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  • Giallo: il film di Dario Argento quasi da riscoprire

    Giallo: il film di Dario Argento quasi da riscoprire

    Nella Torino dei giorni nostri un maniaco rapisce e sevizia svariate donne fingendosi tassista; un poliziotto, assieme la sorella di una delle rapite, si mette sulle sue traccie…

    In breve. Scordatevi i fasti del passato, gli ascensori che decapitano e le coltellate coreografiche: “Giallo” è un prodotto nella media, molto diverso da quello che vi aspettereste dal Maestro romano – Questo per via di una sorta di influenza “televisionabile” e “americaneggiante” che ne condiziona l’andamento, e che globalmente ne snatura l’aspetto più seventies. Secondo molti, ciò avrebbe un’accezione totalmente negativa: a mio avviso non è così, e  pur non trattandosi di un lavoro propriamente memorabile c’è piena consapevolezza di quel che si fa. I fan non possono prescindere per completezza, tutti gli altri – per quello che posso capire – faranno volentieri a meno.

    La crisi creativa! Il cinema horror/thriller italiano è morto e sepolto (voi cosa avete fatto per aiutarlo, finora?), non si fanno più i film come una volta, una volta … che c’erano bei lavori, caro Lei! E poi: gli amici sono degli stronzi, si stava meglio quando si stava peggio, il metal non è musica ma rumore, non c’è più il-rispetto, una volta le persone si volevano più bene, era meglio questo attore di quello, “la doppia parte no, che poi si capisce subito“, la trama, uh! … com’è scontata, l’interprete femminile era “più bella che brava” (cit.). E se non vi basta, in “Giallo” c’è pure il tremendo “finale voluto dalla produzione”, una cosa che potrebbe scomodare addirittura le vicissitudini di Ridley Scott con il suo Blade Runner. Roba su cui, insomma, i critici costruirebbero volumi enciclopedici, e non sembrerebbero esserci dubbi (per queste ragioni) sul fatto che questa pellicola italo-americana vada semplicemente evitata. Eppure, incredibilmente, se lo si guarda col piglio corretto qualcosa non torna: Giallo/Argento non fa schifo. Certo, rimane un lavoro costruito con un ritmo altalenante, che vive alcuni momenti di discreto livello ed altri decisamente sottotono, e che qualcuno ha definito troppo televisivo: non è una cosa così orribile, in fondo anche i primissimi di Argento lo erano (“La porta sul buio“), e soprattutto il livello di gore di certe sequenze è fuori dal filmabile e questo, trattandosi di Dario Argento, non può che essere un bene. Manca qualcosa da “Giallo” – e su questo non ci piove, ma a ben vedere si tratta solo del feeling settantiano/ottantiano che ha ceduto inesorabilmente al “passo coi tempi”, producendo qualcosa di lontano dal cult ma che, globalmente, non è onesto stroncare in toto. La parola magica, in questi casi, è proprio questa: rassicurare. I fan di Argento (tra cui mi annovero), avvelenati da decenni di porcherie propinate a mo’ di cinema del terrore, vogliono essere rassicurati. Vorrebbero che il Maestro del Brivido gli desse esattamente quello che si aspettano: un nuovo Profondo Rosso, un Suspiria rivisitato, un Phenomena, un Inferno old-school. In molti casi queste persone, malate di “nostalgismo” cronico, vorrebbero il ritorno del 1970, del giradischi, delle sigarette nei cinema, degli occhiali 3D di cartoncino, dei capelli a microfono, magari pure delle TV valvolari e dei Black Sabbath versione giovanile. I nostalgici del resto, a forza di esserlo e di martellarsi gli attributi, paradossalmente perdono di vista quello che desiderano, finendo così per soffrire in eterno a vuoto. A me, insomma, la crociata intellettualoide anti-argentiana degli ultimi anni, pur dovendo riconoscere che il tempo passa e tende ad infiacchire, mi pare alquanto fuori luogo: “Giallo” è un prodotto diverso dal solito che si difende dignitosamente, al contrario di altri epigoni sopravvalutati. Il passato non si tocca, ma adesso è inutile ripetersi, vediamo cosa altro si può fare: e gli ultimi film di Argento (con poche eccezioni) a me trasmettono esattamente una voglia di rinnovare i canoni.

