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  • Una lucertola con la pelle di donna: quando il thriller psicologico era made in Italy

    Una lucertola con la pelle di donna: quando il thriller psicologico era made in Italy

    Thriller dalle tinte enigmatiche, con ottimi sprazzi horror che devono, onestamente, più di qualcosa ad un certo Dario Argento: l’altro regista romano era appena entrato sulle scene, circa un anno prima, con “L’uccello dalle piume di cristallo“. Ovviamente, in questa sede, Fulci veniva da altre apprezzate escursioni nel genere (“Non si sevizia un paperino” su tutti), per cui scrive e dirige questo film con massima perizia e intelligenza, senza cadere nelle banalità e negli stereotipi tanto frequenti in quegli anni.

    In breve: un cult del giallo all’italiana, con una certa contaminazione poliziesca e suggestive allucinazioni.

    Una lucertola con la pelle di donna è probabilmente il giallo anni Settanta per eccellenza: o quantomeno, lo è nel suo incedere psichedelico e imprevedibile, dove la struttura narrativa è spesso affidata ad una specie di flusso di coscienza. La prima sequenza è magistrale in tal senso: vediamo il personaggio interpretato da Florinda Bolkan muoversi a fatica in una folla che sembra ignorarne le difficoltà. Una folla che è prima quella di un treno, poi una massa di uomini e donne nude in un corridoio, poi – ancora – il vuoto delle tenebre, in cui fa la propria comparsa una donna misteriosa (Anita Strindberg, non accreditata ufficialmente nei titoli) che ride e suscita quel singolare mix di repulsione, attrattività e spavento tipici del sesso e dell’amore. La sequenza diventa erotica, con primi piani sul volto dell’attrice che si risveglia da quello che sembra essere stato un sogno, e si scopre avere una chiave di lettura psicoanalitica. Un giallo erotico, per molti versi, nel quale la componente di questo tipo è sostanziale e non preponderante.

    Ambientato nella Londra settantiana, Una lucertola con la pelle di donna narra di questa donna benestante (Carol) che viene accusata di aver assassinato la propria vicina, una hippie libertina ai suoi antipodi, forse in preda a un raptus omicida. La donna non sembra consapevole di ciò che potrebbe aver fatto, che sembra provenire dal proprio inconscio e trova una sorta di reazione violenta o una forma di gelosia per la vita libertina della vicina dicasa. Poi racconta di aver sognato l’omicidio giusto nel momento in cui avveniva, il che incrementa i sospetti e suggerisce una narrazione in bilico tra realtà e sogno. Il film di Fulci, all’epoca ancora nel mood puramente giallistico, diventa soprattutto un gioco di specchi e di sospetti: come nella tradizione argentiana, chiunque (o quasi) dei personaggi potrebbe essere responsabile del delitto, per quanto lo spettatore sia spinto a sospettare esclusivamente di Carol. Che ad un certo punto verrà pure, kafkianamente, arrestata, fino alla imprevedibile conclusione della storia.

    Fulci gioca per tutto il film a farci credere che le cose non stiano come sembra, mescolando con intelligenza realtà e fantasia, sogno e verità, fino a lasciarci un messaggio di fondo: tutto quello che sognamo di fare, in fondo, siamo nelle condizioni di realizzarlo, anche se dobbiamo essere disposti a pagarne le conseguenze.

    La celebre scena di questo film, che vede la Bolkan aggirarsi all’interno della clinica in cui è ricoverata (e che ricorda per certi versi quanto vedremo nella sequenza dell’ospedale de “L’Aldilà…“) è un autentico capolavoro del cinema di genere.

    La scena censurata

    In particolare, l’allucinazione con i cinque cani smembrati vivi (presente ad esempio nel sito movie-censorship.com), con tanto di organi palpitanti bene in vista, assume anch’essa nel suo orrore una valenza fortemente simbolica.

    All’epoca fu considerata talmente realistica per l’epoca che Fulci fu costretto a ricreare l’effetto in tribunale per mostrare che non ci fosse stato maltrattamento di animali: tutto si risolse al meglio per il regista romano, che riuscì a provare la propria innocenza. Ma l’effetto rimane crudo, sostanziale, difficile da guardare senza ricordarsi che si tratta solo di un film.

