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  • Saw – L’enigmista: il thriller modello argentiano di J. Wan

    Saw – L’enigmista: il thriller modello argentiano di J. Wan

    Lawrence e Adam, un chirurgo e un fotografo, si ritrovano imprigionati dentro il bagno di quello che sembra essere un edificio abbandonato; kafkianamente, sono stati rapiti senza conoscerne il motivo. Nel frattempo L’enigmista, un sadico serial killer, ha preparato per loro una trappola dalla quale i due dovranno provare ad uscire…

    In breve. Gran film: tensione, gore, ottima regia e recitazione ne compongono l’andamento. Dentro c’è davvero tutto: suggestioni iniziali alla “Cube”, thriller psicologico, cenni alla Dario Argento dei tempi d’oro, horror e splatter. Un vero e proprio filmaccio che eleva la media del genere, inchiodando a più riprese alla poltrona lo spettatore, e raccontandoci gli orrori del nuovo millennio.

    Bel tipo questo James Wan: idee valide, assoluta padronanza della macchina da presa, ricostruzione asettica e distaccata degli ambienti, buona conoscenza del cinema di genere e, soprattutto, giovane età all’epoca dell’uscita del film. Sembra essere un dato di fatto, del resto, che in molti casi i migliori horror escano fuori nei momenti di gioventù dei registi: nel caso di “Saw – L’enigmista” questo aspetto, pur essendo importante, è forse uno dei meno interessanti.

    Il primo di quella che diventerà una celebre saga (si è perso il conto dei seguiti, che ricalcano bene o male sempre la medesima idea) è un thriller incalzante e violento, dal forte feeling claustrofobico e che si distacca dalla tradizione dell’orrore “vedo-non vedo“, in grado di schiaffare sulla faccia dello spettatore la cruda realtà. Due persone vengono tenute imprigionate da un maniaco che si manifesta esclusivamente mediante una voce (o, al massimo, un video). Si tratta di un crudele serial-killer, “l’enigmista”, dalla storia piuttosto complicata (che i seguiti della saga chiariranno un po’ per volta), il quale ha deciso di imprigionare gli sventurati per un motivo preciso. Nel frattempo, quasi a voler loro insegnare il gusto della vita attraverso una estrema minaccia di morte, ha preparato delle micidiali prove di sopravvivenza, per superare le quali le vittime dovranno ricorrere al proprio istinto e capacità di improvvisazione. Sì, perchè il killer in fondo – paradossalmente – ama la vita, e non sopporta chi, come loro, mostra di averla disprezzata o di viverla in modo passivo.

    “Tecnicamente non è un assassino: lui fa in modo che le sue vittime si uccidano da sole.”

    Simile al predatore di esseri umani de “Il centipede umano“, strizzando l’occhio a Dario Argento in più di un’occasione, disseminando le strade della morte di indizi snervanti ed incomprensibili, “L’enigmista” sembra quasi suggerire un carpe diem in salsa splatter che farà la gioia di centinaia di appassionati, con effettacci insostenibili e situazioni spaventose distribuite in modo uniforme nella pellicola. In effetti questo primo episodio è un carosello del gore mica da ridere: Adam viene costretto a cercare in un putrido cesso un seghetto con il quale, per liberarsi da una catena, sarà costretto a segarsi un piede. Amanda (un’ennesima vittima, perchè – come si scoprirà – ce ne saranno parecchie), tossicodipendente, dovrà cercare la chiave per sbloccare una trappola mortale nelle viscere del suo compagno di cella (narcotizzato, ancora vivo), e così via. Il “gioco” del protagonista è, in sostanza, quello di costringere le sue vittime a ripetere gli stupidi gesti che commettevano nella propria vita, pena un grottesco suicidio se non dovessero riuscire nell’intento.

    Probabilmente uno dei pochi film del genere capace di rendersi interessante anche – secondo me – per chi non fosse, di suo, uno sfegatato fan dell’orrore.