    Un balzo indietro nel tempo sarebbe invece del tutto irragionevole, e in definitiva “Giallo” non è assolutamente la porcheria immonda su cui avete potuto leggere. Con questo non voglio difendere acriticamente un prodotto di questo tipo, che dal canto suo possiede una trama troppo poco succulenta rispetto a quella dei succitati capolavori, oltre ad essere contaminata da un insidioso tubo catodico che la rende in troppi momenti decisamente fiacca. È un peccato peraltro, perchè l’inizio promette bene, citando il taxi di Suspiria ed il teatro di Profondo Rosso: “Giallo” suggerisce sul momento una sorta di “Non ho sonno” riveduto e corretto, e quest’ultimo rimane forse l’ultima vera espressione di un cinema che non esiste più. Non fai in tempo a fregarti le mani che arriva il colpo basso che non ti aspetti: e non mi riferisco all’identità dell’assassino, svelata allo spettatore con una naturalezza terrificante rispetto alla cura maniacale nel nascondere dettagli a cui siamo stati abituati in passato. Scopri piuttosto che il colore del titolo è da intendersi in senso letterale (fa riferimento alla pelle dell’assassino) e non meta-cinematografico – orbene, scordatevi Lenzi, Bava, Fulci e compagnia perchè non si tratta dell’opera citazionista a cui potevate aver pensato. No, non è l’ennesimo revival settantiano, anche se c’è qualcosa che arriva a prendere ispirazione da alcune caratterizzazioni del passato: l’assassino, per esempio, finisce per ricordare altri suoi omologhi di metà anni 80, essendo un emarginato che uccide per frustrazione e soprattutto per solitudine. Alcuni da sprazzi di torture porn moderni e da thriller commerciali “in prima serata su RaiDue” chiudono il cerchio, e rendono il film un lavoro difficile da inquadrare e, al tempo stesso, troppo scontato da stroncare. Roba non eccelsa nel suo complesso, di fatto, quantomeno in linea con alcune delle uscite di successo del periodo e qualche richiamo a film come “Il collezionista di occhi“. Spero di aver reso l’idea di questa singolare pellicola che, con pochi pregi e vari difetti, si trascina per un finale mediocre ma, a suo modo, abbastanza imprevedibile. Nonostante un certo livello di piattume la cruenza di certe scene è tornata ad essere intatta, e questo farà piacere a molti, anche se il contesto sarà comunque discutibile fino alla fine. Chiaro, c’è un pesante tocco esterno (gli americani) e si nota, ma la cattiveria ed i primi piani che hanno reso famoso Argento ci sono, anche se passano quasi inosservati e senza lasciare propriamente il segno.

    Altro che la webcam del Cartaio: i momenti di tensione sono avari ma dosati con fermezza (anche musicalmente) e posseggono una carica violenta, visionaria e morbosa che a me ha ricordato l’atmosfera chirurgica di Shadow e, verso la fine, il celebre clarinetto di “Non ho sonno”; sempre sprazzi leggeri, mai evocazioni vere e proprie. Impossibile non citare la cruenta aggressione del macellaio (il passato dei due antagonisti è filmato con gran classe), oltre alle feroci torture vagamente – e senza scopiazzare – alla Hostel. Non malissimo, quindi: sotto il profilo prettamente gore troverete sangue, labbra e dita tagliate, siringhe anestetiche in primissimo piano oltre ad un senso di “vedo-non vedo” che potrà risultare atipico allo spettatore medio di Argento ma che, in tutta sincerità, non è quella cosa immonda di cui troppi hanno blaterato senza badare al film stesso. Nessuno, peraltro, ha detto una parola su un gruppo di attori decisamente superiori alla media, oppure sull’interessante doppia interpretazione di Adrien Brody, troppo occupati come erano a “denunciare” in modo saccente che ci sarebbe uno spoiler nei titoli (?), e che si capisce subito come stanno le cose (molte grazie della precisazione, del resto l’assassino lo vediamo in faccia da subito … magari non era questo il punto). Prendo le distanze da chiunque, a questo giro: da chi non lo ha visto pregiudizialmente, dai siti horror che non hanno (forse snobisticamente) avuto la voglia di recensirlo, e da coloro che hanno preso spunto da Giallo per ribadire che Argento non esiste, deridendone forma e contenuti con argomentazioni limitrofe a quella di un bar. Un feeling, quello del film, di suo poco impegnativo, degno di un discreto prodotto commerciale con cui trascorrere una serata che pero’ non merita, per quello che si vede, di essere trucidato come fosse una pacchianata della Asylum. Il punto dolente, semmai, è che ormai il regista romano sembra quasi costretto a fare quello che i fan esigono, e guai ad uscire dalle righe perchè sarai massacrato da tutti senza appello. Onore a lui invece, ed al fatto che – tra felici riprese e cali pesantissimi – si continui a rifiutare di riciclare il passato nel presente. Giallo è questo, probabilmente meno di quanto io abbia scritto, ma voi diffidate da chi lo ha recensito ribadendo la melensa storiella del “si stava meglio quando si stava peggio” o l’intramontabile “vuoi mettere la magia dei primi?”. Per me qualsiasi parallelismo tra due film distanti 30 anni l’uno dall’altro è fuori dal mondo, talmente strambo e campato in aria da farmi sospettare che molti dei suddetti “critici” non sappiano davvero di cosa stanno parlando. Non accetto per questa ragione che costoro, e lo scrivo con tutto il rispetto possibile, possano non soltanto sputtanare un genere in toto, ma addirittura intavolare comizi sulla situazione penosa del thriller/horror in Italia. Gente che, purtroppo, Albanesi e Zampaglione in molti casi non sa nemmeno chi siano. Se lo scopo di una critica cinematografica dovrebbe essere quella di far capire cosa contiene un lavoro non ho trovato nessuno, in questo caso, che sia riuscito a farmi questa cortesia. E forse è stato meglio così, perchè o io ho visto un altro film del 2009 chiamato “Giallo” (con i suoi noti problemi di distribuzione), oppure chi ne ha scritto ha guardato qualcos’altro.

