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  • Lo strano vizio della signora Wardh: il cult di Sergio Martino del 1971

    Lo strano vizio della signora Wardh: il cult di Sergio Martino del 1971

    Lo strano vizio della Signora Wardh” è un classico della cinematografia gialla di genere anni 70, da vedere almeno una volta nella vita.

    In breve: uno dei migliori lavori del giallo all’italiana anni 70, con Rassimov e Fenech al culmine dello splendore.

    “Niente unisce di più di un vizio in comune”

    Un killer uccide vari donne a colpi di rasoio, sullo scenario della storia di Julie (la signora Wardh del titolo, interpretata dalla Fenech) perseguitata dall’ex amante che si dice certo di essere l’unico a poterla soddisfare in ogni senso. La signora in questione, ambigua e maliziosa come non mai, si sente trascurata dal mite e ragionevole marito che tratta “come se le avesse fatto un torto“, e in realtà  a lei “non manca nulla“. Insomma, sembrebbe la solita stereotipata crisi di coppia senza particolari sottotesti, ma c’è di più: un serial killer continua a colpire in modo apparentemente sconnesso, l’ex amante la perseguita mandandole continuamente dei fiori con enigmatici bigliettini, e la donna instaura una relazione con il cugino di un’amica (George). Questi ultimi hanno appena avuto la notizia di aver incassato l’eredità di un vecchio zio, che sarà parte della chiave di volta per l’intreccio ma, sul momento, diventa l’occasione perchè George e Julie Wardh possano conoscersi e diventare amanti.

    Ricattata per telefono da qualcuno con la voce contraffatta, si convince imprudentemente a mandare l’amica Karoll all’appuntamento al posto proprio, la quale rimane brutalmente uccisa. La verità viene a galla solo nel finale, sulla base di un errore commesso dall’assassino in extremis, che nasconde le motivazioni di tutto quello che è avvenuto: in fondo il “delitto perfetto” non puo’ esistere, anche se effettivamente ben congegnato come avviene qui. Forse l’idea risolutiva è un po’ troppo macchinosa o addirittura improbabile (credo basti vedere il film per farsene un’idea): sta di fatto che “Lo strano vizio della signora Wardh” è un’ottimo lungometraggio settantiano che vale la pena di riscoprire.

    E’ forse una delle opere più note di Sergio Martino, un classico plot giallo con punte di eros mai volgare, oltre ad un sano citazionismo di fondo che lo ha reso un’opera cult per Tarantino (la scena sotto la doccia alla Hitchcock, il sapore quasi argentiano degli omicidi, rappresentati in modo più caotico rispetto ai capolavori di fotografia del regista romano). La signora Wardh, l’autentico totem di questo film, è un personaggio semplicemente perfetto: perennemente sospesa tra una mitezza di fondo ed una voglia di trasgredire le regole, e metaforizzato dall’idea del sangue. Il liquido vitale che richiama l’idea di morte, un fluido che da un lato ne soddisfa i desideri morbosi, e dall’altra la terrorizza e le fa avere delle allucinazioni. A confronto con lei gli altri interpreti, tra cui un Rassimov particolarmente in forma, semplicemente si offuscano.

    La Wardh, lontana un miglio dalla mera retorica della “borghese snob ed annoiata”, sorprende forse per il suo essere camaleontica e a tratti incomprensibile: annoiata e scontrosa con il marito con cui ha perso sintonia, sottomessa con il violento Jean (un mefistofelico Ivan Rassimov), dolce ed amorevole con George – e senza vuoti romanticismi. Insomma, un personaggio umano simbolico della cattiveria, dell’ambiguità, della falsità e della violenza innata di ognuno di noi.

    (la signora Wardh addenta una mela) Cosa significa, che mi vuol mangiare?

    …significa che l’ho già mangiata!

    Da ricordare la citazione sugli assassini di Freud, che compare dopo pochi istanti dall’inizio, molto rappresentativa:

    Il fatto stesso che il comandamento ci dica: «Non ammazzare» ci rende consapevoli e certi che noi discendiamo da una interrotta catena di generazioni di assassini, il cui amore per uccidere era nel loro sangue come, forse, è anche nel nostro

    La frase che compare nel bigliettino del mazzo di fiori nella prima metà del film dà il titolo al successivo Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, sempre del medesimo regista. Nora Orlandi ha contribuito alla realizzazione delle musiche del film (in particolare con “Dies Irae 2“), mentre il succitato Tarantino ne ha riproposto le sonorità nel suo “Kill Bill Vol. 2“.