    Una lucertola con la pelle di donna, in definitiva, è il thriller anni Settanta italiano che strizza l’occhio alla psicoanalisi, la stessa che Fulci non sembrava amare (come testimoniato in un’intervista molto citata sul cinema horror). Uno di quei film immarcescibili, di culto, condito di elementi surreali e simbolici e focalizzato sull’equilibrio tra vite contrapposto: quelle di un personaggio libertino e quella di una donna frustrata, che probabilmente uccide per una forma di odio sociologico per l’altro. Tematiche che, sia pure con toni saggistici, sono stati affrontati ad esempio da film come Metti, una sera a cena.

  • Departures: Yojiro Takita

    Un film che ci porta alla scoperta delle antiche cerimonie giapponesi di preparazione dei defunti, il “Nokanshi”

    Una pellicola che ha diviso critica e spettatori in due opposte fazioni. La prima che lo considera un capolavoro cinematografico che tocca il cuore, con tutti gli ingredienti giusti: bellezza, musica, morte e abbandono. E la seconda che lo ritiene sopravvalutato. Se le uniche due certezze nella vita sono la morte e le tasse, allora Departures, di Yojiro Takita, film vincitore dell’Oscar 2008 come miglior pellicola straniera, è una certezza fondamentale, arricchita di profondo e macabro umorismo.

    Al centro della vicenda c’è Daigo (interpretato da Masahiro Motoki) giovane violoncellista costretto a lasciare il suo agognato lavoro in un’orchestra sinfonica di Tokyo, che viene sciolta per mancanza di fondi. Distrutto e deluso ammette, con riluttanza, a sua moglie, Mika (Ryoko Hisosue), di essere sprofondato nei debiti per l’acquisto del suo violoncello. Senza vedere all’orizzonte nessun’altra via d’uscita vende lo strumento, e torna alla sua sonnolenta città natale, nella casa che gli ha lasciato la defunta madre.

    Mika accoglie con gioia questo grande cambiamento nelle loro vite. È affascinata dalle storie e dai ricordi che la vecchia casa contiene. Soprattutto cerca di capire i motivi che si celano dietro all’allontanamento del padre di Daigo, che ha lasciato la famiglia quando lui aveva solo sei anni. Abbandono che lo ha profondamente turbato. Alla ricerca di una nuova carriera, Daigo risponde a un annuncio intitolato “Departures” (partenze), pensando si tratti del settore viaggi – in effetti lo è, ma si riferisce soltanto all’ultimo viaggio! ;-) Al momento del colloquio realizza, invece, che l’annuncio ha un errore di stampa: avrebbe dovuto trattarsi di “The Departed” (defunto).

    Il proprietario della società, Sasaki (Tsutomu Yamazaki – già presente in The Funeral di Juzo Itami), un uomo di poche parole, è un artista maestro del nokanshi”, cerimoniale funebre tipico giapponese. Attratto da un lauto stipendio e costretto dalla necessità, fa buon viso alle difficoltà iniziali e – pur inizialmente inorridito dalla realtà del suo lavoro – decide di accettare. Vergognandosi della sua nuova posizione, lo tiene segreto a moglie ed amici, fino al momento in cui Yamashita (Tetta Sugimoto), uno dei suoi amici d’infanzia, lo scopre e comincia ad evitarlo, stigmatizzandolo come a volerlo declassare ad un livello sociale inferiore. Anche Mika lo umilia e gli chiede di dimettersi perché lo trova “impuro”; vuole che abbia un lavoro “normale“, affermazione alla quale lui risponde “la morte è normale”.

    In questo passaggio è evidente la sostanziale differenza di concezione della morte, tra occidente ed oriente. Se fosse in occidente nessuno ci presterebbe particolare attenzione, e tutto si risolverebbe con una “toccatina” apotropaica e qualche battuta usurata. In Giappone, invece, la cosa ha ben altro senso: il rituale funebre, il legame con i morti, il tessere intorno a loro una specie di seconda vita con la cerimonia del “nokanshi”, è parte integrante e forte di quella cultura (da vedere, per esempio, la bellissima sequenza di Vivere di Kurosawa).

