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  • It’s the Arts. È il mondo dell’arte, non puoi capire. Parola dei Monty Python

    It’s the Arts. È il mondo dell’arte, non puoi capire. Parola dei Monty Python

    Episodio: It’s the Arts (or: The BBC Entry to the Zinc Stoat of Budapest) 1.6 (“Monty Python”, 1969)

    Trasmesso il 23 novembre 1969 e registrato nel mese precedente dello stesso anno, l’episodio numero sei del Flying Circus, subito dopo l’introduzione rituale con il consueto “It’s…” (affidato al naufrago Palin), mentre l’intero episodio registra un ennesimo, sostanziale successo – cosa che può dirsi valida per tutti e cinque gli episodi precedenti. Un caso davvero notevole, del resto, di TV elaborata, mai banale e – non per questo – inintellegibile o per “pochi eletti” – in fondo i Monty Python sono la prova concreta che spesso è la tecnica dell’attore o della regia ad intrattenere e far ridere, non i contenuti in sè. La verbosità dell’episodio, la negazione della sintesi, l’eccesso voluto e ostentato di parole per esprimere concetti semplici riesce a rendere il tutto spassoso nonchè archetipo di umorismo moderno, se si pensa ad esempio allo stile unico di Mel Brooks o ad alcune trovate surreali dei Griffin.

    Dopo un breve corto animato di Gilliam (con uno scarabocchio autografato prende vita e cerca di nascondersi tra grafici, elenchi telefonici e fotografie), Johann Gambolputty inaugura un impronunciabile gioco di parole, nel quale i Python si cimentano con grandissima capacità recitativa: durante una trasmissione di approfondimento sui compositori classici, si parla di uno poco noto e che andrebbe tributato degnamente – ed il cui nome completo è Johann Gambolputty de von Ausfern-schplenden-schlitter-crasscrenbon-fried-digger-dingel-dangel-dongel-dungel-burstein-von-knacker-thrasher-apple-banger-horowitz-ticolensic-grander-knotty-spelltinkle-grandlich-grumbelmeyer-spelterwasser-kurstlich-himbeleisen-bahnwagen-gutenabend-bitte-ein-nürnburger-bratwurstl-gerspurten-mitz-weimache-luber-hundsfut-gumberaber-schönendanker-kalbsfleisch-mittler-aucher von Hautkopf of Ulm. Riuscire a fare ridere solo per la lunghezza del nome (e per le circostanze che ne derivano) non era da tutti, ed i Pythons ci riescono ancora una volta. Non-Illegal Robbery è un ennesimo classico della comicità “ad inversione”, in cui un gruppo di gangster organizza un piano elaboratissimo per acquistare un semplice orologio, sketch che poi degenera in un climax delirante. Climax che si affianca, subito dopo, con l’opinione immancabile dell’uomo della strada, a cominciare da ovvietà ridondanti (“If there were fewer robbers there wouldn’t be so many of them, numerically speaking“) a messaggi insospettabili affidati ad innocenti vecchine (“I think sexual ecstasy is over-rated“). Poco dopo inizia Crunchy Frog, un richiamo esplicito alla Whizzo Chocolate Company (pubblicità fake del primo episodio) nonchè piccolo capolavoro di satira portata all’eccesso mediante il disgusto: da un lato, un poliziotto irreprensibile ed il suo collega in preda alla nausea, dall’altro il raffinato proprietario di una fabbrica di cioccolatini che descrive in grande stile gli ingredienti più disgustosi che utilizza per prepararli. Uno sketch puramente corporale, quindi, che possiede un possibile richiamo alla parodia de “La grande abbuffata” che i nostri proporranno nel film Il senso della vita. The Dull Life of a City Stockbroker presenta ancora una volta la vita dello stereotipato agente di borsa Michael Palin, preda di una vita monotona che in realtà non vuole o non sa vedere: non solo, infatti, non nota gli amanti della moglie nascosti in casa sua, ma nemmeno bada agli omicidi che avvengono a fianco a lui, arrivando a ritrovarsi dentro un conflitto a fuoco tra militari, ovviamente (nel perfetto stile straniante dei Python) nel bel mezzo della periferia di Londra. Red Indian in Theatre gioca sul personaggio di un indiano nativo d’America appassionato di teatro, mentre cerca di esprimere complesse critiche di genere, utilizzati i pochi vocaboli che il suo stereotipo gli permette. A Scotsman on a Horse ricorda una parodia ultra-accelerata del finale del film Il laureato, con ambientazione scozzese (anche qui la capacità di sintesi dei nostri è stata pregevole), mentre il conclusivo Twentieth-Century Vole (il logo della Twentieth Century Fox è stato sostituito da un’arvicola, vole) presenta una satira hollywoodiana: un produttore molto ricco, idolatrato dai suoi sceneggiatori, propina idee banali per film secondo lui fantastici, ricevendo l’approvazione a prescindere e liberandosi, uno per volta, di tutti. Nella disperazione del momento, messi sotto pressione (la consueta, delirante pressione a cui era sottoposto l’esaminando durante il colloquio di lavoro dell’episodio precedente) uno dei poveretti si inventa la parola splunge per uscire dall’imbarazzo (il suo significato è it’s a great-idea-but-possibly-not-and-I’m-not-being-indecisive). Si tratta anche di uno dei rari episodi in cui l’animatore e regista Terry Gilliam compare in veste di attore.