    L’unica cosa che non sopporto è l’indifferenza: l’odio è un bel sentimento, come – e più – dell’amore.

  • Guida perversa all’ideologia: la dottrina, il cinema, i Laibach

    Che cos’è davvero l’ideologia nel mondo in cui viviamo? Secondo Slavoj Zizek è possibile raccontarlo attraverso l’analisi di alcune strutture narrative di celebri film di ogni genere. Analogamente a quanto fatto nella Guida perversa al cinema,  Zizek sceglie accuratamente dei titoli dagli anni 30 ad oggi ed esamina, con un discreto spirito cinefilo e sapore di riscoperta, una ventina di film che vanno dai primi ann 20 fino ad oggi.

    Per inquadrare fin da subito il discorso, Zizek parte dall’analisi di uno dei film più discussi e celebri di John Carpenter, Essi vivono. L’ideologia è qui vista come un qualcosa a cui ognuno di noi si adatta e, col tempo, si adagia: rinunciare a quei principi, ci viene detto da Zizek, è percepito tanto pericoloso quanto doloroso. Gli “occhiali di critica all’ideologia” (che sono gli occhiali da sole che, nel film, permettono di vedere le cose per quelle che sono, senza il filtro dell’autorità) sono alla chiave della decifratura dei reali messaggi dei cartelloni pubblicitari, e ci fanno pervenire ad una conclusione drastica: la verità (e come estrema conseguenza, la libertà) fa male, e questo è ben raffigurato dalla epica, altrimenti inspiegabile, scazzottata di quasi dieci minuti tra il protagonista ed il suo migliore amico. Amico che, ci dice il narratore, in termini psicologici rifiuta di vedere la realtà e non si fida, o teme che faccia troppo male, indossare quegli occhiali.

    Questo tema della scelta del filtro, e per estensione della scelta dei nostri sogni, sarà ripresa metodicamente in varie fasi di questo ennesimo saggio cinematografico-filosofico e psicoanalitico, in cui vedremo Zizek abilmente integrato in scenari celebri di varie pellicole sfruttando gli stessi colori o analoghe scenografia (il letto del protagonista di Taxi Driver, il bagno in cui avviene il suicidio di Full Metal Jacket e così via), il che aiuta a non appesantire la narrazione e, anzi, a renderla del tutto gradevole, nonostante la gravosità dei temi trattati. Nel film Tutti insieme appassionatamente (1965), viene raccontato, la suora protagonista non può, di fatto, esserlo perchè sente di avere una potenza amorosa e sessuale inespressa: la madre superiora, posta di fronte al problema, affronta i suoi successivi sensi di colpa mediante una canzone, che Zizek ci racconta essere stata censurata nell’ex Jugoslavia.

    La canzone – cantata nel film dal soprano Patricia Neway – è stata riproposta in chiave industrial dai Laibach, esattamente con le stesse parole ed un arrangiamento analogo, quasi un inno al soddisfacimento edonista del desiderio. Anche qui, torna prepotente il tema del desiderio, sublimato da ciò che viene indotto dal consumismo delle uova Kinder o della Coca-Cola:  ed è un desiderio insoddisfacibile per definizione, che si nutre di ulteriore desiderio e che non può mai essere pienamente soddisfacibile, per poter avere un senso.

    Climb every mountain
    Search high and low
    Follow every highway
    Every path you know

    I Laibach stessi, peraltro, così come i Rammstein e molti altri artisti della corrente industrial -nella sue complesse e spesso contraddittorie declinazioni – hanno spesso richiamato l’idea di un’ideologia “estesa”, non ferma alle mere apparenze politiche o propagandistiche, ma intendendole in modo più estensivo nelle forme artistiche più varie. E di questo, peraltro, Zizek parlerà apertamente anche nel film in questione.

    Altro aspetto a mio avviso interessante è incentrato su quelle che Zizek chiama immagini pseudo-concrete, ovvero una sorta di obiettivo o capro espiatorio (gli ebrei per il nazismo, ad esempio) che possano sobbarcarsi del senso perverso dell’ideologia, e delle sue successive declinazioni violente. Molti film di propaganda nazista vengono brevemente presentati e svelati nella loro essenza, così come avverrà in seguito con altrettanti film prodotti e fortemente voluto dal regime sovietico.

    A proposito di questo, peraltro, viene anche citato l’impianto scenografico dei concerti dei Rammstein, che in parte – come molte altre band del genere, peraltro – richiamano l’immaginario di era nazista ma lo fanno, secondo Zizek, in modo pre-ideologico, senza connotazioni fideistiche o realmente politiche, e ciò ci permette di vedere certe movenze ed iconografia senza, in qualche modo, doverci sentire in colpa.