  • Haze è un Cube più paranoico

    Mediometraggio del visionario regista nipponico: claustrofobico e bizzarro, puo’ essere utile per avvicinarsi allo stile del regista che qui “dimentica” parzialmente il cyberpunk per concentrarsi sulle logiche di sopravvivenza.

    In breve: se pensate che Cube sia troppo banale, avete trovato pane per i vostri denti. Per voi, e per pochi altri.

    Un uomo si risveglia all’interno di un luogo buio senza ricordare nulla della sua vita passata, e senza avere alcuna idea di che razza di posto possa essere: è al buio, con un soffitto spiovente praticamente sotto il naso, senza uscita. Una bara gigantesca di cemento nella quale è difficile, se non impossibile, riuscire a venire fuori. Il motivo per cui l’uomo è stato rinchiuso lì non è dato conoscerlo: forse un maniaco lo ha rinchiuso lì dentro, forse è scoppiata una guerra ed è stato fatto prigioniero, forse è solo una metafora delle metropoli giapponesi, alienanti e soffocanti (un’immagine molto cara al regista).

    Il labirinto è una visione pessimistica dell’esistenza, nel quale il protagonista tenta una fuga prima strisciando lungo un tubo con i denti (memorial delle scene iniziali di Tetsuo, evidentemente), poi seguendo i vari cunicoli che lo porteranno a vedere altri uomini imprigionati nell’orrido luogo, come lui quasi completamente nudi e, quel che è peggio, orrendamente massacrati non appena proveranno a fuggire. L’incontro con una donna gli cambierà l’esistenza, e lo convincerà che è necessario provare ancora una volta, nuotando nell’acqua…

    Prendendo in prestito qualcosina da “The cube“, e facendo massacrare un po’ di comparse in stile “Saw – L’enigmista“, Tsukamoto confeziona un discreto mediometraggio, che fa urlare al miracolo solo se si è avvezzi al genere, e farà esprimere imprecazioni in tutti gli altri casi. Con il suo consueto stile rapido, violento e così poco “occidentale”, il regista disorienta, mostra spezzoni di sequenze rapidissime quasi fosse un video musicale dell’orrore, e fa capire poco o nulla della trama per circa metà del film (soli 45 minuti in tutto). Il rischio che il tutto venga etichettato come inutile sperimentalismo c’è ed è molto forte, ma Tsukamoto è questo, ed è pure abbastanza difficile, se non impossibile, non accettare la sua visione delle cose.

    L’unico barlume di razionalismo nella vicenda sembra derivare, solo nel finale, dalla storia tra l’uomo (interpretato dal regista stesso) e la donna, unico reale barlume di realismo per dare un senso concreto alla storia, in grado di soddisfare i soliti razionalisti vogliosi della fantomatica spiegazione logica a tutta la storia. L’amnesia sembra essere dovuta al trauma, ma questa interpretazione lascia parecchi punti di dubbio ugualmente – e va bene così. Come nel Lynch più surrealista, per Tsukamoto le sensazioni suscitate contano molto, molto di più della trama.

  • Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto: trama, cast, critica

    Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” è un classico del cinema italiano che, a prima vista, potrebbe sembrare un affresco spensierato di un’avventura estiva come tante, giusto nei pressi del mar Mediterraneo (più precisamente dalle parti della Sardegna). Questa considerazione nasce – quasi certamente – dall’averlo ridotto ad alcune scene emblematiche, o dall’averlo reso un meme senza badare alla sostanza (che è mastodontica, a ben vedere).

    Diretto dalla sapiente regia di Lina Wertmüller, si tratta di un vero e proprio trattato socio-politico sulle differenze di genere e di classe, rappresentate da un lato dal maschio comunista (il marinaio Gennarino) e dall’altro dalla donna borghese (la snob Raffaella). Il conflitto è esasperato dal fatto che i due saranno costretti a rimanere su un’isola deserta da naufraghi, condividendo loro malgrado la cattiva sorte. Ma cosa succederà alla loro relazione?

    Prima di raccontare ciò che questa gemma del cinema anni Settanta ha rappresentato per generazioni di cinefili è opportuno precisare ciò che questo film non è: non si tratta propriamente di un film d’amore, se non di un amore tragico e dalla conclusione quasi nichilista. Non si tratta nemmeno di un riassemblamento favolistico sulla falsariga di Incantesimo nei mari del sud (più noto negli anni Ottanta come Laguna blu), come la storia dei due naufraghi che finiscono per innamorarsi potrebbe suggerire allo spettatore non troppo attento. Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto è semmai uno dei film più politici mai girati in Italia, e anche uno dei più controversi e discussi: la relazione tra l’insopportabile e frustrata Raffaella (Mariangela Melato) ed il rude e patriarcale Gennarino (Giancarlo Giannini) è una metafora della relazione tra la classe sociale sfruttata e quella sfruttatrice, e naturalmente di cosa succederebbe se quella relazione fosse invertita (l’effetto di una rivoluzione primitiva e senza fronzoli, in sostanza). Se la circostanza oggi probabilmente si capisce poco è soprattutto per via della regressione dialettica che la politica ha subito, diventando uno scontro frontale delle ideologie a singhiozzo, che si richiamano solo quando serve o al limite per denigrare l’avversario. All’epoca dell’uscita del film la percezione era differente, perchè anche un film così finiva per suscitare reazioni più o meno scomposte, provando al contempo a ingenerare un dibattito sensato sui temi della violenza di genere, della lotta di classe e del contesto sociale in cui vivevamo a quei tempi.

    Nell’amore non c’è volgarità… ve la siete inventata voi borghesi, la volgarità.

    Nonostante le difficoltà iniziali Raffaella e Gennarino si adeguano allo stile di vita dell’isola, sia pure tra mille contrasti e prefigurando una forma di amore che, per quanto grottesca, è realistica, al punto potrebbe assimilarsi ad almeno una storia di vita reale che potremmo aver vissuto, stare vivendo o aver sentito da un amico o amica. Il richiamo al primitivismo è l’essenza del film, che prova ad immaginare come vivrebbero due novelli Adamo ed Eva in una società senza tecnologia e senza progressi, declinandosi come film che non riesce a far sorridere senza far riflettere, che non esita a portare il parossismo fino ad una violenza che, di per sè, non ha nulla di scenografico o di puramente visuale.

    La violenza del film, quando compare, è cruda, realistica, inattesa, quasi documentaristica: nella situazione iniziale Raffaella è una borghese colta, fintamente impegnata nella politica e sprezzante verso meridionali e classe operaia in genere, mentre Gennarino è un marinaio che conosce il mondo e possiede “il senso delle cose” e della pratica, al punto che riesce ad organizzarsi per sopravvivere sull’isola deserta senza intoppi. La donna, da sfioratrice del mondo appoggiata sugli allori, dovrà scendere ad inaccettabili compromessi pur di continuare a vivere, riscoprendo una parte di sè sepolta nel proprio inconscio e nel proprio essere spensieratamente borghese. In questo frangente Gennarino diventerà sempre più violento e aggressivo nei suoi confronti, formalmente con il pretesto di insegnare alla donna cosa significa lavorare per vivere, mentre Raffaella subirà passivamente la violenza, nascondendosi dietro un’ambiguo atteggiamento fatto di sopravvivenza, rassegnazione e presunto amore.

