmente si perde nella traduzione, c’è la scelta (opinabilissima, della serie come vi viene in mente) di chiamare Leatherface “Faccia di pelle” nel doppiaggio italiano – che sarebbe come chiamare Incubo Freddy Krueger o Michele Miei Michael Myers – la stessa scelta della protagonista convince come scream queen più alla fine che sulle prime. Nulla da dire sul ruolo assegnato a Dannis Hopper, per inciso, semplicemente perfetto – e calato alla grande – nella parte del “giustiziere”.

    Per il resto, è un horror splatter non eccelso ma onesto, che richiede la conoscenza del film precedente dato che cerca di allestire evocazioni più o meno sensate della stessa (la cena col nonno ultra-centenario, i cannibali, la consueta porta scorrevole che Leatherface cerca di sfondare, le seghe elettriche che saltano fuori come funghi), senza cercare di ricopiare un capolavoro, e provando a dare un seguito sensato all’incubo della famiglia cannibale. Il film prosegue la storia di Leatherface e del fratello-padre Drayton Sawyer, “il Cuoco” del primo episodio, che ha trovato lavoro come cuoco di una griglieria ambulante, e non è difficile immaginare a chi appartenga la carne cucinata. Nel frattempo la DJ di una radio locale entra casualmente in contatto coi maniaci, e si candida da subito a scream queen della pellicola. La scelta di utilizzare un registro da horror comico / black comedy è criticabile, in effetti, giusto nella soppressione di quel feeling sinistro e documentaristico che caratterizzava Non aprite quella porta. A conti fatti, Hooper sembra anche voler ironizzare sul fenomeno di culto creatosi dall’uscita del film.

    Il regista, abile come pochi a costruire storie terrorizzanti e ad indagare i meandri dell’incubo e dell’irrazionale (come prova dovrebbero bastare la visione 1) dell’originale del 1974, 2) di Quel motel vicino alla palude e 3) dell’ottimo Il tunnel dell’orrore), sembra meno a proprio agio con la black comedy, anche perchè molte delle cose che dovrebbero far sorridere non si capiscono, o passano indifferenti. C’è il lato positivo di una storia semplice ma ben diretta, di villain grotteschi e almeno in parte azzeccati, soprattutto in un crescendo sul finale capace di omaggiare, negli ultimi fotogrammi addirittura il controverso Le colline hanno gli occhi.

    Non è, insomma – come alcuni sono portati a pensare – come se Deodato avesse auto-parodiato il suo Cannibal Holocaust, o come se Wes Craven avesse girato una versione più light di Nightmare facendo passare l’idea rassicurante di dire al pubblico “si scherza, è un film ed il sangue era finto“. Forse Hooper fa in parte questo “gioco”, ma a metà storia sembra ripensarci e da’ all’intreccio la sterzata decisiva: del resto, stiamo pur sempre della storia di uno sceriffo che vuole vendicare il fratello ucciso dalla famiglia di Leatherface (non c’è novità), e che nel farlo coinvolge la DJ di una radio locale che “guarda caso” si troverà a registrare la telefonata di una delle vittime (c’è un po’ di prevedibilità).

    Prendere o lasciare: se volete trascorrere un’ora e mezza di horror ottantiano “leggero”, o scoprire da dove abbia preso ispirazione un film come La casa dei 1000 corpi (da qui Rob Zombi ha preso, direi, a piene mani) Non aprite quella porta – Parte 2 potrebbe fare al caso vostro. Il resto del lavoro di Hooper mi sembra soggetto a valutazioni abbastanza soggettive per cui, visione alla mano – e trattandosi di intrattenimento con poche o nessuna pretesa – ognuno potrà farsi l’idea che preferisce. Rimane la nota stilistica sullo stile recitativo da grindhouse puro, sulle ambientazioni texane e sulle efferatezze mostrate come modello per i posteri.

    Nota di merito di cui si è parlato poco, infine, la colonna sonora del film, che è un discreto mix di gothic e rock new wave che riesce a non passare inosservato.

  • Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Retrospettiva autobiografica di Lothar Schramm, un tassista ed insospettabile serial killer che sta morendo: mediante una serie di flashback vediamo la sua vita e le sue allucinazioni ossessive.

    In breve. Un altro tassello di horror del regista Buttgereit, solo apparentemente più “amichevole” nel formato (rispetto ad altre digressioni filosofico-esistenziali di altri film); nonostante questo, il film è una autentica mazzata in quanto a ferocia ed effetti espliciti.