  • Il western di Lucio Fulci: “I quattro dell’Apocalisse”

    I quattro dell’Apocalisse sono il baro Stubby (Fabio Testi), la prostituta Bunny (Lynne Fredrick), un folle e un ubriacone; essi si trascinano tra panorami desolati e territori inospitali, condividendo il viaggio con Chaco (Thomas Milian), un bandito messicano infido e crudele che farà impazzire il più debole dei quattro, trasformando il viaggio in un incubo…

    In breve: uno dei tre western diretti da Lucio Fulci, molto rivalutato al giorno d’oggi anche se altrettanto diluito in interminabili sequenze: la buona interpretazione di Milian fa salire la media, gli altri personaggi rasentano la sufficenza. Secondo dei tre western diretti da Fulci (gli altri due: “Le colt cantarono la morte…e fu tempo di massacro” e “Sella d’argento“), si tratta di una storia piuttosto cupa nella quale il difetto principale è dovuto alla sceneggiatura stessa, che ricalca vagamente gli stereotipi del genere rielaborati in modo “anarchico” – e vagamente sconnesso – dal regista romano. Nonostante alcuni spunti originali ed accattivanti come i fanatici incappucciati, l’uomo “che parla coi morti” e la lezione di stile dei classici americani, siamo piuttosto lontani dal capolavoro: questo film è la conferma che il western, già di per sè complesso da realizzare nella sua limitatezza scenografica, fu forse il genere meno “adatto” alla verve artistica del regista romano. In effetti nonostante si creino degli ottimi presupposti nella prima parte dell’opera, il tutto si smarrisce clamorosamente nella seconda, tra dialoghi un po’ fuori luogo, qualche falla narrativa ed una sceneggiatura poco solida.

    A poco serve, quindi, la figura di Chaco, un bandito crudele che non possiede, all’interno della trama, nè lo spazio narrativo nè la dimensionalità che verrà ad esempio riservata a Milian in “Milano odia..“, oppure – per restare sullo stesso regista – nel capolavoro “Non si sevizia un paperino“. Ispirato da una serie di racconti dello scrittore Francis Brett Harte, ambientato in scenari apocalittici con le consuete sparatorie, aggressioni di banditi senza futuro e rapine in villaggi sperduti, “I quattro dell’Apocalisse” ha dunque diversi elementi che faranno riconoscere il tocco di personalità di Fulci (la tortura dello sceriffo a colpi di lama, oltre ad una scena di cannibalismo che fu una delle tante “bombe” con cui il regista fece “deflagrare il genere“), anche se altri momenti – pur concepiti con una certa poesia e sensibilità, come il finale straziante – possono risultare semplicemente noiosi agli occhi dello spettatore moderno.

    Credo che il problema principale, come scrivevo prima, sia dovuto alla limitatezza dell’ambientazione, alla necessità di dare certe dinamiche alla storia, che rendono il tutto piuttosto debole sia come impianto scenografico che come interpretazione (Fabio Testi è poco credibile nel complesso, anche se il suo personaggio sembra piuttosto promettente). Del resto western di genere davvero imperdibili a livello di “terrorismo” di genere – penso a Se sei vivo spara – ce ne sono pochi in giro, e “I quattro dell’Apocalisse” mi sento di consigliarlo solo al pubblico di appassionati di Fulci, suggerendo a tutti gli altri un qualsiasi giallo o un horror del periodo d’oro.

  • L’invenzione di Morel di Emidio Greco è pura fantascienza italiana anni Settanta

    Cosa rimane degli attimi trascorsi piacevolmente assieme ai nostri amici, oppure ai nostri cari? Dove viene fisicamente riposto il passato che scorre inesorabile? Sono le tematiche affrontate dal cultL’invenzione di Morel“, girato dal regista Emidio Greco, tratto dal romanzo omonimo di Adolfo Bioy Casares e presentato a Cannes nel 1974.