    Dopo il primo momento di rifiuto e disgusto, quasi una paura di contaminazione che forse ci detta anche l’istinto di sopravvivenza, che vuole allontanare il più possibile il contatto con la morte, Daigo comprenderà non solo l’importanza della compassione, ma anche quanto sia sottile la linea che separa vita e morte, anzi quanto facilmente si possa annullare la divisione per arrivare a capire che sono complementari: due facce della stessa medaglia. Emblematica in tal senso è la scena dei due salmoni che risalgono a fatica il fiume sfidando la corrente contraria, mentre uno, morto, ridiscende. Daigo si domanda il perché di tanto sforzo solo per andare a morire, e l’anziano che gli è accanto risponde che i salmoni vogliono morire laddove sono nati. Ogni cosa finisce dove è iniziata: Daigo diventerà un abile tanato-esteta.

    L’accurato cerimoniale inizia con la pulizia-purificazione del cadavere (senza che chi assiste veda anche un solo lembo di pelle), per prepararlo a iniziare il suo nuovo percorso, e proseguire riportando la bellezza della vita nei volti sfigurati dalla morte: come un ultimo gesto d’amore sia verso i defunti, che così manterranno la loro bellezza per sempre, ma soprattutto per coloro che li avevano amati, che potranno mantenere il ricordo di com’erano in vita i loro cari. Per completare il viaggio alla ricerca di se stesso e dell’armonia a Daigo manca un ultimo passaggio, quello della riconciliazione con il padre che lo aveva abbandonato da piccolo, e contro il quale mantiene il forte rancore di chi si sente rifiutato.

    Tra le scene ricorrenti c’è quella di Daigo bambino che suona il violoncello in riva al fiume, e dello scambio di due sassi tra padre e figlio, con la promessa, poi non mantenuta, che ce ne sarebbe stato uno ogni anno. Il significato di questo scambio di sassi resterà indelebile nella sua memoria, a differenza del volto di suo padre, che pur sforzandosi Daigo non riuscirà a ricordare.

    Ed è qui che appare evidente che Departures è anche un bell’esempio di come possa evolvere il complesso paterno. Questo spiega, a sua moglie mentre le porge un sasso:

    Nell’antichità, quando gli uomini non avevano la scrittura, per comunicare cercavano un sasso la cui forma esprimesse i loro sentimenti e lo inviavano ad un’altra persona.  Chi lo riceveva, dalla sensazione al tatto e dal peso capiva i sentimenti di chi lo aveva inviato. Un sasso liscio, per esempio, per comunicare serenità d’animo e felicità. Uno ruvido e spigoloso trasmetteva preoccupazione per l’altro”.

    Era questo che gli aveva spiegato suo padre: e quel sasso avvolto nello spartito e conservato con il violoncello era il sasso parlante che lui gli aveva dato.

    Daigo è arrabbiato: “Il fatto era che ci saremmo scambiati un sasso parlante ogni anno, alla fine, solo quella volta. Che idiota!”. Mentre ascolta la musica preferita del padre ha quel sasso tra le mani, ci giocherella, non riesce a staccarsene. L’energia è tutta lì, sia per odiare, ma anche per una specie di speciale attrazione che lo fa stare lì, su questa sua parte non risolta. “Mia madre mi ha allevato completamente da sola” dice Daigo. “Mio padre non è altro che un verme. Gestiva un piccolo caffè, ma poi è fuggito con la cameriera ed è scomparso: un padre inesistente.” Alla domanda “chissà cosa farà ora” lui risponde: “sarà già morto da tanto tempo” – “Se tu lo rincontrassi?” – “Lo picchierei”. Daigo racconta la sua ferita, ed i suoi commenti sul padre sono carichi di rabbia. La signora del bagno pubblico, vecchia amica di sua madre, confida alla moglie di Daigo:”Quando i suoi si sono separati, davanti alla sua mamma lui non ha mai pianto, mai, neanche una volta. Ma quando veniva qua ed era solo, piangeva, vedevo le sue spalle ossute scuotersi per i singhiozzi.

    Un dolore vissuto da solo, non condiviso, che ha scavato nel profondo e si è incistato chissà dove. Una ferita alimentata negli anni non solo dalla perdita del padre, ma anche dal dolore vissuto dalla madre. È tutto fermo lì. Fino al momento dell’incontro con il padre defunto. Quello che all’inizio era una negazione, diventa una possibilità. Arrivato a cospetto del cadavere di suo padre, un pescatore gli rivela aspetti di quell’uomo a lui sconosciuto. Un uomo che è arrivato da solo, ed è sempre stato solo.

    Non so da dove venisse. Era comparso in città un giorno. Era solo. Qua al porto si è sempre dato un gran da fare… era taciturno… era difficile strappargli una parola.

