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  • Non fa più ridere, mi spiace: il circo volante colpisce ancora

    Episodio: You’re No Fun Anymore 1.7 (“Monty Python”, Ian MacNaughton, 1969)

    Trasmesso il 30 novembre 1969 e registrato nel mese precedente, l’episodio numero sette del Flying Circus sembra mettere le mani avanti: non fa più ridere come prima, e lo mette in chiaro fin dal titolo. Che poi si tratti del consueto gioco meta-filmico dei Python c’è poco da discutere, e resta inteso che è solo uno scherzo, per quanto le trovate siano forse leggermente inferiori rispetto alla media dei precedenti. C’è comunque da osservare, in questa sede, la presenza di riferimenti specifici all’horror ed alla fantascienza, con un probabile riferimento parodistico alla serie Twilight’s Zone (Ai confini della realtà) e ad un celebre cult degli anni 50, questa volta con Donna Reading – già vista nei film Loophole e Il grande inquisitore – come special guest.

    Camel Spotting ci introduce all’intervista di un avvistatore di cammelli, che ovviamente non è mai riuscito a vederne uno in vita sua. Subito dopo è la volta di You’re No Fun Any More, come accennavo il più classico dei meta-titoli – che si fa ripetere parossisticamente dai vari personaggi, nelle situazioni più diverse e slegate tra loro (incluso quella con un vampiro). La mia idea è che ci fosse consapevolezza, già in questa fase, da parte del gruppo del rischio di ripetersi o annoiare il pubblico, preoccupazione in parte eccessiva ma sostanzialmente confermata dalla seconda metà dell’episodio. The Audit mostra una riunione tra business-men dai toni formali, che diventa immediatamente seriosa ed esasperata per via del furto di … un penny.

    Science Fiction Sketch è un sotto-episodio promettente perchè riguarda, per la prima volta, la fantascienza e gli alieni: i Python decidono qui di distaccarsi dal solito canone legato a situazioni paradossali quanto sempre realistiche, per lanciarsi in una dimensione del tutto nuova – sempre col proprio stile, ovviamente. La storia si ricollega immediatamente al successivo Man Turns Into Scotsman, parodia del classico protagonista della sci-fi impegnato a salvare il mondo dalla minaccia aliena. Minaccia che ha svuotato Londra perchè trasforma, per inciso, gli inglesi in scozzesi con kilt, barba rossa e cognome in Mc. Chiaro che, in questo caso, si gioca su stereotipi più familiari ad un vero british che al resto del mondo, ma lo stile disinvolto del gruppo permette di far passare il tutto, nella peggiore delle ipotesi, come puro non-sense. Al veterano Chapman si affianca poi la Reading, perfettamente calata nella parte della co-protagonista bella e vaporosa (e che non farà altro che guardare la camera ammiccando, tra una battuta e l’altra). Tra l’altro, a questa coppia è affidata una delle più paradossali meta-battute dell’episodio: Qualcuno ha suonato alla porta? No, è solo musica di scena!

    Police station prosegue la stessa storia fantascientifica mostrando una ragazza (interpretata come di consueto da un Python travestito) che va a denunciare la presenza di un biancomangiare (il dolce italiano tipico di Sardegna, Valle d’Aosta e Sicilia) durante una partita di tennis. I toni sono quelli sospettosi e diffidenti (le autorità che non credono alle segnalazioni degli extraterrestri) che si addicono al genere, ma i contenuti delle battute sono ovviamente paradossali. In questa sede il celebre dolce vuole essere una versione parodica dell’alieno arrivato dallo spazio del cult Blob – Il fluido che uccide, un classico del genere a cui questo episodio deve più di qualche dettaglio. Si chiude con Blancmanges Playing Tennis, che mostra apertamente il motivo principale della satira contro gli scozzesi, ovvero che non siano particolarmente forti a tennis (probabile riferimento alle cronache sportive d’epoca, quest’ultimo). Lo scozzese che gioca da solo a tennis si sovrappone alla scritta “non sei più divertente”, ma adesso sappiamo che l’affermazione non è da prendersi sul serio.

    Ancora una volta si confermano l’originalità del gruppo, una regia solida quanto auto-ironica (ad esempio quando zooma senza motivo sulle gambe della Reading) e la capacità di collegare pezzi diversissimi tra loro, senza stonare o sembrare forzato. Tra le curiosità, è anche uno dei pochi episodi della prima serie a non presentare gli intermezzi animati di Gilliam.

    Le 45 puntate del Flying Circus sono disponibili, in inglese sottotitolato in italiano, all’interno di un bel cofanetto in 7 DVD, che trovate facilmente su Amazon: Monty Python’s – Flying circus (complete series).

