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  • La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    Secondo il regista Jean-Marie Straub, La classe operaia va in paradiso fu la “pellicola infame”, da mandare al rogo senza mezzi termini. Sui “Quaderni piacentini”, il film venne accusato di un imprecisabile revisionismo da Goffredo Fofi. Ad oggi, molta gente si interroga ancora su quel che rimane della classe operaia, sul suo significato, assimilandola spesso e volentieri al lavoro degli sfruttati di ogni ordine e grado – o peggio, declassando la questione come vetusta, utopistica o superata.

    Il film di Petri, come spesso accadde nella sua filmografia, provocò divisioni politico-sociali laceranti, facendo perno su un registro neorelista: i personaggi sono tipi comuni, che potremmo aver conosciuto nella nostra vita, e che si battono – disillusi – per un obiettivo più che per un ideale. Al centro del film c’è la figura di un operaio vittima di un incidente sul lavoro, interpretato da Gian Maria Volontè, che si ammazza di lavoro a cottimo “per queste quattro lire vigliacche“, come dirà lui stesso in seguito.

    L’individuo è uguale ad una fabbrica… de merda!

    Lulù Massa è, in altri termini, un operaio conformista e sostenitore del lavoro a cottimo (formula che prevede di essere pagati non in base al tempo, bensì alla produttività), il che gli permette di tenere uno stile di vita al di sopra delle proprie aspettative. Nel frattempo, i gruppi extra-parlamentari, all’ingresso della fabbrica in cui lavora, contestano le modalità di lavoro in fabbrica, evidenziando contraddizioni di forma e di modi con i sindacati.

    Come spesso avviene nei film di Petri, l’ambientazione è radicata in una città ed un dialetto specifico, che qui è Milano (anche se la fabbrica si trovava a Novara, in realtà) mentre in La proprietà non è più un furto era Roma. La fabbrica è rappresentata come un ambiente alienante e prevaricante, con alcune inquietanti figure di cronometristi addetti a misurare i tempi di lavorazione dei singoli operai, e mettere pressione a quelli che non si adeguano. Inutile sottolineare che Lulù viene preso come modello esemplare di produttività dalla dirigenza, attirandosi l’odio di tutti gli altri colleghi.

    Diretto da Elio Petri e scritto dallo stesso assieme ad Ugo Pirro, La classe operaia va in paradiso è il dramma di un uomo solo, spinto a lavorare a ritmi infernali per via della situazione difficile che vive in casa, con una donna divorziata ed il figlio che si trova, suo malgrado, costretto a mantenere. Un uomo che cadenza la propria vita sul lavoro senza badare a null’altro, perdendo interesse anche per il sesso per via dei ritmi produttivi della fabbrica che lo sfiniscono. Non è un caso, a tale riguardo, che l’unico all’appello all’”amore” per gli operai sia quello che ne accompagna l’ingresso in fabbrica: trattate la vostra macchina con amore.

    Fino a che un giorno, maneggiando i soliti macchinari, si taglia un dito: la circostanza viene presa come caso limite per indire finalmente uno sciopero. E prendere finalmente consapevolezza del proprio precariato, ma il film non si limita a cullarsi nell’assunto bensì, realisticamente, lo porta alle ulteriori conseguenze.

    Si affianca a Lulù la figura premonitrice di Militina (“io sono diventato matto in fabbrica“), un ex compagno di lavoro attualmente rinchiuso in manicomio, che evoca da vicino il compagno dell’anarchico Bonifacio, che ha seguito la stessa sorte in Chi lavora è perduto. Militina dice la verità, sia pur in pochi momenti di lucidità, sulla condizione alienante degli operai e sull’avidità dei padroni: ed è il punto di partenza del cambiamento di Lulù. Che improvvisamente, da stakanovista puro, diventa un operaio ribelle; e nel farlo risulterà paradossalmente inviso sia ai colleghi (che fondamentalmente non gli danno troppo credito) che gruppi extraparlamentari (che considerano il suo incidente sul lavoro solo opportunisticamente) che ai padroni, che usano il suo licenziamento come “arma” per intimidire tutti gli altri.

    Dopo aver passato in rassegna vari simboli del consumismo (tra cui un libretto di azioni, vari utensili da cucina ed un zio Paperone gonfiabile), Lulù si chiude in casa, finchè non vanno direttamente i sindacalisti a trovarlo: sono riusciti a farlo riassumere. Per quanto si senta tirato indebitamente in ballo e sfruttato ad ogni livello, accetta di tornare al suo vecchio impiego. Nella scena finale, durante il lavoro in catena di montaggio racconta un sogno, in cui ha visto il Militina sfondare un muro a testate, il che assume valenza evidentemente simbolica. Ma gran parte del discorso, tuttavia, viene travisato o mal percepito dai compagni di lavoro, perchè i macchinari producono troppo rumore e la maggioranza delle sue parole non è nemmeno udibile agli altri.

    Lulù è un personaggio fuori da ogni schema: se all’inizio nega la propria condizione precaria, in seguito presenta un risveglio di coscienza, che si rivela tragicamente quasi del tutto inutile. Il problema sollevato dal film, a questo punto, non è tanto sulla falsariga di chi non partecipa alla lotta, semmai risiede nell’indifferenza dei padroni e, per estensione, delle istituzioni. E c’è naturalmente il suo personaggio, sballottato tra un iniziale conformismo (suo e della compagna) nell’imitare i modelli consumistici che li stanno distruggendo, a finire con una rivolta confusa, rabbiosa quanto sostanzialmente strumentalizzata da tutti gli altri. Valeva per la condizione operaia dell’epoca, ma potrebbe valere – per estensione – in molti altri ambiti lavorativi di oggi: il problema, forse, è anche la presenza di numerosi epigoni del primo Lulù, per i quali non esiste alcun problema e si deve solo lavurà. Oggi, magari, li avremmo chiamati con un termine molto di moda come “negazionisti“.