    Daigo si interroga:

    Che significato avrà mai avuto la vita di quest’uomo? Ha vissuto per più di settant’anni, e quello che lascia è una scatola di cartone”.

    All’arrivo degli addetti delle pompe funebri, che approcciano il defunto con i loro modi frettolosi e irrispettosi, si infastidisce e li ferma. Decide di preparare lui la salma.

    E qui l’incontro.

    Quei gesti di accudimento lo portano a scoprire, che suo padre è morto stringendo tra le mani il sasso che lui, bambino, gli aveva dato tanti anni prima. E qui si sciolgono tutte quelle emozioni rimaste congelate per anni, scendono le lacrime, cautamente, con pudore, Daigo finalmente sente il dolore di tutto quello che è mancato, a lui e a quest’uomo che ha appena incontrato. Pian piano il volto del padre si ricompone anche nel suo ricordo. Adesso che ha rincontrato suo padre, potrà anche lui essere padre.

    Questa pellicola, è innegabile, ha una sua originalità e una gradevolezza che viene da una piacevole mistura di umorismo e malinconia, soprattutto nelle prime scene. Nei primi piani del viso di Daigo, nelle sue smorfie, nei suoi continui spiazzamenti rispetto agli eventi della vita, nella ricostruzione puntuale del rito del “nokanshi”, nei tipici paesaggi nipponici (ciliegi fioriti che contrastano cime innevate, e l’immancabile monte Fuji).

    Si tratta di un’opera ben diretta, senza dubbio in grado di coinvolgere e commuovere lo spettatore. L’impianto narrativo studiato da Kundo Koyama, autore della sceneggiatura, segue perfettamente i dettami classici di scrittura: il percorso di crescita morale e di maturazione del protagonista procede attraverso un’ininterrotta sequela di ostacoli da superare.

    Unica pecca di questa pellicola: il netto contrasto tra incipit convincente e finale riscattato da un pathos in grado di coinvolgere anche i cuori più pietrificati, e un lungo segmento centrale eccessivamente statico, che inceppa il marchingegno narrativo e poi frana nella lunga digressione musicale che vorrebbe segnalare al pubblico lo scorrere del tempo. Per quanto la componente antropologica e sociale a cui fa riferimento sia intrisa fin nei minimi dettagli di cultura giapponese, Departures potrebbe definirsi un film hollywoodiano, nella sua perfetta parabola umana di caduta e rinascita, nonché di accettazione della propria memoria e della propria storia.

    Qualcuno ha addirittura definito questo film “politicamente scorretto”, perché osa parlare della morte in una società che tenta in ogni modo di allontanarla dall’orizzonte umano. Uno scandalo, in un mondo alla ricerca della ricetta dell’eterna giovinezza. Per questo è stata coraggiosa la scelta dei giurati dell’Academy Awards di premiare Departures con l’Oscar come miglior film straniero, avendo in lizza pellicole importanti come “La classe” (Palma d’oro a Cannes) e “Valzer con Bashir” (Golden globe).

    Coraggiosa anche la decisione di Takita di girare un film in cui la vera protagonista fosse la morte. Takita, regista che non definirei indimenticabile, con questo film sforna la sua creatura migliore, la più compatta ed evocativa. Affronta l’estrema nemica da un punto di vista originale, mettendo sul piatto della bilancia un carico di emozioni con le quali diventa veramente arduo non empatizzare, un perfetto equilibrio di tragedia compassionevole e umorismo grottesco molto ben raffigurato e sapientemente gestito.

    Un film sulla morte che riconcilia con la vita e con il ricordo dei propri cari che non ci sono più. È a loro che va l’ultimo pensiero, con le parole del regista Yojiro Takita:

    “è destino di tutti accompagnare qualcuno, è destino di tutti essere accompagnati”

    Il funerale in Giappone

    Le usanze funebri giapponesi variano molto da regione a regione, anche se alcuni aspetti sono standard in tutto il paese. Il 91% dei funerali giapponesi viene celebrato secondo la tradizione buddista.
 Subito dopo la morte, i parenti inumidiscono le labbra del defunto con acqua. Quando si verifica un decesso, i santuari all’interno delle abitazioni giapponesi vengono chiusi e coperti con carta bianca, per tenere lontani gli spiriti impuri. Talvolta viene posto un pugnale sul petto del defunto per scacciare gli spiriti maligni.