  • La morte cammina con i tacchi alti: il giallo erotico all’italiana con finale a sorpresa

    Un tale di nome Rochard viene ucciso da un uomo incappucciato: il movente sembra legato ad un tentato furto, così le autorità interrogano Nicole, figlia della vittima e celebre attrice da nightclub. La donna sostiene di non sapere nulla in merito, ma poco dopo l’assassino inizia a minacciarla falsificando la voce mediante un apparecchio elettronico per la gola…

    In due parole. Un thriller all’italiana ambientato in uno scenario da horror classico, con numerosi richiami ai più celebri stereotipi del genere (dinamiche degli omicidi, caratterizzazioni dei personaggi, “scenette” di intermezzo). Questo senza mai abusare del “già sentito”, e presentando piccole variazioni sul tema per un film complesso, avvicente ed altrettanto scorrevole. Finale sopra le righe, con tanto di doppio finale.

    La morte cammina con i tacchi alti” è probabilmente uno dei meglio riusciti gialli all’italiana degli anni settanta, e riesce ad emergere con autorità, incisività e decisione. La trama, costruita sostanzialmente come un poliziesco classico, mostra personaggi apparentemente innocenti e rispettabili, per quanto con un’anima nera che, per alcuni, si rivelerà nel finale. A questo si aggiunge un azzeccatissimo filo di ironia inglese, che riesce a calarsi alla perfezione nel contesto, e soprattutto da parte dell’ispettore di polizia, oltre che dell’immancabile assistente poco sveglio. Nieves Navarro, sensualissima protagonista principale, è perfettamente calata nel proprio ruolo, ed il regista non risparmia occasioni per mostrarne le grazie integralmente; alla donna fanno da contorno svariati personaggi molto ben caratterizzati ed altrettanto avvolgenti.

    Questo per far capire come gli ingredienti de “La morte cammina con i tacchi alti” siano essenziali, ben calibrati e funzionali alla storia, tanto che gli elementi prettamente violenti – per quanto parte integrante del genere – sono ridotti all’osso (l’unica scena gore, di fatto, è talmente cruda che sembra essere stata l’ispirazione delle sevizie psicopatiche del futuro squartatore di New York). Dal canto proprio l’assassino in passamontagna e con gli occhi azzurri (senza impermeabile e cappello nero, tanto per cambiare) mostra la propria identità solo alla fine e questo, naturalmente, costituisce un ulteriore elemento distintivo. Gli elementi del giallo italiano ci sono comunque tutti, a partire dal “doppio ruolo” dei protagonisti a finire col il ritmo, sempre di buon livello ed arricchito da elementi prettamente exploitation (voyeurismo, aggressioni, omicidi e nudi femminili a volte piuttosto gratuiti). Che poi il film sia dimensionato in una direzione rigidamente razionalista (e neanche troppo bizzarra, a ben vedere) non dovrebbe essere una novità per il genere: e proprio nella delineazione del personaggio (e delle sue contraddizioni ambigue) di Nieves Navarro si viene a creare la complessa personalità di una donna, ritratta come in perenne fuga da qualcosa di oscuro e minaccioso.

    Il colpo di scena a metà film, del resto, contribuisce a mettere pepe in una trama che diversamente sarebbe divenuta piuttosto monotona, e questo si sposa alla perfezione con uno dei migliori finali mai concepiti per un film di questo genere nel periodo. Una chicca decisamente imperdibile, in altri termini, che potrebbe aiutare a riscoprire la fama dei giallo-movie presso chi non sia troppo avvezzo alle tematiche ed allo stile.

    “Ma… cos’ha in testa, ispettore?” – “Un cappello”

  • Le orme: un cult anni 70 firmato Bazzoni

    Alice Campos è una traduttrice tormentata da un incubo atroce, che sembra avere riflessi nella realtà; tra i tanti indizi, una cartolina strappata che raffigura l’esterno di un albergo su un’isola sperduta, che la convincerà a recarsi sul posto…

    In breve. Un thriller suggestivo quanto introspettivo, che strizza l’occhio alla fantascienza: da non perdere.

    Le orme: se avete pensato alla band progressive rock nota per l’album Sospesi nell’incredibile, sappiate che si tratta solo di omonimia. Eppure, curiosamente, la protagonista di questa pellicola di Bazzoni (noto anche per Giornata nera per l’ariete, di qualche anno prima) si troverà in una situazione di sospensione intollerabile, una spada di Damocle che pende sulla sua testa e della quale – in modo vagamente kafkiano – non ha idea della natura e delle motivazioni.