    Le 45 puntate del Flying Circus sono disponibili, in inglese sottotitolato in italiano, all’interno di un bel cofanetto in 7 DVD, che trovate facilmente su Amazon: Monty Python’s – Flying circus (complete series).

  • The divide: l’horror distopico che riflette sulla socialità e la solitudine

    In un futuro prossimo New York è devastata dal nucleare, ed otto persone si ritrovano nel sotterraneo di un palazzo, allestito a mo’ di rifugio antiatomico. Poco dopo qualcuno inizia a forzare l’ingresso…

    In breve. Ottimo saggio di Gens di genere post-apocalittico (dopo il deludente, e vagamente pretenzioso, Frontiers), visto in un’ottica introspettiva – insolita, quanto apprezzabile – e soprattutto concreta e poco spettacolarizzata. Merita, senza dubbio, una visione: tra i migliori del genere degli ultimi anni.

    Con “The divide” Xavier Gens, dopo aver scomodato la critica a blaterare ripetutamente di new horror “alla francese”, vira quasi completamente genere, e si dedica al post-apocalittico: un genere spinoso, storicamente difficile da rappresentare sullo schermo, che raramente ha visto prodotti di reale qualità – se non per le notissime eccezioni (Carpenter in primis: Fuga da New York, e soprattutto Fuga da Los Angeles).

    Se è vero che di esempi del genere non mancano, neanche nei mai troppo osannati anni ottanta italiani (dove era soprattutto l’artigianalità a farla da padrone), resta un dato di fatto che gli sceneggiatori Karl Mueller e Eron Sheean abbiano prodotto un intreccio avvicente, perchè coglie nel segno, mostrando “quel tanto che basta” a fare un buon film. Niente inutile spettacolarizzazione delle trama, niente effetti speciali o eccessi di digital art (se non negli splendidi attimi conclusivi), ed un’idea fissa in mente: mescolare le dinamiche del cinema di genere claustrofobico (alla Wes Craven degli esordi, per capirci) con quelle post-apocalittiche (ed annessa sociologia pessimista), e tirare fuori un nuovo lavoro originale. Che risulta originale perchè, alla fine, “The divide” porta una ventata di aria fresca al genere, a dispetto delle varie esalazioni tossiche di cui è disseminata la trama.

    Non era agevole farlo, vista la sovra-abbondanza di emuli che, alla fine dei conti, puntano quasi sempre un nemico preciso (si veda Cloverfield, o il più recente The Gerber Syndrome), e quasi sempre – aggiungerei – inserendo qualche morto vivente e/o un novello Godzilla a guastare i piani dei protagonisti. La prevedibilità del post apocalittici è ben nota, ma “The divide” è diverso da quei film per una varietà di ragioni: la più importante è legata al fatto che è incentrato sui caratteri dei protagonisti, a formare un campionario di esseri umani tra cui sarà difficile non immedesimarsi. Un post-apocalittico di genere, introspettivo e profondamente umano (quanto feroce, a suo modo).

    Questo film è in fondo la storia di un viaggio estremo che rappresenta l’evoluzione dei caratteri, delle condizioni (fisiche e psicologiche) vissuto sulla pelle di otto tipi umani: personaggi che lottano per la sopravvivenza, con le consuete speranze malriposte e le immancabili conseguenze negative, degne degli esperimenti sociali visti in The experiment (Hirschbiegel, 2001).

    Gens resta un fan dell’horror e non risparmia sulla dose di terrore del film, inserendo innesti che sembrano ispirati a veri e propri snuff e, soprattutto, costruendo un crescendo che culmina in un finale memorabile, che colpisce e affonda per quanto, per forza di cose, potrà non piacere a tutti. La claustrofobia diventa la sintesi del vero orrore di “The divide“: essere costretti in una cantina angusta, razionando cibo e aria, mentre il mondo attorno finisce per andare letteralmente a rotoli.