    Appare difficile dare un giudizio certo su questo Schramm, uno dei film più lineari di Buttgereit ma, al tempo stesso, tutt’altro che appetibili nella forma, quasi sempre esplicita e priva di allusioni: la storia di Lothar si prefigura quasi come una favola nera, con un uomo timido e impacciato segretamente innamorato della vicina che fa la prostituta. Utilizzando un sapiente uso della telecamera ed effetti speciali forse un po’ datati ma, al tempo stesso, decisamente realistici e disgustosi, Schramm esplicita la filosofia esistenzialista del regista, tanto da far sembrare ogni nudità corporea corrispondente ad un’ossessione o perversità, capace di travolgere il protagonista in un vortice di orrore. Alla base di tutto, una frustrazione latente ed un senso di forte inadeguatezza per il mondo reale (“Sono seduto in classe, l’insegnante sta camminando su e giù mentre detta qualcosa. Improvvisamente realizzo che sono completamente nudo. Mi guardo intorno molto intimorito che qualcuno possa averlo visto, quindi lentamente, con attenzione faccio scivolare la mia mano fra le mie cosce ma non c’era niente, assolutamente niente“).

    Girato in 16mm per imprimere un maggiore realismo, il formato diventa anche una scusa per mostrare le peggiori efferatezze senza pietà, comprese sequenze di masochismo davvero estreme e difficilmente visibili in qualsiasi altro horror (quella sul pene, soprattutto, visibile in primo piano perchè lo stile di Buttgereit questo impone). Numerosi i riferimenti ad altri serial killer, su tutti il Lipstick Killer (il killer del rossetto) e qualche riferimento a Jeffrey Dahmer, morto un anno dopo l’uscita del film. Se il primo è noto soprattutto per via della sua ossessione feticista per la collezione di oggetti personali delle sue vittime, quasi sempre di sesso femminile, il secondo lo fu per gli atti di particolare ferocia sulle proprie vittime, aspetto da cui Schramm non è certamente esente. Tuttavia è evidente come Buttgereit abbia sviluppato indipendentemente i caratteri del suo personaggio, facendolo vivere di vita propria e di una certa imprevedibilità.

    La patologia da cui è affetto Schramm è un disturbo antisociale di personalità, caratterizzato da un disprezzo patologico per le regole e le leggi della società, dall’incapacità di assumersi responsabilità e dall’indifferenza e dalla mancanza di senso di colpa nei confronti degli altri, pur soffrendo di base un forte senso di solitudine (che potrebbe un po’ essere la chiave di lettura globale del film). Una forma di schizofrenia che affligge il protagonista, quindi, che appare come vittima e carnefice fin dall’inizio: sappiamo che sta per morire, la sua morte sarà completamente accidentale e quello che vediamo è solo un flashback del suo passato, di come è arrivato lì. Al tempo stesso, il secondo vero personaggio della storia, la prostituta vicina di casa – che sembra più compatirlo e sfruttarlo che esserne realmente attratta, fa emergere tutte le sue debolezze in modo esplicito, ed è questo che causa prima la sua reazione in un climax di ferocia (dall’usare una bambola gonfiabile ad auto-mutilarsi) che poi culmina in ennesimi omicidi.

    Schramm in tal senso è un film decisamente esplicito e davvero per stomaci forti, non annoia e non rischia in nessun caso – se non altro – di lasciare indifferente lo spettatore.

  • Sette Note in Nero: il thiller ispirato a E. A. Poe. Con un finale indimenticabile

    Un giallo-horror di vecchia scuola degno di Edgar Allan Poe, accompagnato da un’inquietante nenia suonata con il piano…

    In breve: un Fulci in gran forma produce uno dei suoi migliori lavori in ambito thriller (che fa coppia con “Non si sevizia un Paperino).