    Vengono posti anche un kimono bianco tradizionale, una fascia bianca con un triangolo al centro, sandali e soldi per pagare il pedaggio attraverso il fiume dei tre inferni, come vuole la tradizione buddista. 
Il corpo viene sistemato davanti all’altare di famiglia, mentre il parente più prossimo veglia accanto ad esso, fino al momento della sepoltura, senza lasciarlo mai da solo. Gli ospiti che giungono alla veglia per offrire le loro condoglianze lasciano una busta speciale avvolta da un nastro bianco e nero, contenente soldi: l’importo varia a seconda del grado di parentela dell’ospite e viene indicato all’esterno della busta, poi si avvicinano al feretro, suonano il campanello dell’altare e pregano.

    Una tavoletta di legno con inciso il nome del defunto viene posta sull’altare o davanti ad esso: si tratta del nome postumo assegnato dal sacerdote. Il nome postumo, o kaimyo, è un nome diverso da quello che la persona ha avuto in vita, e che si suppone aiuti ad evitare che il defunto ritorni ogni volta che viene pronunciato il suo nome. La lunghezza del nome dipende anche dalla durata della vita della persona, o più comunemente, dall’entità della donazione dei parenti al tempio: non è raro che alcuni templi facciano pressione sulle famiglie per l’acquisto di un nome più costoso. Le salme vengono cremate.

    I membri della famiglia assistono mentre la bara procede verso il fuoco e attendono che venga comunicata l’ora per andare a ritirare i resti. La famiglia torna poi a casa facendo un percorso modificato, per evitare che lo spirito del defunto segua la famiglia verso casa. Al momento stabilito, ad ognuno dei membri viene dato un set di bacchette per raccogliere i resti e posizionarli nell’urna. L’addetto di solito indica quali sono i pezzi importanti da raccogliere. Le ossa dei piedi vengono raccolte per prime, per ultime quelle della testa, questo per garantire che il defunto non sia a testa in giù nell’urna.

    Questa operazione viene effettuata contemporaneamente da tutti i membri della famiglia; questa usanza spiega il perché, quando due persone prendono un pezzo di cibo allo stesso tempo con le bacchette, esse tendano a ritrarsi immediatamente, in quanto ciò avviene unicamente per porre i resti di un defunto nell’urna.

    Titolo originale: Okuribito – (おくりびと)


    Traduzione letterale: “Persona che accompagna alla partenza”


    Genere: drammatico, psicologico


    Paese: Giappone


    Durata: 130 minuti


    Anno di uscita: 2008


    Tratto: storia originale, ma liberamente ispirata dal libro “Coffinman: The Journal of a Buddhist Mortician” di Shinmon Aoki

    Regista: Yojiro Takita


    Sceneggiatura: Kundo Koyama


    Musiche: Joe Hisaishi

  • Freaks (1932): Tod Browning racconta le storie di veri fenomeni da baraccone

    Hans è un nano da circo innamorato di una trapezista, la quale ne asseconda le galanterie solo per convenienza.

    In breve. L’unico difetto di Freaks è che non vedremo mai la versione uncut, perchè venne massacrata dalla censura per via delle reazioni negative del pubblico dell’epoca. Al netto di questo, un capolavoro crudele e significativo, che lascia il segno ancora oggi.

    Può una donna amare davvero un nano? Leggere più volte la tagline di Freaks è il modo migliore per approcciare alla sua visione: film del 1932, recitato secondo i canoni espressionisti e tormentato da numerosi problemi di scandali e di distribuzione. Tra i film maledetti forse per eccellenza, peraltro, dato che una parte del film particolarmente cruda pare sia andata perduta per sempre: as usual, tagliata dalla censura d’epoca.

    La storia è semplice: una trapezista bella e calcolatrice di nome Cleopatra, intepretata da Ol’ga Vladimirovna Baklanova, approfitta biecamente dell’invaghimento del nano Hans (Harry Earles) per farsi prestare denaro e ricevere regali di ogni genere. Non solo: fa finire la precedente relazione dell’uomo (che ha un’aspetto da bambino e, per inciso, interpreta splendidamente la parte) e, durante un matrimonio simulato, cerca più volte di avvelenare il consorte al fine di rubargli l’eredità.