    Certo, “The divide” non è privo di difetti: il ritmo del film non è uniforme, e spesso il voler indagare sui cambiamenti dei protagonisti (o della natura umana, se vogliamo metterla sul piano generale) in presenza di condizioni estreme rischia di sconfinare in quel cinema “da intellettuali” interessante, forse, ma a forte rischio di appensantire inutilmente la visione, anche per via degli eccessi presenti in più parti del film. Gens è stato comunque attento sia alla forma che alla sostanza, per cui il rischio di restare insoddisfatti dalla visione è limitato rispetto alla media.

  • Hot shots!: Jim Abrahams crea il film parodico-demenziale seminale

    Il tenente Topper, cacciato dalla Marina degli Stati Uniti, viene richiamato per una missione di vitale importanza…

    In breve. Un cult degli anni 90, girato sull’onda di una demenzialità esasperata, ormai fuori moda, ed ereditata in parte da serie TV come “I Griffin”. Risate continue e riferimenti ad altre pellicole (tra cui Top gun) da  veri intenditori. Per inguaribili nostalgici.

    Infermiera, gli controlli il pene per vedere se ce l’ha più lungo del mio.

    Chicca dei primi anni 90, simbolo di una generazione di film-maker fuori dalle righe, che hanno fatto della parodia demenziale un autentico manifesto: Abrahams ha scritto (e diretto, in alcuni casi) Una pallottola spuntata, Hot Shots!, L’aereo più pazzo del mondo nonchè il recente Scary movie 4. Il tenente Topper, lo strabico “Sguardone” e “Carne morta” (nomen omen) sono solo alcuni dei protagonisti di questo demenziale, a tratti cartoonesco, film che è ben noto agli spettatori italiani per essere passato svariate volte sulle reti private. Situazioni surreali, umorismo a volte privo di logica e giocato su non-sense parodistici, battute che sbeffeggiano film famoso e che mette in ballo anche il papa, protagonista di un incontro di boxe.

    Il tenente Topper, interpretato da Charlie Sheen e scelto per l’evidente somiglianza con Tom Cruise, firma la parodia ufficiale del celebre film ottantiano “Top Gun“: un mix di situazioni che riprendono il film originale, e battute che meritano di essere ricordate: il protagonista è un solitario (ma non gioca a carte), l’ammiraglio (Lloyd Bridges) che ammette di non aver capito “un beneamato cazzo” anche se vuole “mettere i puntini sulle A”. La sua rivalità con un commilitone si riduce ad una mitica battuta che gli viene rivolta all’inizio del film: “se non ci fosse la signora presente, ti farei a pezzi come o’ capitone e natale“. Impressionante la media di gag del film: ne ho contate circa quattro al minuto, una sequenza continua di risate nettamente superiore a qualsiasi parodia possa venirvi in mente oggi.

  • The signal: un horror fuori norma da riscoprire

    Film dai toni post-apocalittici diviso in tre parti, raccontato da altrettante prospettive diverse, ed incentrato su un misterioso segnale audio, diffuso mediante radio, TV e cellulari, in grado di trasformere le persone in killer.

    In breve. Discreto horror dalla narrazione non lineare, capace di tenere alta la tensione fino alla fine. Da vedere.

    The signal, horror del 2007 (da non confondersi con l’omonimo, di genere fantascientifico uscito nel 2014) è stato ideato da tre registi che vantano una collaborazione dal 1999 e girato con un budget di soli 50.000 dollari, in 13 giorni. Parliamo del trio David Bruckner, Dan Bush e Jacob Gentry, che sono anche autori della sceneggiatura, ed hanno girato seguendo i dettami dell’ horror indie americano: nessun risparmio sul livello di efferatezze e colpi di scena, ed un trama abbastanza semplice infarcita, nonostante tutto, di passaggi notevoli o allucinatori (personaggi che scambiano altri personaggi) e flashback (personaggi che ricordano, o credono di ricordare, il passato).

    Se tutto questo potrebbe appartenere alla tradizione lynchiana del genere, The signal non si perde in simbolismi, e strizza più pesantemente l’occhio all’horror crudo anni ’70, fin dalle prime immagini: una sequenza da exploitation modello Non aprite quella porta / L’ultima casa a sinistra, che pero’ rimane come una specie di trailer autoreferenziale (alla Tarantino / Rodriguez per intenderci) per introdurci nel film, a malapena collegato alla trama principale (in realtà è uno spezzone di The Hap Hapgood Story di Gentry). Ed è proprio al regista di Pulp Fiction, con le dovute proporzioni, che sembra richiamarsi la dinamica della storia, suddivisa formalmente in tre parti – ricca di flashback e colpi di scena, in cui nessuno è quello che sembra ed i personaggi vivono, loro malgrado, in una sorta di incubo ad occhi aperti.