    Si è detto a più riprese che Lucio Fulci ha espresso il meglio della propria arte durante la prima fase delle sue produzioni, ovvero quelle che partono dagli anni 60 per arrivare ai primissimi 80: venti anni di cinema anarchico, lontano dalle classificazioni di genere e che rifiutava orgogliosamente le imposizioni da cinema “commerciale”. Il regista diresse horror violentissimi, gialli inquietanti, gangster-movie, western ma anche commedie satiriche e film di Franco e Ciccio, riuscendo quasi sempre nell’intento artistico di farsi notare, di colpire, di scandalizzare la critica come parte di pubblico. “Sette note in nero” è probabilmente uno dei migliori film mai girati dal compianto regista romano: la storia è quella di Virginia, una sensitiva che da ragazzina, stando a Firenze, aveva previsto – in una specie di allucinazione – il suicidio della madre in Inghilterra. Diversi anni dopo è diventata architetto, ed è fresca di matrimonio con Francesco – impegnato uomo d’affari londinese. Un’ affascinante Jennifer O’Neill interpreta la parte di Virginia, il cui “terzo occhio” continua ad avere, anche in età adulta, visioni inquietanti e non sempre decifrabili con facilità: un po’ come accadrà – qualche anno dopo – al professor Johnny Smith ne “La zona morta“. Questa caratteristica, assieme ad una complessa rete di distorsioni ed incomprensioni temporali, costituisce l’autentico colpo di genio del film, soprattutto nelle “stilettate” finali. Durante un viaggio in macchina Jennifer ha un momento di “buio” e vede uno specchio rotto, i dettagli di una stanza ben arredata (ripresa con un “taglio” tipicamente argentiano) ed uno zoppo che mura una donna anziana: come ne “Il gatto nero” di E. A. Poe, anche qui c’è una vittima umana nascosta all’interno di un muro. Sapendo di non essere ascoltata da nessun altro, decide di rivolgersi ad un amico, ex spasimante e para-psicologo (Marc Porel, il prete di Non si sevizia un paperino). Tornata nella villa del marito, che è lontano da casa per lavoro, scopre che al suo interno molti dettagli combaciano perfettamente con quelli della sua visione: il senso di smarrimento e deja-vu è reso qui in modo davvero magistrale da uno dei migliori Fulci di sempre. Lo specchio rotto, il quadro e tutti gli altri dettagli combaciano pero’ fino ad un certo punto: qualcosa è accaduto, qualcosa deve ancora accadere, e in questo puzzle horrorifico i pezzi si incastreranno perfettamente soltanto nello splendido finale. Un film sceneggiato in modo superbo, ottimamente interpretato dal cast, piuttosto simile nella sua dinamica a “Non si sevizia un paperino” con quel pizzico di sovrannaturale che poi sarà marchio di fabbrica della produzione horror fulciana. Con il suddetto lavoro “Sette note in nero” condivide comunque il senso morboso di inconfessabilità del delitto, il continuo “non detto” che aleggia all’interno dell’opera e la favolosa fotografia da incubo di Lucio Fulci. Un classico in ogni senso, certamente da rivedere e riscoprire oggi dopo oltre trent’anni.

    Il tema di Sette note in nero è stato ripreso recentemente da Tarantino per la “riscossa” di Beatrix Kiddo (Kill Bill).

  • Col cuore in gola: il giallo ispirato alla pop art di Tinto Brass

    Si parte dal riconoscimento in un obitorio del cadavere di un uomo da parte della famiglia. Il responso è inequivocabile: commozione cerebrale in seguito ad incidente stradale. Se i presupposti sono inquietanti – e fanno presupporre un thriller lugubre e sinistro, basta poco per accorgersi del contrario: il tono generale è velatamente ironico, non ovvio, lontano dalla stereotipìa. Le allusioni al mondo della sessualità sono implicite ma presenti: i due protagonisti sono una coppia appena formata, rapita da un desiderio narcisistico di indagare per conto proprio su un delitto e, naturalmente, in misura equivalente da un desiderio sessuale.

    Siamo nel 1967, al cospetto del primo Tinto Brass, che non è ancora quello esplicito che avremmo conosciuto in seguito ma che, senza troppe remore, non lesina sulle allusioni sexy con il consueto stile leggero e scanzonato. Quello di qualche anno dopo Il disco volante e Chi lavora è perduto, quando la svolta propriament erotica (che ha reso il regista celebre a livello internazionale) doveva ancora arrivare, ci si divertiva a sperimentare con il giallo all’italiana, a quanto risulta. Sì, perchè Col cuore in gola è fondamentalmente un giallo thriller con finale a sorpresa (forse, neanche tanto a sorpresa: ma sembra dipendente esclusivamente dal soggetto, che non è probabilmente il top in questa dimensione). Questo film è anche l’unico esperimento di Brass nell’ambito, sulla falsariga delle miriadi che ne sarebbero usciti negli anni settanta, con il vanto di essere addirittura uno dei primi, sebbene diverso dalla norma (che ereditava il mood più dal morboso che da altro) e con una singolare ispirazione di natura pop art.

    Col cuore in gola fa anche pensare ad un film hitchcockiano puro (cosa nemmeno propriamente errata, dato che i protagonisti appaiono perennemente in fuga dal proprio fato, e lo humour sotteso è tipicamente english), ma è anche un film coloratissimo, dai toni altalenanti, in grado di rappresentare uno spettro di emozioni ambivalenti e tipicamente umane: l’empatia, l’amore, l’entusiasmo per una nuova relazione, la simpatia innata dei personaggi, le caratterizzazioni. Un giallo all’italiana privo, in altri termini, della tipica seriosità ostentata dal genere, e con momenti tipicamente brassiani (o addirittura felliniani, verrebbe da scrivere) in cui i personaggi si lasciano andare a manifestazioni dionisiache di vario ordine e grado.