    Questo scatenerà una feroce vendetta da parte dei freaks, che si rivolteranno contro i “normali” in una modalità piuttosto brutale e con reminiscenze strutturali del racconto Hop-Frog di Poe: lei sarà mutilata e diventerà una spaventosa “donna gallina”, mentre il suo amante sarà castrato e avrà un futuro da cantante in falsetto (quest’ultimo dettaglio non si vede nel film, ma era previsto dalla sceneggiatura originale). Esiste anche un lieto fine imposto dalla MGM, in cui si mostra Hans in una bella casa da miliardario ovviamente riappacificato con Frieda: questa sequenza, nella versione in streaming su Amazon Video, non sembra essere presente.

    Most big people do, they don’t realize that I’m a man with the same feelings they have (Hans)

    Se Freaks è consolidato a livello di cult assoluto, ovviamente, i motivi sono tanti: non ci sono effetti speciali veri e propri, perchè se vediamo un uomo senza gambe camminare con le mani o un’altro senza arti accendersi una sigaretta il risultato, ancora oggi, è ancora più impressionante. Questo dipende anche dalle storie che si raccontarono all’epoca, tra cui quella di una donna che fece causa alla MGM (distributrice del film) perchè, a suo dire, aveva subito un aborto spontaneo dopo aver visto il film. Ad ogni modo, Steven Schneider inserisce Freaks tra i 1001 film da vedere prima di morire – e noi ci sentiamo di dargli ragione, a pieno diritto.

    Il soggetto di Freaks è tratto dal romanzo breve Spurs di Tod Robbins, a cui il regista pensava già dal 1927. I veri protagonisti della pellicola furono, storicamente, quelli che comunemente o cinicamente chiamiamo freak: non nel senso squisitamente zappiano del termine, bensì vari uomini e donne affetti da una qualche anormalità o deformità fisica. Ad esempio il nano Harry Earles, la donna barbuta Olga Roderick (che dopo le riprese rinnegò la sua partecipazione, a quanto pare), Frances O’Connor e Martha Morris (le due ragazze senza braccia), le gemelle siamesi Daisy e Violet Hilton, Zip & Pip (Elvira e Jenny Lee Snow), l’ermafrodita Josephine Joseph; Johnny Eck ovvero l’uomo senza gambe, Prince Randian senza nè braccia nè gambe, Koo-Koo “la ragazza uccello” e Schlitze (vestito da donna per motivi di incontinenza).

    Il regista aveva lavorato in un circo in gioventù, sia come clown che come contorsionista: la sua familiarità con quell’ambiente fa finito per ispirarlo nel realizzare questo lavoro, che in effetti ci trasporta in modo molto credibile all’interno di un circo, in cui i “fenomeni da baraccone” (senza braccia, senza gambe, nani, con la testa a punta e via dicendo) vengono derisi e segretamente discriminati o sfruttati dai “normali“.  All’epoca fece scalpore, e anche tanto, che Browning avesse scelto di usare autentici freak come attori, risparmiando sugli effetti speciali e conferendo alla pellicola un che di realistico che, visto ancora oggi, fa realmente impressione.

    Gli intenti di denuncia sociale e di volontà di far riflettere il pubblico su una vicenda tragica e romantica per definizione vennero, all’epoca, travisati come volontà di strumentalizzare gli attori e le rispettive deformità: cosa che Browning non ha mai fatto, proprio perchè mostra i vari uomini e donne discriminati e vittime del cinismo e della perfidia dei cosiddetti “normali”. Al tempo stesso, un film del genere sarebbe improponibile a qualsiasi produzione ancora oggi, motivo per cui lo stato di cult si è consolidato nel tempo, finendo per fare le scarpe (soprattutto a livello visuale) a qualsiasi altro horror eccessivo o violento sia mai stato prodotto.

    Negli Stati Uniti, non a caso, Freaks è stato bandito in numerosi stati e città, e a quanto pare ancora oggi è tecnicamente illegale organizzare proiezioni di questo lavoro in molte zone degli Stati Uniti. Nel Regno Unito e in Australia, peraltro, questo film è stato bandito per più di 30 anni dopo la sua prima uscita, e in Italia non è mai ufficialmente arrivato (su Amazon Video è disponibile solo in inglese sottotitolato in italiano).