    Il film è suddiviso in tre parti – che avrebbero dovuto essere di più, almeno stando a quanto pubblicato su Vimeo da uno dei tre registi (assolutamente consigliato, tra l’altro, il video linkato per avere un’idea del film, senza “dire troppo” o spoiler vari), e si basa su un’idea semplice ed efficace: un triangolo amoroso tra la protagonista, il marito di lei ed il rispettivo amante, ed il progetto di rivedersi nella stazione di Terminus, binario 13. Peccato che, nel frattempo, uno strano segnale radio/TV inizierà a plagiare le menti di chi ascolta, giustificandone le efferatezze ed arrivando a rendere chiunque un feroce omicida, e trasformando la città in un deserto in cui la maggioranza cerca di uccidere il prossimo. Non è troppo chiaro, peraltro, quale sia il livello massimo di esposizione al signal senza impazzire, visto che molti personaggi si muovono brillantemente senza farsene condizionare – ma questo è volere essere pignoli, e questo non è il genere di horror declinato sulla precisione. Se i presupposti di The signal non sono nuovi (Essi vivono, forse addirittura Videodrome) la narrazione non lineare e l’uso di riprese multiprospettiva cercano di rendere adeguato, riuscendoci, quel tocco di originalità tale da rendere il film interessante, oltre che scorrevole.

    Del resto non si tratta di un post-apocalittico vero o proprio, ma di una storia che è quasi un mashup di tre feeling diversi. Le tre trasmissioni o episodi di cui si compone la trama, infatti, sono incentrati su tre sotto-storie dallo stile ben distinto: Crazy In Love di Bruckner è quello più visceralmente horror e sinistro, The Jealousy Monster di Gentry e strizza l’occhio alla dark comedy ed allo humour nero (il che aiuta a spezzare e non appesantire la trama), mentre Escape from Terminus di Dan Bush conclude con la parte (relativamente) romantica della storia, ovviamente declinata in modo post-apocalittico. L’intero film si rifà chiaramente alla tradizione horror più allucinatoria ed esplicita, con spudorati richiami a certo torture porn (sopratutto il secondo episodio) ed ai classici di ogni tempo del genere (da Shining a Resident Evil, passando per 28 giorni dopo): questo, di suo, tenderebbe a renderlo un prodotto di nicchia, anche se uno spettatore medio potrebbe comunque lasciarsi trascinare positivamente dal film che, in fondo, è una love story declinata in modo grottesco e noir.

    Questo, a mio avviso, mette in secondo piano, come tradizione vuole in questi casi, l’intero scenario in cui si ambienta il film, lasciando il focus attivo su sogno di due amanti, neanche a dirlo, di vivere assieme – nonostante il marito di lei, violento ed imprevedibile e letteralmente ossessionato dal tradimento. Il tutto con il rischio di disinnescare la trama (i personaggi sembrano “dimenticare” l’apocalisse in corso, in più momenti), intreccio di suo rinforzato da un ambiguo (e forse non troppo comprensibile) doppio finale, in cui non è chiaro cosa sia sogno e cosa, invece, sia (la dura) realtà.

    Nel frattempo il signal – di cui non conosciamo l’origine, ed in fondo poco importa – continua a mietere vittime, e a causare atti di violenza sempre più feroci, scatenati dopo l’esposizione al segnale e giocando su una paranoia molto diffusa anche nelle varie urban legend che circolano da sempre sul web (le onde radio o wireless utilizzate per controllare le persone, o capaci di provocare malattie). In questo senso il film è abile a leggere e rielaborare la realtà, attualizzarla e focalizzarsi sulle paure e le psicosi moderne.

    Anche questo, del resto, dovrebbe saper fare un buon horror.

  • 31: Rob Zombi reinventa lo slasher, ancora una volta

    USA, Halloween 1978: cinque persone vengono rapite da un gruppo di sconosciuti per partecipare ad un sadico gioco di sopravvivenza.

    In breve. Trama un po’ scarna e sulla falsariga dei suoi precedenti di inizio 2000; piuttosto violento, ricco di colpi di scena e di personaggi deformi, folli e caricaturali. Un horror che riprende il “già visto” pur facendo riferimento ad un immaginario del tutto inedito: da vedere.