    C’è poi un film molto significativo che, a questo punto, bisogna citare: La caduta di Berlino di Mikheil Chiaureli, un film sovietico del 1949 che racconta la fine della seconda guerra mondiale dal punto di vista dei russi. È secondo Zizek il film che spiega come funziona realmente l’ideologia nelle sue varie declinazioni: non incentrandosi sulla retorica staliniana di per sè (dato sicuramente presente e preponderante) bensì focalizzandosi su una coppia che si riforma dopo la guerra, dopo che lui aveva ricevuto consigli da Stalin in persona su come conquistare l’amata (questa scena, secondo Zizek, è stata tagliata in seguito in alcune versioni del film stesso). Ma questa analisi può essere condotta, secondo l’autore, anche nell’osservare film meno impegnativi come Titanic, ed è questo che corrobora la sua tesi, che convince proprio perchè è trasversale.

    L’ideologia è pertanto considerata questa forma di condizionamento, di credenza quasi religiosa che, spesso anche negli atei, finisce per condizionare la propria esistenza, non sempre in modo funzionale, degenerando in potenziale depressione o violenza. Sono molti i temi che vengono richiamati nel film, dopo aver citato un piccolo capolavoro di fantascienza distopica come Operazione diabolica (Seconds) di John Frankenheimer (1966), e che si prefigura come una documentario “di concetto” che cita particolarmente gli scritti di Lacan. Un’ottima scusa per curiosare tra il cinema più o meno noto e scoprirne pregi e virtù inattese, ancora una volta (come anche per la Guida perversa al cinema) senza necessariamente condividere il punto di vista, spesso radicale, dello studioso sloveno.

  • Razzismo, horror e tema del doppio: “Noi – Us” (J. Peele, 2019)

    La vacanza di una famiglia americana viene bruscamente interrotta dalla presenza di alcuni estranei: sembrerebbe la più classica home invasion, ma si tratta di veri e propri “gemelli cattivi“.

    In breve. Horror diretto e coinvolgente, privo degli eccessi che – in questi casi – li caratterizzano, interpretato e diretto con grande stile. Alla base del soggetto varie suggestioni tratte dal meglio del genere horror e slasher.

    Scritto e diretto da Jordan Peele (noto per l’esordio Scappa – Get Out, un horror satirico ispirato al primo Romero), Noi è un film dalle svariate suggestioni, dotato anche di una buona dose di equilibrio: a differenza della media dei casi, infatti, riesce a bilanciare diverse componenti, senza mai appesantire la visione. Si prende spunto dagli stereotipi classici da thriller/horror, che poi vengono declinate con modalità slasher (o multi-slasher, dato che ogni personaggio ha il proprio antagonista). Tanto che, prima di iniziare le riprese, Peele distribuì una lista di undici horror al cast, in modo da disporre di un linguaggio condiviso ed una serie di punti comuni di riferimento. Un focus che nel film si evidenzia con una certa lucidità, e che attraversa Gli uccelli, Lo squalo, Shining, Babadook, passando per It Follows, Martyrs, Il sesto senso, Lasciami entrare e così via.

    Il film è, come nella tradizione carpenteriana, ripreso da continui ed insistenti simbolismi, spesso di natura biblica (Geremia 11:11: Perciò, così parla il SIGNORE: “Ecco, io faccio venir su di loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”) ma anche spudoratamente cinefila: Jason, ad esempio, è uno dei giovani protagonisti ed è un chiaro riferimento al cult Venerdì 13 (molte scene sono girate su un lago), e anche la continua comparsa della t-shirt di Thriller di Michael Jackson sembra avere più di una motivazione simbolica.

    Se all’inizio Noi non evoca suggestioni coinvolgenti – e anzi rischia di sembrare stereotipato o “già visto” – basta attendere i primi twist della pellicola per cambiare radicalmente idea: l’horror di Peele non solo è ben realizzato, ma è anche caratterizzato da una gradevole venatura di humour nero (il regista è anche un comico ed un produttore, per inciso, e la sequenza dell’aggressione a due personaggi con dispositivo simil-Alexa a supporto è, in ogni senso, magistrale). Il sarcasmo, del resto, aiuta a superare un problema (o almeno, ciò che potrebbe rivelarsi tale per alcuni spettatori) che affligge questo sottogenere fin dalle prime uscite, ovvero l’abuso del senso di sospensione (il piano sequenza disperato, drammatico e interminabile in Funny Games) e la facile degenerazione in sequenze inutilmente exploitation o torture porn (una tentazione a cui pochi registi, trattando questo genere, hanno saputo resistere). Peele fa la differenza: non solo ribalta l’assunto narrativo, mostrando dei protagonisti afro-americani e relegando agli attori bianchi un ruolo secondario, ma riesce a bilanciare ogni componente dell’intreccio, senza abusare del comico (il che avrebbe reso ridicolo o poco credibile il risultato) nè eccedere nella violenza (che in Us ovviamente c’è, ma è sempre funzionale alla storia).