    “L’invenzione di Morel” è stata una piacevole scoperta che ho fatto grazie a “Fuori Orario” di Enrico Ghezzi su Rai Tre qualche anno fa: si tratta di uno dei più atipici ed alienanti sci-fi che abbia mai visto, realizzato con pochi mezzi tecnici ma con altrettanta intensità. In esso si narra di un naufrago che approda su un’isola deserta, e che scorge quasi immediatamente delle persone distinte che sembrano risiedere sul posto: tra gli altri scorge Faustine (Anna Karina), la prima che cerca di avvicinare ma che, stranamente, sembra non considerarlo affatto. La cosa ancora più strana è che, penetrando in una enorme villa, il naufrago (Giulio Brogi)  si rende conto che tutti i suoi inquilini lo ignorano: deciso a scoprire la verità su quella paradossale situazione, assiste ad una riunione indetta dal padrone di casa, Morel (John Steiner), il quale rivela di un esperimento che avrebbe eseguito a loro insaputa durante i loro sette giorni di permanenza.

    “Noi stiamo recitando anche in questo momento: tutti i nostri atti sono rimasti registrati. Avrei potuto dirvi, appena arrivati: vivremo per l’eternità…”

    Nella propria folle e romantica filosofia di vita, Morel ha fatto in modo che i momenti trascorsi assieme alla donna amata ed ai suoi amici più cari venissero immortalati da una macchina-registratore in modo talmente fedele da renderli replicabili ed indistinguibili dalla realtà. A tale scopo ha creato il macchinario – appunto, la sua “invenzione”, che registra tutto quello che accade attorno alla stessa e lo ripete all’infinito, omaggiando così la piacevolezza di quegli attimi e cercando di renderli eterni per i presenti.

    Così il povero naufrago-evaso si trova, suo malgrado, a vivere dentro quel mondo fatto di mere proiezioni: persone artificiali che hanno già vissuto e che non possono, loro malgrado, interagire con lui. Del resto sulla solitudine del singolo che sfida la morte verso l’eternità, espressa dal trovarsi letteralmente “dentro un’opera d’arte” (in quel caso un quadro) sarà un’idea di Sacchetti e Fulci qualche anno dopo nel celebre ed inquietante “…e tu vivrai nel terrore! L’aldilà”. Allo stesso modo il naufrago è coinvolto in un mondo creato da un altro essere umano, talmente realistico da sembrare vero.

    Praticamente impazzito dopo aver scoperto la verità, e consapevole di essere innamorato di una semplice immagine, il naufrago tenta di manipolare la macchina allo scopo di entrare anche lui nella proiezione, in modo da poter essere notato da Faustine. Alla fine si accorgerà che la macchina sta distruggendo il suo corpo reale, e spaccherà disperatamente il marchingegno, mentre il suo corpo sta visibilmente invecchiando: quelle persone, infatti, sono vissute molti anni prima del suo arrivo.

    Noi tutti vivremo in quella fotografia… sempre!

    Uno dei capolavori, forse tra i più sottovalutati, della storia della fantascienza italiana.

  • I miserabili: trama, cast, curiosità, produzione

    “I miserabili” del 1998 è una versione cinematografica dell’omonimo romanzo di Victor Hugo, diretta da Bille August. Ecco alcune informazioni sul film:

    Cast Principale:

    • Liam Neeson nel ruolo di Jean Valjean.
    • Geoffrey Rush nel ruolo di Ispettore Javert.
    • Uma Thurman nel ruolo di Fantine.
    • Claire Danes nel ruolo di Cosette.
    • Hans Matheson nel ruolo di Marius.
    • Natalie Baye nel ruolo di Madame Thénardier.
    • Claire Rushbrook nel ruolo di Madame Thénardier giovane.
    • Christopher Adamson nel ruolo di Montparnasse.
    • John McGlynn nel ruolo di Père Fauchelevent.