    I presupposti di questo nuovo film di Rob Zombi sono se non altro curiosi, in quanto basati sulla singolare statistica che ad Halloween scompaiono più persone di qualsiasi altro giorno dell’anno: girato in soli 20 giorni, sembra un film all’insegna del “flusso di coscienza” del regista, in grado di catapultare protagonisti borderline dell’America anni ’70 in un inferno senza via d’uscita apparente. Nel farlo propone una sequela di villain da fumetto horror, tutti accomunati da un “head” nel nome (Doom-Head, Sex-Head, Sick Head e così via) e dal provenire dallo staff di un circo.

    Non è la prima volta che Zombi caratterizza i suoi personaggi in questi termini, ed è impossibile non notare il suo, ormai inconfondibile, stile di regia: solido, nitido, brutale e attento ai dettagli. Si tratta anche di un film finanziato in crowdfunding, per cui le aspettative di massima libertà artistica sono in effetti rispettate: chi non ha apprezzato il film, d’altro canto, non ha potuto che notarne la sostanziale somiglianza con i lavori precedenti, cosa vera ma, a mio avviso, nel caso specifico non un vero e proprio aspetto negativo. A fare la differenza rispetto a molti horror contemporanei, e anche di molto, c’è la componente attoriale: molto curata, infatti, la scelta degli interpreti e le rispettive interpretazioni, sempre decisamente teatrali e sopra le righe. Come di consueto, e a differenza del sulfureo Le streghe di Salem, punta quasi esclusivamente sulle dinamiche slasher (Non aprite quella porta), concentrandosi su un immaginario del tutto proprio e senza alcun riferimento a culture, leggende urbane o altro. Un inferno personale nel quale tre individui (vestiti grottescamente da vetusti signori dell’800 imparruccati) scommettono sulla morte delle vittime contattando dei killer, in un panottico dell’orrore che saprà appassionare nella misura in cui saremo disposti a cedere alle sue lusinghe. Nel farlo, non risparmia dettagli sanguinolenti e, anzi, sembra insistere sulla componente violenta più del consueto, con trovate a sorpresa che faranno rabbrividire.

    Zombi evoca un feeling già noto nei suoi precedenti La casa dei mille corpi e La casa del diavolo per ricostruire un’atmosfera settantiana, tanto exploitation da sembrare quasi da snuff, cosparsa di spirito hippy e ben caratterizzata, fin dai primi fotogrammi, dai consueti personaggi grotteschi. Non è nulla di clamoroso, probabilmente, ma l’approccio è quantomeno molto azzeccato, per quanto determinati riferimenti passeranno soltanto per i più accaniti fan del genere (vari classici che passano sulle TV inquadrate, il genere naziploitation per il personaggio Sick Head, una citazione molto specifica del Rocky Horror Picture Show). Se il vero colpo di classe del film è il finale – che chiude la storia con un doppio finale, che rimane comunque parzialmente aperto – il labirinto squallido, le vittime trattate come marionette e le sadiche trappole che li aspettano non sono certo una novità, a partire da Cube di Vincenzo Natali (1997) fino ad esempi più evoluti come The experiment del 2001 (e senza contare che un analogo Sick Head si era già visto nel sottovalutato Eaters).

    Del resto si tratta di uno di quei film da cui dovresti sapere bene cosa aspettarti, e che devi gustarti nella loro essenza senza farti troppe domande, e – per noialtri – chiudendo un occhio sul doppiaggio italiano (la traduzione di certe espressioni gergali e delle canzoncine perde un po’ di efficacia). Zombi sembra volersi liberare di qualsiasi pretesa contestualizzante o ideologica (almeno in apparenza, anche se apre citando Kafka con l’aforisma A first sign of the beginning of understanding is the wish to die), e si limita a regalare al suo pubblico una perla di horror moderno ricco di ritmo, citazioni, interpretazioni di buon livello ed alcuni punti volutamente non chiariti: su tutti, il reale ruolo dei tre feroci aguzzini – forse fuori dal tempo, sempre esistiti, quasi una sorta di demoni – Father Murder, Sister Serpent e Sister Dragon, che a quanto pare colpiscono ad ogni Halloween. Figure grottesche che hanno scommesso sulle vite delle vittime, ed è tutto quello che sappiamo: viene in mente a riguardo, per chi lo avesse visto, uno dei corti di The ABC’s of Death 2.

    Se Zombi ha insegnato qualcosa al suo pubblico, in questi anni, è proprio che un buon horror non deve per forza spiegare tutto, e può ritenersi godibile (e ancora più spaventoso) anche lasciando qualche ombra oculatamente sparsa.

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