    Le orme si caratterizza da subito come buon film – soprattutto perchè vanta uno script solido, tratto dal romanzo Las Huellas di Mario Fenelli, che nulla ha da invidiare ad altri equivalenti lavori su questo genere. Poi la regia è sicura dei propri mezzi ed impeccabile in ogni fotogramma, e questo naturalmente giova alla visione, nonostante alcuni passaggi che strizzano l’occhio al surreale – e a lidi comunque lontani dal mainstream.

    Un’interpretazione magistrale, soprattutto, quella di Florinda Bolkan, immersa in un tessuto sociale che le sembra ostile e che cattura da subito l’immedesimazione dello spettatore. Le orme è una meteora di classe cinematografica assoluta, che si fa strada con grande autorevolezza nel panorama di un genere spesso angusto quanto stereotipato e poco “d’autore”. Un film disponibile in formato VHS – e, da qualche tempo, anche in DVD – per le gioie di tutti i palati underground, per uno dei gialli all’italiana più originali e suggestivi mai girati.

    Tra le sequenze cult, la claustrofobica sequenza dell’astronauta che muore soffocato sulla superficie lunare.

  • Nuda per Satana: il surrealismo fuori dalle righe del 1974

    Un medico ed una ragazza, subito dopo un incidente stradale, arrivano in un castello per cercare aiuto: quello che troveranno sarà decisamente surreale.

    In breve. Un horror-erotico dal registro non banale, con la capacità di impressionare giocando sui contrasti; almeno, nelle intenzioni. Alla prova dei fatti è una sublimazione settantiana del “so bad is so good“: un gotico-porno sul tema del doppio, con pretese surrealiste e abbastanza poco riuscito. Gli inserti hardcore gratuiti, l’insistere su dialoghi ostentatamente lirici, le nudità randomizzate smantellano quasi del tutto l’impianto. Per gli amanti del cinema bis può essere comunque una gradevole esperienza.

    Nuda per Satana rimane scolpito nell’immaginario cinefilo soprattutto per la sua storia, che vorrebbe essere un singolare esperimento tra horror ed erotico (alla Jess Franco, per intenderci), e che possiede poco terrore e troppo osè. Tanto per proporre qualcosa di diverso dalla solita elencazione di difetti, partirei proprio dalla parte erotica: quella che fa diventare il film “di cassetta”. Fin dal titolo, del resto, si intuisce di un legame con suggestioni liberatorie ed occulte, e questo viene preannunciato dalle primissime sequenze – nelle quali non si perde occasione per mostrare la Calderoni nuda, una vera e propria costante della pellicola (anche quando sarebbe tutt’altro che necessario).

    Si è molto discusso e sbeffeggiato questo lavoro(cosa che, personalmente, non accetto di fare quasi per nessun film) proprio a cominciare dagli inserti hardcore, che spiazzano il pubblico – e per ragioni tutto sommato lecite, che valsero il divieto ai minori, ovviamente. Del resto si tratta di un erotismo distaccato, da VHS, ostentatamente esibizionista quanto impacciato; in un bizzarro equilibrio tra nudo artistico e porno classico, un insolito sesso esplicito, a più riprese, finisce per padroneggiare le scene senza un vero motivo. Se si volesse cercare un difetto anche qui, dovremmo parlare di gestualità che – il più delle volte – emulano il piacere, e che (soprattutto oggi) appaiono molto poco coinvolgenti. Il sesso nel film è un comparto staccato dal resto, e a poco o nulla serve che venga raffigurato come momento onirico o liberatorio.

    Quello che manca più concretamente in Nuda per Satana, del resto, è un solido tessuto di connessione tra le scene hard ed il resto della storia: storia che, sebbene suggestiva dalle premesse, risulta fastidiosamente spezzettata in più punti, e dal ritmo troppo altalenante. Avrebbe forse funzionato se si fosse basata su una dichiarazione di intenti meno seriosa, come accade ad esempio in tanti film di Russ Mayer o Tinto Brass (per i quali il sesso è spesso delirante, ma è anche giocoso), o al limite nel divertimento citazionista del Rocky Horror Picture Show (che nomino perchè, probabilmente in modo incidentale, Nuda per Satana mi pare ne condivida alcuni snodi narrativi: l’incidente di una coppia, un maggiordomo grottesco, un padrone di casa dal singolare fascino, una ambientazione gotica surreale, vari personaggi disinibiti contrapposti a due protagonisti sessualmente inebetiti dalle convenzioni). Se la parte erotica fosse stata meno ostentata, pertanto, Nuda per Satana avrebbe (forse) meglio fatto da contraltare alla componente orrorifica: ma nemmeno quest’ultima componente funziona del tutto, e così il film ne risente in ogni singolo fotogramma. Spaventarsi in questo film, per intenderci, è piuttosto arduo, e lo è almeno quanto provare a pensarlo in qualche modo eccitante. Peccato, anche perchè – al netto del resto – le ambientazioni e la colonna sonora (un delirio psichedelico a suo modo memorabile) erano particolarmente azzeccate. E, per inciso, su questo genere si è visto molto, ma molto di peggio.