    Dopo averci suggestionato con una sequenza chiave, quasi onirica –  che sembra citare Il tunnel dell’orrore, siamo proiettati in una dimensione nuova: una famigliola in vacanza in preda ai consueti alti e bassi (Adelaide, la madre, è la ragazzina dell’episodio visto all’inizio, ed è tormentata da un trauma infantile: si era persa in un labirinto di specchi deformanti, ha smesso di parlare ed è convinta di aver incontrario una propria gemella). Il tormento viene brutalmente interrotto da un problema nuovo: quattro estranei, sinistri e perfettamente immobili, si sono posizionati di notte all’esterno della loro casa, minacciando di entrarvi. Qui il riferimento più evidente sembra essere a film come You’re the next, ma bisognerebbe citare, come minimo, anche l’attitudine dei ragazzi di Funny Games. L’atmosfera diventa più rarefatta e sinistra, l’aggressività degli estranei sembra poco giustificabile ma, soprattutto, notiamo una particolare ritualità nei loro gesti. Proprio in questa teatralità mimica, in effetti, che caratterizzerà i villain con una particolarissima forma di coreografia, risiede uno dei punti di forza del film di Peele, unita alla particolare forma di disfonia di cui soffre il “doppio” del personaggio interpretato da Lupita Nyong.

    Una famiglia contro i rispettivi “gemelli cattivi”: un’idea semplice, funzionale quanto originale nelle conseguenze. Se l’impianto generale potrebbe essere tratto da un episodio de Ai confini della realtà (e in effetti esiste un episodio di una serie di fantascienza anni ’60, Lost in Space, dal nome The anti matter man, il quale racconta del viaggio dei due protagonisti in un mondo parallelo, in cui dovranno fronteggiare i rispettivi doppelgänger), concettualmente Peele si ispira anche all’horror alla Romero, in un modo che diventerà particolarmente evidente nella seconda metà del film. E se la sua conoscenza del genere (e relativa attitudine) è autentica, originale e più che degna di nota, bisognerebbe citare almeno un ulteriore film che potrebbe averlo ispirato, ovvero il cult Doppia immagine nello spazio – Doppelganger.

    Se il film riprende e rielabora i più classici stereotipi del genere, quindi, va anche specificato che lo svolgimento della trama si basa anche sul mito della caverna, di cui scrisse Platone nell’opera filosofica La repubblica. Insomma quello di Peele è un horror autoriale, compatto e credibile, sostanzialmente privo di difetti e con tanto di doppio finale: una piccola perla di cui il genere, ad oggi, sembra avere un bisogno vitale.

  • TRASGREDIRE: il manifesto dell’eros secondo Tinto Brass

    Carla è alla ricerca di un appartamento a Londra da condividere con lo studente di cui è innamorata, Matteo.

    In breve. Un micro-saggio di erotismo del Maestro italiano, semplice nella sua struttura quando significativo all’interno della produzione brassiana. Nonostante alcune situazioni possano sembrare forzate (e questo non aiuta la componente suggestiva), il film è simbolico di un modo di intendere l’eros tuttora attuale.

    Film emblematico della più recente ondata brassiana di erotismo, quella che aveva deciso di attualizzarsi ed abbandonare le ricostruzioni storiche. La figura di Carla, interpretata dalla bellezza statuaria, sublime e abbagliante di Yuliya Mayarchuk (una Musa quasi simbolica – senza slip, con le calze colorate e l’ombrello – di questa fase del cinema di Brass) è la tipica donna che alterna ruolo di dominatrice e dominata, persa tra i meandri di un erotismo che la cerca, senza mai soddisfarla seriamente. Come è sua consuetudine, i toni del film giocano sull’ironia e su un’idea del sesso gioiosa quanto poco preventivabile, e questo a cominciare dal titolo, in bilico tra il tradimento e la trasgressione.