    È chiaro che si tratta di un film figlio del suo tempo, che oggi non sarebbe più realizzabile e susciterebbe reazioni ancora scomposte – proprio per quella violenza di cui si parla, decisamente insolita rispetto alla media, che finisce quasi per strizzare l’occhio a certa exploitation del primo Wes Craven o di Mario Bava. Nel momento in cui la relazione tra i due protagonisti si ribalta, infatti, esce fuori il lato oscuro del personaggio di Gennarino, il quale (nonostante la parvenza simpatica e da Peppone della situazione) è un uomo possessivo ed espressione di quello che oggi viene indicato con lo slogan men are trash: un un uomo egocentrato e tendenzialmente violento che considera la donna una preda da braccare. Nonostante abbia subito insulti e soprusi dettati dall’arroganza di Raffaella, in effetti, non è scontato che il pubblico empatizzi con lui. È in questo mood che mi sembra di ravvisare una qualche somiglianza con ciò che suscitano i film exploitation, che all’epoca andavano piuttosto bene e che, ancora oggi, sono difficili da distribuire e popolarizzare (nonostante ci sia una forte nicchia di pubblico che continua a seguirli).

    Chiaro che, con gli occhi di oggi, non bisogna commettere l’errore di considerare il tutto pura graphic violence (come i tarantiniani puri saranno tentati a fare) o peggio, di ergerla a manifesto del politicamente scorretto, addirittura finalizzandolo al voler normalizzare la violenza sulle donne. Il punto infatti non sembra la violenza sulla donna in astratto, ovviamente deprecabile in ogni luogo e tempo (lo dimostra se non altro l’insistere della camera su gesti che prima sono aggressivi, poi sono violenti, ad un certo punto diventano amorosi o sessuali e poi, tragicamente, si assestano come un mix indefinito tra amore e violenza). Nè tantomeno possiamo farci bastare la falsa rassicurazione che sia stata una regista a realizzare l’opera, perchè questo rischierebbe anche involontariamente di depotenziare il senso dell’opera e banalizzarlo. Il focus di Travolti da un insolito destino è invece la relazione politica tra due classi, l’inconciliabilità tra due estremi che hanno rovesciato il loro rapporto in senso rivoluzionario (il naufragio) e pagano le conseguenze della violenza insita in ogni rivoluzione (e da questo sembra trapelare, se non altro, disillusione). Le ripetute botte su Raffaella, unita al suo continuo scandalizzarsi per ciò che accade (addirittura durante le scene d’amore), è una misoginia realistica funzionale a raccontare un fatto politico, a denunciare che una rivolta puramente di pancia porta comunque alla rovina dei protagonisti, su cui lo spettatore non potrà fare a meno di fare delle riflessioni soprattutto in vista del twist finale, mai abbastanza citato quando straziante nel suo incedere: Gennarino rimarrà tragicamente solo per aver dato troppo amore senza rendersene conto, mentre Raffaella tornerà nella zona comfort che detestava.

    Questa prospettiva testimonia che dopo più di cinquanta anni dall’uscita (il film arriva nelle sale nel 1974) molte questioni di genere sono rimaste irrisolte (ed è questo che fa riflettere, alla fine), mentre gran parte della destra e una discreta parte della sinistra continua ad avere seri problemi in fase di accettazione dell’altro, così come ad uscire dagli stereotipi della “donna del popolo” primordiale, controllabile e poco evoluta, ma anche della pluri-citata “bottana industriale” cinica ed opportunista anche in amore. Luoghi comuni, forse, ma che vengono bellamente attribuiti ancora oggi a utenti dei social e influencer, in un mondo popolato di Raffaelle e Gennarini. Quei due protagonisti, forse, siamo noi – e non ce ne siamo ancora accorti.

    Se si guarda il film dalle prime sequenze emergono aspetti dai quali sembra impossibile prescindere: in primis ci troviamo durante una vacanza di benestanti, ma su una barca a noleggio. Non di proprietà, e viene il sospetto che si tratti di esponenti della mid class, nè proletari nè propriamente borghesi. I marinai invece sono tutti meridionali o comunque di umili origini, mentre gli affittuari della barca leggono ostentatamente L’Unità, giornale ufficiale del fu Partito Comunista Italiano. Raffaella, dal canto suo, sembra fin da subito una chic odiosa e distaccata (ostentatamente critica verso chiunque, ma non certo una dei borghesi di Hanno cambiato faccia, per intenderci): critica i comunisti sovietici ma fa discorsi ecologisti, strizza vagamente l’occhio ai progressisti per vezzo ma poi sembra radicata nel mondo agiato e stucchevole a cui appartiene. Perchè la denuncia più forte di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto pone l’accento sul fatto che non basta evidentemente essere rivoluzionari e incazzati contro le palesi ingiustizie che subiamo per cambiare le cose, nè basta una dittatura proletaria per risolvere la questione. La regia, in questo, è ossessivamente concentrata a mostrare ogni dettaglio della nuova vita della strana coppia, mostrando un’isola in cui sembra esserci ben poco da scoprire e quasi nulla per sopravvivere (a parte le uova degli uccelli, i pesci, le aragoste e naturalmente l’amour).