    C’è anche un’altra cosa da osservare: se questo film fosse uscito qualche anno dopo, sarebbe quasi sicuramente stato vittima di facili spettacolarizzazioni, soprattutto che insistessero inutilmente sull’aspetto dei protagonisti o, peggio ancora, trasformando la vicenda in uno snuff e/o shoxploitation. Browning, per quanto massacrato dalla censura (la versione che ci è arrivata del film non è, quasi certamente, una director’s cut), sembra invece molto attento a dosare il linguaggio ed i contenuti, ed è abile a “caricare a molla” la storia, mostrando la derisione e l’arroganza dei due villain per poi esplodere in faccia allo spettatore la fase di revenge.

    Distribuito per un certo periodo coi titoli “Forbidden Love“e “Nature’s Mistakes“.

  • Suicide Club è il circolo della morte di Shion Sono

    Tokio sembra essere in preda ad un’epidemia di suicidi: prima 54 adolescenti si gettano sotto un treno, poi un’infermiera si lancia nel vuoto e degli studenti emulano il gesto dal balcone della scuola. Un poliziotto indaga sulla questione scoprendo verità inquietanti…

    In breve. Diffidate da qualsiasi recensione o parere troppo entusiastico, perchè il film non riesce a cogliere nel segno. L’incipit è memorabile, senza dubbio, ma seguono troppi accenni, troppi elementi sconnessi, una certa smania di stupire e delle interpretazioni non sempre di livello. Un’idea che forse, in altri contesti, sarebbe potuta essere più accattivante.

    Diretto nel 2002 dal visionario Shion Sono (già noto per il terrificante e fuori dalle righe Strange circus), Suicide Club (noto anche con il titolo “Suicide Circle“) è a mio parere un film riuscito solo a metà: se da un lato scatena suggestioni impulsive – il suicidio è senza dubbio uno dei tabù più colossali della società moderna – e nonostante riesca a divagare con una certa coerenza, un sentito gusto per il grottesco e per l’esagerazione sul tema, ne risulta una pellicola ampiamente sopravvalutata e sopravvalutabile. Suicide Club, pertanto, evoca più la più classica delle occasioni perse.

    Non male il livello di splatter, per quanto molte scene siano ai limiti dell’artigianalità più grossolana(quasi a livello di certi b-movie italiani anni 80); decisamente più suggestive molte delle scene topiche, tra cui il suicidio in metropolitana che vediamo all’inizio, e le morti più improbabili che rivaleggiano con quelle viste in “Final Destination“. La parola “capolavoro”, tanto abusata in queste circostanze, ci deve ricordare che non basta scomodare temi forti per essere considerati cineasti di livello: è anche questo di come si racconta. Questo difetto, a mio avviso, si concretizza per almeno due ragioni: da un lato non si capisce quasi per nulla dove il regista sia voluto andare a parare (cosa piuttosto chiara, invece, nella metafora circense del succitato film), dall’altro la trama appare piuttosto sconnessa, caotica – in certi passaggi si fatica a capire cosa stia succedendo. Il finale è visionario o realistico, ad esempio?

    Nonostante alcune trovate crudeli quanto azzeccate – la cintura di pelle umana è destinata a scolpirsi nella memoria di tutti gli spettatori – vi sono troppi momenti di sottovuoto spinto che fanno calare l’attenzione, e non riescono (a mio parere, ovviamente) a coinvolgerlo come si dovrebbe. Eppure le idee non mancano, del resto il tema era ghiotto: il focus è posto sull’alienazione dell’uomo moderno, svilito da mille giocattoli futili e disumanizzato al punto di sentirsi “solo tra la folla” come unica, autentica, condizione di esistenza. Una solitudine lacerante che porta a voler terminare la propria vita anche senza una ragione, forse semplicemente perchè la società lo imporrebbe, con i suoi ritmi pressanti ed autodistruttivi. Altri cineasti hanno mostrato in questa direzione, e pur sviluppando trame a volte ai limiti dell’astrattismo puro (penso a Tetsuo, ma anche a Izo e a Der Todesking) sono riusciti a cogliere nel segno: il regista Sono, al contrario, concretizza diversi incubi metropolitani moderni in perfetta penombra, e mostra teenager incoscenti propensi a trovarsi una fidanzata con la stessa tranquillità con cui commetterebbero un suicidio di massa.

    Del resto non sarebbe stato male lasciare un punto interrogativo sulla natura dell’eventuale setta che sembra aver condizionato le menti dei giovani mediante internet: ma i particolari del puzzle appaiono distanti tra loro, troppo per parlare di un film davvero memorabile.

  • Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Sam Lawry è un tecnocrate onesto e sognatore quanto timido ed impacciato, che opera per il complicatissimo settore burocratico di una distopica società occidentale: ossessionato da un sogno ricorrente nel quale raggiunge, alato, la donna dei suoi sogni, un giorno finisce per riconoscerla in una conoscente…

    In breve. Considerato un capolavoro del genere sci-fi distopica (secondo Harlan Hallison si tratta addirittura del migliore in assoluto) si tratta effettivamente di un lavoro di eccellente fattura, che riprende toni e tematiche di “1984” (G. Orwell) ed è ambientato in uno scenario surreale, ricco degli aspetti bizzarri che i fan dei Monty Python riconosceranno immediatamente. La tragedia di un essere umano schiacciato dalle assurdità burocratiche moderne, che si tramuta in una feroce satira contro un certo tipo di modernità.

    Brazil” di Terry Gilliam è un surrogato – che non esiterei a definire epico – di tipiche situazioni di fantascienza distopica, ricchissima di simbolismi (che il regista sembra visibilmente aver amato alla follia), e che dai simbolismi stessi non si fa appesantire, come in altri film sarebbe facilmente potuto succedere. Proponendo un gioco duale e funambolico tra la realtà (sgradevole, noiosa e monotona) ed il sogno più liberatore che possa esistere, rende difficile comprendere cosa sia vero e cosa invece costruzione mentale. E nel fare questo Gilliam sembra essere stato molto attento a non cedere ad intellettualismi troppo astratti, confermando la natura “pop” del genere ed allegandovi messaggi profondi e molto mirati. Si mostra la vita di un uomo qualsiasi, un vero e proprio “numero” nel quale diventa ovvio identificarsi: una persona ricca di sfaccettature, sensibile e profondamente sognatrice, che si scontra con un mondo sordo, menefreghista e schiavo di burocrazie inutili e sfiancanti. “Brazil” rappresenta la lotta di un uomo prima di tutto contro se stesso, ed a testimoniarlo ci invia un gioco di parole intraducibile in italiano (i samurai contro cui Sam combatte evocano la frase “Sam, you’re I“) che rende decisamente più comprensibile alcune delle allucinazioni del protagonista.

    L’amore, visto in chiave “settantiana” come liberazione totale della bellezza e della purezza smarrita dall’uomo, assume caratteristiche “sovversive”, che non possono essere tollerate da un mondo repressivo e dominato da giocattoli tecnologici e chirurghi plastici senza scrupoli (il richiamo al mondo ipocrita del successivo Society non è neanche troppo azzardato). Per quanto il film possieda una stragrande maggioranza di elementi positivi, dunque, si rileva probabilmente un unico vero difetto nell’eccessiva lunghezza della pellicola, che finisce – pressapoco prima dell’ultima mezz’ora – per stancare un po’ lo spettatore meno paziente, lasciandolo pero’ in bilico ed imponendogli, di fatto, di vedere il tutto fino alla fine per forza di cose.

    Le enormi capacità comunicative ed artistiche di Gilliam, realizzate da momenti realmente bizzarri che evocano le divagazioni dei Monty Python, si esplicano in situazioni apertamente umoristiche e, senza preavviso, tragicamente realistiche e paranoiche. Molte delle tematiche, e parte delle conclusioni, sono accumunate al classico di Orwell “1984“, a cui il regista sembra essersi ispirato servendosi pero’, c’è da specificare, di un numero superiore di mezzi espressivi rispetto alla mediocre riduzione cinematografica del famoso romanzo.

    Memorabile l’interpretazione di De Niro, che compare nei panni del “libero professionista sovversivo” Tuttle, uno dei pochi alleati autenticamente umani del protagonista e focalizzato su alcune “micro-sequenze” realmente memorabili. Certamente alcune allusioni finiranno, al giorno d’oggi, per risultare inefficaci (le ossessioni da teledipendenza, ad esempio, erano state ampiamente sviscerate da Cronenberg qualche anno prima), anche se trovo impressionante rilevare come alcune trovate, come quella della macchina che fornisce volti e informazioni personali su qualsiasi cittadino, finisca per evocare l’omologazione presente all’interno dei moderni social network.

    Un film di grande valore artistico e con vari dettagli sorprendenti per un film dell’epoca: da vedere almeno una volta nella vita.

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