    La figura del protagonista maschile, poi, è apparentemente il tipico tonto medio (che si può apprezzare egualmente nei film di Russ Meyer come Supervixens) in cui paure, educazione e perbenismo gli impediscono di godersi edonisticamente il sesso – cosa che il film sembra invitare il pubblico a fare fin dall’inizio, senza pensieri nè remore.

    Questo è anche un po’ il senso della pellicola, al netto delle numerose scene erotiche (a volte ben costruite e suggestive, altre vagamente forzate o irrealistiche): se all’inizio Matteo impazzisce di gelosia nell’immaginare la propria donna guardata da altri, in una relazione lesbica, di gruppo o etero che sia (e rapito da questa ossessione nemmeno si accorge che Carla vorrebbe fare del sesso telefonico con lui), successivamente sblocca la situazione in modo radicale. Lo fa nell’unico modo realistico: chiedendo alla propria donna di mentirgli, di non raccontargli mai una verità che demolirebbe l’immagine idealizzata di cui è geloso.

    Un piccolo dramma-commedia a tinte fortemente erotiche, forse non il migliore della lunga serie del regista (questo soprattutto per via di interpretazioni non sempre all’altezza della situazione), ma che oggi può essere riscoperto perchè, nella sua leggerezza, di un minimo interesse cinefilo. La versione inglese del film (quella italiana si trova facilmente in rete) è leggermente differente a livello di montaggio, presenta i credits iniziali con il titolo inglese “Cheeky” (in inglese sfacciata/o) e manca del primo minuto iniziale di riprese. Anche la musica di apertura, nell’edizione anglofona, è leggermente differente.

  • RECENSIONE – Un Natale rosso sangue di Bob Clark

    Quando si parla di horror natalizi, il nome Un Natale rosso sangue (Black Christmas, 1974) non è un semplice titolo alternativo: è la pietra miliare di un genere. Diretto da Bob Clark, già autore della commedia natalizia A Christmas Story, questo film sembra provenire da un inconscio collettivo dove le luci colorate si spengono e sotto la neve si nasconde una minaccia senza nome.

    A differenza di molti slasher che sarebbero arrivati dopo, Un Natale rosso sangue non mostra subito l’assassino né fornisce motivazioni tradizionali. Le protagoniste sono un gruppo di studentesse in una casa di confraternita che, durante le vacanze invernali, iniziano a ricevere telefonate inquietanti e minacciose da un interlocutore sconosciuto — la cui voce distorta, mutevole e apparentemente senza un senso chiaro, diventa una presenza ossessiva nel film.

    Questa strategia narrativa — il terrore costruito prima nella mente dello spettatore che nella carne delle vittime — è uno degli aspetti più disturbanti e originali dell’opera. Il killer non è una figura mascherata ultra-violenta, né dotata di motivazioni psicotiche spiegate a posteriori: resta un fantasma telefonico, una presenza che suggerisce follia senza mai chiarirla, spingendo lo spettatore a interiorizzare l’orrore piuttosto che semplicemente guardarlo.

    💡 Curiosità da IMDb:

    • Il film è noto in italiano come Un Natale rosso sangue, titolo che sottolinea il contrasto tra la stagionalità festiva e il tono profondamente sinistro della pellicola.
    • Nel finale, durante i titoli di coda, si sente un telefono che squilla incessantemente, un dettaglio inquietante inserito appositamente per lasciare lo spettatore con un senso di angoscia persistente.
    • Un Natale rosso sangue è considerato da molti critici e appassionati uno dei primi esempi di slasher moderni e una fonte di ispirazione per film successivi del genere, incluso Halloween e altri classici del terrore stagionale.

    📽️ Stile e impatto
    A differenza di molti horror che puntano su effetti sanguinosi o su un villain iconico, Clark opta per suspense psicologica, uso intelligente dello spazio claustrofobico (la casa delle studentesse) e una tensione costante che non si risolve mai davvero. Anche senza spiegazioni complete sul killer, lo spettatore percepisce una minaccia reale e non mediata, come se l’orrore potesse insinuarsi in ogni stanza o dietro ogni porta chiusa.

    In Italia, il film ha trovato nel tempo una reputazione di cult di nicchia tra gli appassionati di horror anni ’70 e ’80 — non facile da reperire o vedere in TV all’epoca, ma negli anni riaffiorato grazie alle edizioni home video e alle ristampe in DVD/Blu-ray. Questo lento riscatto ha fatto sì che Un Natale rosso sangue venisse rivalutato non solo come pezzo di intrattenimento spaventoso, ma come testimonianza di come il Natale possa essere rappresentato come spazio di vulnerabilità e paura, ben prima che il termine “slasher” diventasse un’etichetta di mercato.

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