    Se dobbiamo riorganizzare la società, sembra suggerire il film, dobbiamo comunque fare i conti con gli abusi e le degenerazioni che saranno insiti nella natura umana, non semplicemente sfiorare la questione in maniera blanda o teorica come fa la protagonista. Personaggio peraltro incapace di difendersi e costretta a soggiacere all’amore per pura sopravvivenza, travolta dall’insolito destino di essere in balia di un proletario che tutto può giusto su un’isola deserta, ed è condannato ad un’esistenza grama e piatta non appena rientrato nella civiltà.  Che questo film finisca per disturbare per varie ragioni, far sorridere e provocare disagio – o addirittura fastidio – anche dopo mezzo secolo suggerisce, se non altro, l’importanza delle tematiche che tratta, e la loro pressante attualità. Per i due naufraghi la disavventura è un modo, alla fine, per provare a riappropriarsi di se stessi e della propria istintualità repressa, senza riuscirsi e anzi, sacrificando il proprio mondo.

    Ma se vuoi stare qua e vuoi mangiare, devi lavorare! Hai capito?

    Travolti da un insolito destino è considerato molto impropriamente una commedia all’italiana con un messaggio semplice e chiaro, ma i toni risultano multi-sfaccettati, forse più grotteschi che vuotamente divertenti, un po’ come nel mood dell’epoca e di quel tipo di regia (le regie “militanti” sono state molto frequenti negli anni Settanta, e in parte degli Ottanta). Se Roger Ebert elogia questo film e lo fa risalire a L’anima e la carne, del resto, la rivista Première lo annovera tra i 100 film che hanno sconvolto il mondo, nonchè “uno dei film più audaci mai girati”.

    Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1215775

    IMDB si è divertito a snocciolare i temi principali che tratta il film, in una divertente alternanza tra italiano ed inglese (si tratta probabilmente di tassonomie create dagli utenti stessi): la lista fa pensare a ciò che il film non è, letta d’un fiato, anche se effettivamente tutti i temi sono tabù affrontati dal film. Parliamo di sodomy, misogyny, rapporto marito moglie, trophy wife, machismo, upper class, lower class, social class, class society, society, mare, ship, mediterranean sea, rape turns to consensual sex, enemies become lovers, castaway, incagliato, abuso, domestic abuse, yacht, stranded on an island, italiano, slapped in the face, island, role reversal, naufragio, diretto da una donna, razzismo, triple f rated, female topless nudity, survival adventure, poverty, wealth, horny wife, cheating wife, horny woman begs for sex, large breasts, sexually dissatisfied wife, woman humiliates man, wife raped, naked female breasts, comunista, female sex slave, class difference, submissive woman, sex scene.

    Tra momenti di tensione e di ironia sempre ben bilanciati, “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” offre in definitiva uno sguardo critico verso la società e le sue convenzioni, spesso con un pizzico di sarcasmo. Se vi aspettate un film leggero, preparatevi a confrontarvi con elementi come la disparità di classe e le relazioni interpersonali complicate, il tutto condito da una buona dose di umorismo e spunti di riflessione.

    Il film è stato girato sulla costa orientale della Sardegna, in provincia di Nuoro, e per qualche tempo è stato previsto un sequel, anche l’idea fu abbandonata dopo la scomparsa di Mariangela Melato. Fu pero’ realizzato un remake, intitolato “Travolti dal destino” (titolo originale Swept Away) diretto da Guy Ritchie e interpretato da Madonna e Adriano Giannini, figlio di Giancarlo. Un film che, in almeno un’occasione, Mariangela Melato stroncò come “orribile”, che non coglieva il senso dell’opera originale, nè nel senso politico nè in quello più sentimentale o sociale.

  • Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata racconta l’Italia di metà secolo scorso

    Amedeo è un emigrato italiano senza troppe prospettive lavorative, oltre che affetto da crisi epilettiche. Deciso a trovare moglie, prova a cercarne una per corrispondenza: nel farlo, si finge un suo amico, in modo da avere più possibilità che la futura sposa possa dirgli di sì.

    Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata è senza dubbio uno dei film più popolari di Luigi Zampa (che dirige tra gli altri Il vigile e Il medico della mutua), ma è anche uno di quelli che vanta uno dei personaggi più memorabili interpretati da Alberto Sordi: un emigrato nostrano dall’Italia di metà millennio scorso, in cerca di fortuna non solo sul lavoro ma anche in amore. Girato tra Roma e Brisbane (Australia), oltre che nell’isola di Coonanglebah (Dunk Island) nel Mar dei Coralli, è un film italiano del 1971.

    La rappresentazione scelta da Zampa, che scrive la sceneggiatura a quattro mani assieme a Rodolfo Sonego, possiede tratti quasi neorealisti: le riprese sono tutt’altro che idilliache e anzi, al contrario, mostrano le brutture e le ipocrisie dell’epoca. In altri termini è l’italiano medio dell’epoca, in particolare quello stereotipato del sud, che invita inutilmente a ballare decine di donne (che quasi mai accetteranno), oltre ad essere dominato da una forma di grottesco matriarcato (le promesse spose, in questa scena memorabile di inizio film, sono sorvegliate a vista dallo sguardo vigile delle rispettive madri). Parte del film è recitato in un mix di dialetti meridionali, tra cui pugliese e siciliano.

    Signorina, mi permette una danza?
    No, cun te nun possu ballare, a casa mia nun vonno. Thank you!

    La donna assume una forma di sacralità inviolabile, in questa veste, e ciò contribuisce in prima istanza all’effetto comico: soprattutto da parte del personaggio interpretato da Sordi, Amedeo Battipaglia, emigrato convenzionale e vittima dei propri stessi pregiudizi. Se da un lato vorrebbe una brava donna illibata (e naturalmente vergine al matrimonio),dall’altro il suo sguardo è precluso dal guardare la realtà delle cose – e nessuno si azzarderà, naturalmente, a dirgli le cose come stanno. Un personaggio irrequieto e imprevedibile, dalla mimica inequivocabile, quasi da slapstick puro, tanto che un critico come Giovanni Grazzini ne paragonò l’interpretazione ad quella di Stan Laurel. Le convulsioni o crisi epilettiche di cui sarà vittima, peraltro, si inquadrano sia in un contesto di ulteriore caratterizzazione del personaggio (dato che sembra avere degli attacchi ogni volta che si trova a dover fronteggiare la dura realtà) sia assumono, probabilmente, un tratto tipico della commedia all’italiana e sembrano, per certi versi, un espediente comico per spezzare l’eventuale monotonia della storia.

    D’altro canto, se al rivale in amore di Amedeo viene relegato un ruolo quasi marginale (Riccardo Garrone compare solo a sprazzi, e non è certamente un personaggio così rilevante come potrebbe sembrare), giganteggia Claudia Cardinale (che per questo film vinse anche un David di Donatello nel 1972) nel ruolo di Carmela, abile a rappresentare una donna forte, determinata a sfuggire ai tentacoli del proprio pappone romano, al tempo stesso anch’essa vittima di pregiudizi e perennemente sulla difensiva (il coltello che porta in borsetta ricorda molto l’arma con cui Monica Vitti partiva nel film, relativamente più recente, La ragazza con la pistola). Sia Carmela che Assunta si ribellano ad una società arcaica, dai tratti quasi primitivi, e nel tentativo di uscirne sono disposte all’uso delle armi, aspetto che oggi fa sorridere ma che (quasi certamente, verrebbe da pensare) non deve essere passato indifferente a certa critica rivoluzionaria dell’epoca. Al tempo stesso, Carmela ha un passato da prostituta, di cui non si vergogna senza pero’ riuscire a raccontarlo ad Amedeo, uomo d’altri tempi quanto fragile emotivamente, simbolo di una società dai tratti ingenui e puritani che, a ben vedere, non è ancora scomparsa del tutto fino ai giorni nostri.

    Di suo Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata rientra nella tradizione dei film italiani (di genere vario) dal titolo chilometrico, e per quanto la regia di Zampa sia impeccabile il film, visto oggi, possiede momenti di stanca e sembra, soprattutto, vittima di una narrazione leggermente prolissa e autoreferenziale. Al netto di questo, è un film tenuto in piedi dalla grandezza dei suoi interpreti, Cardinale e Sordi in primis, artefici di uno schema narrativo archetipico, basato su fuga e sostituzione del personaggio, che tante altre volte avremmo incontrato nel cinema degli anni successivi. Inevitabile che si formi una relazione sulla base della vicinanza tra i due personaggi, in effetti, catapultati in un mondo pre-moderno che oggi non esiste più, che è quasi difficile da credere e che, certamente, può essere riscoperto dalla visione di questo lavoro.