    Recensione e Critica: “I miserabili” del 1998 ha ricevuto recensioni miste da parte della critica. Mentre alcune recensioni hanno elogiato le performance degli attori principali, la scenografia e la fedeltà al materiale originale, altri critici hanno trovato il film piuttosto lento e privo di energia rispetto ad altre adattamenti della storia. La recitazione di Liam Neeson come Jean Valjean è stata generalmente ben accolta, così come quella di Geoffrey Rush nel ruolo di Ispettore Javert. La colonna sonora e la cinematografia del film sono state anche elogiate.

    Produzione: Il film è stato prodotto da Sarah Radclyffe e James Gorman ed è stato girato in varie location in Francia, tra cui Parigi.

    Curiosità:

    • Questa versione di “I miserabili” è stata girata principalmente in lingua inglese, con attori di lingua inglese che interpretano i personaggi francesi. Questa scelta ha ricevuto alcune critiche da parte di coloro che preferiscono un adattamento più fedele dal punto di vista linguistico.
    • Il film è una delle numerose trasposizioni cinematografiche del celebre romanzo di Victor Hugo. La storia è stata adattata in film, musical e serie televisive molte volte nel corso degli anni.
    • Nonostante la divisione della critica, il film ha ricevuto una nomination per l’Oscar per la miglior canzone originale per la canzone “A Heart Full of Love.”

    “I miserabili” del 1998 offre una delle tante interpretazioni cinematografiche della storia di Victor Hugo ed è considerato da alcuni come un adattamento fedele, mentre altri preferiscono altre versioni cinematografiche o teatrali della stessa storia.

  • C.H.U.D.: l’orrore nelle fognature

    Nella città di New York si verificano ripetute scomparse di persone di ogni estrazione sociale: il capitano di polizia indaga sul caso, scoprendo progressivamente una incredibile verità.

    In breve. Poco noto in Italia, probabilmente, ma rientra nelle chicche del genere completamente da non perdere. Per intenditori del genere anni ’80, e per pochi altri.

    Chi si nasconde nei bassofondi delle fogne di New York? Secondo una diffusa leggenda urbana, con un fondo di verità, dei coccodrilli o dei caimani: la versione più popolare di questa storia impone che siano grandi, grossi, affamati e albini, per via della manca di luce solare. I coccodrilli nel sistema fognario di NY sono una delle urban legend più potenti mai raccontate, ed in questo film di Douglas Cheek si respira, fin da subito, aria di urban legend. Solo che non si tratta di rettili, in questo caso, bensì di creature umanoidi dagli occhi luminosi, che sembrano cibarsi degli esseri umani e che, secondo una certa opinione pubblica, non sarebbero altri se non i barboni che affollano le strade. Col tempo, un fotografo ed un poliziotto scopriranno la verità.

    Le creature hanno il potere di chiudere il cielo…

    C.H.U.D. – che è un acronimo che fa riferimento sia a “Cannibalistic Humanoid Underground Dweller” che a “Contamination Hazard Urban Disposal” – parte col botto, senza preamboli nè orpelli narrativi: un campo lungo su una strada desolata, con una donna che porta in giro il proprio cane. Da un tombino fuoriesce uno strano fumo; la donna si avvicina un po’ troppo e, neanche a dirlo, viene trascinata in basso da una creatura misteriosa. La dimensione è quella del classico horror anni 80 che tutti conosciamo, del resto a metà anni 80 l’horror era così: diretto, immediato, senza complimenti. Un film che, peraltro, presenta anche una certa importanza come cult, tant’è che in tempi recenti è stato apertamente citato come ispirazione per US di Jordan Peele.

    Nel film si intrecciano più storie parallele, dimensione atipica per un horror del genere che, in genere, ne racconta quasi sempre una, focalizzandosi su al massimo un paio di protagonisti o di villain. I personaggi minacciosi della storia sono volutamente indefiniti, ma si intuisce senza neanche troppo sforzo che vivono nelle fognature e ogni tanto si affacciano per cibarsi di qualche essere umano. I vari personaggi saranno successivamente destinati ad incontrarsi nel seguito, mentre la trama introduce il sospetto che dietro le sparizioni possa esserci un complotto del governo americano.

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