    L’idea dei “doppi”, del resto, e l’ambientazione surreale non erano niente male: siamo negli anni ’70, ed i richiami a combattere le convenzioni e la repressione sessuale erano all’ordine del giorno. Il periodo, le masturbazioni mentali dei critici d’epoca e il pubblico a caccia di erotismo facile li caldeggiavano parecchio, per cui potevano tranquillamente starci. Per dovere di cronaca, quindi, Batzella un onesto tentativo lo fa: riprese sulfuree, qualche inquadratura azzeccata (e molte curiosamente fuori asse), suggestive ambientazioni fumose ed un montaggio/effetti speciali che a volte funzionano … e a volte no (su tutti, i vestiti di Susan che spariscono “al volo” e l’indimenticabile ragno gigante, visibilmente finto).

    Il gioco regge ancora meno la prova del tempo, con un livello narrativo non lineare quanto non troppo curato, per non parlare delle interpretazioni discutibili di quasi tutti i personaggi – unica vera eccezione la protagonista, che sembra l’unica nel giusto feeling con la storia. C’è anche spazio per due doppi personaggi (Dr. William Benson / Peter e Susan Smith / Evelyn), e questo aumenta ulteriormente l’aura mitologica del film. Nonostante tutto, Nuda per Satana rimane un cult da riscoprire: ma questo solo per chi ritenga divertente seguire il delirante “flusso di coscienza” che accompagna la narrazione, quei primi piani inspiegabili, le criptiche riflessioni dei personaggi (che vorrebbero sembrare saggi esistenzialisti, ma non lo sono), e la filosofia misticheggiante che dovrebbe accompagnare il tutto. A suo modo, un film da ricordare.

  • Un po’ di pace, ai confini della realtà: il mediometraggio di Wes Craven

    Wes Craven ha diretto – direi magistralmente – questo secondo episodio della serie: il tema trattato rimane sulla falsariga di quanto visto ad esempio in “Tempo di leggere”, e possiede diversi sprazzi che sono poi i tratti caratteristici del cinema di questo grande artista.

    In breve: uno dei miei episodi preferiti della serie, sia perchè opera del regista di Nightmare, sia perchè ricordo ancora (è un fatto personale, mi rendo conto, ma conta parecchio) quanto mi fece paura quando lo vidi da ragazzino.

    I registi horror in genere trattano alla grande la fantascienza: lo ha fatto egregiamente Carpenter, lo ha fatto Hooper, non poteva certo mancare il contributo di Craven. La storia è quella di una donna comune, stressata dalla propria famiglia e da una vita che sembra non riservarle qualche minuto per se stessa. Il ritrovamente di un vecchio orologio seppellito nel proprio giardino regala un dono inatteso e graditissimo alla protagonista: la capacità di fermare il tempo. Così, non appena le cose si mettono male per lei, Penny non deve fare altro che avere addosso lo strano aggeggio e chiedere letteralmente al mondo di fermarsi. L’idea funziona davvero, e sembra non conoscere limiti: basta file snervanti per la spesa, basta persone con cui discutere porta a porta, basta battibecchi familiari per cucinare, pulire o andare a fare la spesa.

    L’episodio è ricco dei dettagli caratteristici del cinema di Craven, e si riconoscono vagamente alcuni aspetti che possiamo legare al leggendario Nightmare, uscito appena un anno prima (1984) di questo episodio. Se a questo aggiungete gli ingredienti tipici della sci-fiction apocalittica classica (su tutti “L’ultimo uomo della terra“), un’ironia di fondo sullo stress della vita moderna ed un finale con sorpresa, con tanto di critica sociale da piena guerra fredda, si ha di fronte quasi un capolavoro.

    La condanna ad un’eterna solitudine vista dagli occhi di uno spettatore preoccupato, come lo era all’epoca, dalla Guerra Fredda e dall’atomica. Probabilmente uno dei migliori episodi della serie mai realizzati, nonostanza la scarsità di mezzi e qualche trucchetto che fa sorridere: il missile del finale è stato realizzato in modo un po’ posticcio, e la falce e martello rossa ben in vista è un messaggio simbolico chiaro (pure troppo, per un americano dell’epoca). I fermo-immagine degli scenari, comunque, con la protagonista che va a spasso nel “tempo congelato” – senza poter cambiare gli eventi ma soltanto rallentandoli, rimangono da antologia. Masterpiece!

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