    La storia è quella di un uomo che incontra una giovane donna che ha appena perso il padre, la quale vive con la matrigna ed un fratellastro. La morte del padre non sembra l’incidente che viene annunciato all’inizio, e le indagini personali dei due personaggi cozzeranno con gli interessi di una pericolosa banda di criminali. Ispirandosi al romanzo Il sepolcro di carta di Sergio Donati, edito dai Gialli Mondadori nel 1956 (numero 373), Brass si impegna in una regia ricercata, ironica, a tratti d’essai, ricchissima di primi piani, proto-settantiana nei tempi e nei modi, amante dei primi piani e dei dettagli e che sarebbe facilmente riconoscibile tra mille altre regie. Al netto di qualche piccola ingenuità nella trama (che non rimane particolarmente impressa, di per sè, e non è certo memorabile) il film si regge perfettamente in piedi, per quanto non sorprenda che non abbia avuto successo al tempo della sua uscita.

    Anche senza troppa immaginazione è possibile cogliere dentro Con il cuore in gola almeno un paio di situazioni che richiamano certi gialli argentiani, a cominciare dal protagonista che si improvvisa detective accompagnato da una giovanissima co-protagonista (Ewa Aulin aveva appena 16 anni all’epoca, anche se il suo personaggio afferma di averne 17). L’erotismo è sempre dirompente (e a volte appare vagamente fuori contesto), per quanto non sia ancora quello del Brass che conosceremo da La chiave in poi. Si vive di accenni, brevissime nudità assortite, citazioni di Antonioni en passant, schermi fotografici che diventano lenzuola di un letto, giochi di sguardi dei passanti che seguono una litigata tra due amanti, per poi sorridere e rilassarsi una volta che è tutto finito. La regia è magistrale soprattutto in queste sequenze, e più in generale nella sua straordinaria sintesi tra sperimentazione e pop, un cinema (pseudo)impegnativo che non si sforza snobisticamente di spaccare la testa allo spettatore (in senso figurato, s’intende). Una regia figlia prematura di un Sessantotto che avrebbe di lì a poco lasciato il segno, del quale vediamo le assonanze e le anticipazioni – ad esempio: la sequenza di un dialogo tra i due amanti, che sarebbe fondamentale comprendere, ma viene resa confusa o poco comprensibile dal volume elevato del cinegiornale, il quale racconta conformisticamente della guerra in Vietnam.

    E poi vorrei essere differente, ma non faccio niente per esserlo.

    Col cuore in gola è un adattamento libero dell’opera originale, che Brass ha adeguato alla figura del protagonista (Jean-Louis Trintignant, che recita alcune battute in francese per caratterizzarsi, e che interpreta un ruolo sostanzialmente serioso quanto auto-ironico) mediante due successive revisioni dello script. La location si trova a Londra (nel libro era Roma), nel pieno della rivoluzione culturale, nonché scelta emblematica della libertà artistica (e delle idee politiche) del regista milanese. A detta del Brass dell’epoca, il film è l’equivalente di una sequenza di ideogrammi cinesi, in cui il dettaglio inquadrato vuole rappresentare un concetto più ampio, una raffica di figure retoriche assimilabili alla sineddoche per le quali ci si affida ad una regia veloce, espressiva e multi-dimensionale (multi-dimensionale ad esempio nella sequenza dell’inquadratura da più angolature del protagonista).

    Londra rappresentava ciò che aveva rappresentato in precedenza Parigi: il luogo della trasgressione, della libertà. Stavano succedendo molte cose, in quegli anni. I Beatles erano solo uno di queste. Era il centro urbano più vivace d’Europa (T. Brass)

    Tra case di artisti popolate di quadri, personaggi svampiti o insospettabili, un soggetto sostanzialmente fumettistico (le storyboard che hanno ispirato le riprese sono state realizzate da Guido Crepax: visto oggi, un film del genere potrebbe appellarsi dell’etichetta “cine-fumetto” senza pensare ad un vero e proprio azzardo, almeno quanto lo è stato Lo chiamavano Jeeg Robot), cambi di tonalità di colore, gangster stereotipati, rapimenti, colpi di scena (quello finale è notevole, quanto palesemente annunciato dal dettaglio di un cartello), ambientazione metropolitana, primi piani a gente comune, passioni e intrighi di ogni genere. Sorprende per certi versi come un film del genere sia passato in sordina, così come tutti i lavori sperimentali e pre-erotici del regista. Se non siamo al cospetto di uno dei migliori lavori del suo primo periodo, del resto, poco ci manca.

    Col cuore in gola arriva nelle sale italiane nel 1967, ma non riscuote troppo successo commerciale. Noto anche come  Le cœur aux lèvres e En cinquième vitesse in Francia, dove arrivò due anni dopo, e negli USA, dove venne distribuito con il titolo I Am What I Am e Deadly Sweet.

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