  • Salon Kitty: il film erotico più politico che ci sia

    Kitty Schmidt, tenutaria di un bordello berlinese, in occasione dell’inizio della guerra viene costretta dal Reich ad assumere un gruppo di prostitute di fede nazista. L’idea è quella di compromettere i clienti che lo frequentano (ufficiali delle SS) spiandone di nascosto i comportamenti e le affermazioni.

    In breve. Tinto Brass gira un film politico-satirico, anche a costo di attenuare un po’ la componente erotica e quasi nella tradizione di Aristofane: il sesso per mettere in ridicolo (e combattere) il nazismo. Ne risulta un capolavoro assoluto del genere.

    Prima del controverso Caligola, Brass si occupa lucidamente del Potere e delle sue declinazioni, mostrandole come pure perversioni ai danni dei più deboli. Mostrando un Salon Kitty realmente esistito, la storia si sviluppa secondo canoni estetici felliniani, e mostra un’atmosfera festosa, eccessiva, decadente, in cui ogni ufficiale finisce per lasciarsi andare di fronte a fascino delle prostitute, peraltro molto curate dal punto di vista delle movenze e dei costumi.

    Dopo aver consumato sesso in qualsiasi forma e variante immaginabile (viene anche mostrato un ufficiale che si traveste da donna ed un altro che utilizza un pane a forma di fallo), le parole iniziano a pesare sempre di più: le prostitute (in realtà donne selezionate dalle SS su base nazionalistica) raccolgono informazioni sui clienti, stendono rapporti dettagliati ed il regime punisce chiunque venga considerato potenziale disertore, o non abbastanza fedele alla patria. Gli intenti satirici sono lampanti: mostrando il lato sessuale e fisico degli ufficiali (che normalmente vedremmo uccidere e dare ordini in divisa), Brass li riporta (come da tradizione del genere satirico) ad una dimensione umana, tangibile, ed usa questo strumento per mostrarne il degrado.

    La vera storia di ciò che accadeva al Salon Kitty sembra risalire al diario dell’ufficiale Walter Schellenberg (Il labirinto), pubblicato nel 1956, ed al quale seguì un’estensione della storia a cura di Peter Norden nel libro Madam Kitty (1973). Il fatto che il bordello fosse utilizzato come misura di spionaggio per svelare l’identità di ufficiali infedeli al regime, peraltro, è un fatto realmente accaduto nella Germania di quegli anni. Durante la guerra il bordello venne molto frequentato dai nazisti, per poi essere definitivamente abbattuto da un attacco inglese nel 1942. La Schmidt, proprietaria del luogo, non svelò mai l’identità di nessuno dei suoi datori di lavoro, fino alla sua morte (1954).

    Diversamente da altri film di Brass, in cui la componente erotica è schiacciante (tanto da sembrare forzata, in certe circostanze), in questo film è presente quanto misurata: non mancano scene di sesso ed i soliti nudi frontali, ovviamente, oltre alla predilizione del regista per i fondoschiena femminili a regola d’arte, e la rappresentazione di perversioni di ogni genere, sempre funzionali a mettere in ridicolo le smanie di potere di certuni. Kitty Kellermann (alter ego della reale Kitty Schmidt), protagonista della storia nonostante il suo professarsi apolitica, sarà il punto focale per risolvere la trama assieme alla prostituta e passionale Margherita (Teresa Ann Savoy), innamorata di un ufficiale vittima del tranello architettato dal regime. Se quest’ultima love story assume connotati digressivi, non lo fa con particolare insistenza – per cui resta funzionale a giustificarne la scelta.

    Salon Kitty, se non è il miglior film di Brass, è sicuramente uno di quelli che ha conferità dignità al genere erotico, forse il più maltrattato in assoluto dopo l’horror, al quale nulla puoi chiedere se non di riscaldarti un po’ la serata (in fondo questo puoi chiederlo anche ad un buon horror, ma questa è un’altra storia). Brass dimostra semplicemente che, se hai qualcosa da dire e possiedi i mezzi per girare, il film è fatto e anche i soliti moralisti dovranno, per una volta, rassegnarsi all’idea. Tra le curiosità del film, un gran numero di riprese in presenza di specchi, il che richiede una certa perizia registica che valse a Brass, secondo IMDB, il nomignolo di “re degli specchi“.

    Salon Kitty, dove vederlo?

    Il film è disponibile in noleggio online su Apple iTunes.

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