    E adesso, adesso cosa sono diventato? Lo studente dice che siamo come le macchine. Ecco, io sono come una puleggia, come un bullone. Ecco, io sono una vite. Io sono una cinta di trasmissione, io sono una pompa! E non c’ho più la forza di aggiustarla, la pompa, adesso! Io propongo subito di lasciare il lavoro. Tutti! E che non lascia il lavoro è un crumiro e un faccia de merda!

  • Herz aus Glas: l’uomo e la perdita di coscienza/conoscenza secondo Herzog

    L’opera del regista tedesco Werner Herzog ha sempre fatto discutere. Genio visionario e poliedrico, spesso osannato e ancor più spesso sottovalutato se non sbeffeggiato, ha abituato il pubblico a trame, personaggi e scenografie sempre con un piede penzoloni sul baratro della follia. Ma, a volte, ha esegerato ed ecco che in un film come Cuore di Vetro (Herz aus Glas) del 1976, entrambi i piedi varcano il limite di sicurezza e registra, cast, troupe e spettatori vengono catapultati in un salto nel buio degli abissi di un pozzo senza fondo.

    La follia collettiva di questo film colpisce tutti, indiscriminatamente: il regista che sottopone di suo pugno il cast ad ipnosi prima di farli recitare, il cast che accetta tale assurdità, la troupe che asseconda regista e cast nell’apparentemente insensato espediente di cui sopra e il pubblico che, colpevolmente complice, assiste al film… e, fortunatamente, qualche anima pia che meriterebbe almeno una menzione speciale nei titoli di coda, è riuscita a far desistere il buon vecchio Herzog dal comparire ad inizio film in una scena in cui avrebbe ipnotizzato, a sua volta, il pubblico.

    Qualcuno starà dicendo: “beh, poco poco sarai scemo anche tu, che lo hai guardato e recensito!“… vero, infatti sulla tenuta delle mie facoltà mentali sono il primo a pormi dei leciti dubbi ma, appurato che ad oggi nulla certifica una mia deficienza psichiatrica (credetemi sulla fiducia), le conclusioni che ho tratto terminata la visione del film, vi sorprenderanno.

    Senza rinnegare quanto affermato poc’anzi (a cominciare dalla mia salute mentale), confermando l’impressione che il film sia stato diretto con “consapevole follia“, non si può negare il fatto che esso sia un capolavoro del cinema d’avanguardia dove, come consuetudine dell’avanguardia stessa, il gusto per la corsa estrema all’innovazione crativa, è sempre a discapito dell’intelligibilità e fruizione dell’opera. D’altronde cosa sarebbe l’arte pittorica di Jackson Pollock senza la sua pazzia che – paradosso dei paradossi – ne aiuta la comprensione e giustifica i risultati? E non è sempre la pazzia creativa (anche se, al contrario di Pollock, non conclamatamente patologica) ad animare la musica colta di Stockhausen, quella rock di Frank Zappa, i romanzi di Thomas Pynchon e tutto ciò che ha a che fare con avanguardie e postmoderno?

    Diciamolo subito: per chi non lo avesse già capito, Cuore di Vetro, come la quasi totalità delle opere d’avanguardia, non è un film per le famiglie, per chi vuole passare la serata a guardare un film rilassante e spensierato o per gli amanti di film del tipo “Natale a Vattelappesca“. Anche i cultori di generi più di nicchia, quali potrebbero essere la Nouvelle Vague francese o il Jidai-geki giapponese, dopo aver visto Cuore di Vetro, potrebbero lasciarsi andare ad una esclamazione di stupore, magari un romanesco

    ahò, ma che vordì?

    Ma analizzando le intenzioni del regista, i sottintesi della trama e gli infiniti richiami filosofici, socio-culturali e simbolici cui essa poggia, ecco che il capolavoro prende vita e il film resta vivido nella mente dello spettatore per giorni, insieme alle mille domande che suscita senza mai dare risposta compiuta.

    Partiamo dalla trama che non ci facciamo nessuna remora a spoilerare per intero, anche perchè, conoscerla prima della visione del film può solo aiutare lo spettatore a capire dove porre l’attenzione. Sì, perchè, in fondo, la trama è quasi un aspetto secondario del film, una semplice tela bianca che serve al regista a rappresentare una serie di scene a cavallo tra il surrealista e la commedia dell’arte che fanno assurgere a rango di protagonista della narrazione il modus operandi in cui il film è stato sviluppato, ben più della semplice sequenza degli eventi. La storia, dunque, si svolge in un non ben precisato villaggio della baviera in epoca preindustriale (una data qualunque tra sedicesimo e diciottesimo secolo). La vita del villaggio viene sconvolta dalla morte del mastro vetraio della vetreria che è il fulcro cui gira l’intera economia del villaggio. Morendo, il vetraio porta con sé nella tomba il segreto per la realizzazione del “vetro color rubino” che rendeva speciali e ricercate le lavorazioni della fabbrica. Perdendo questa peculiarità, l’azienda va in crisi e con essa l’intera comunità.

    Ed eccoci arrivati al punto nodale della storia: la perdita di conoscenza (il modo in cui si realizza il vetro rubino) causa crisi economica e ciò porta alla perdita della ragione nella collettività. Tutto ciò, è sia una critica al capitalismo che una banale constatazione antropologica sulla natura dell’uomo moderno condizionato dal denaro più che da qualunque altra cosa e che è refrattario a capire che è la conoscenza a guidare ogni forma di sviluppo. Senza di essa il sistema, che si regge su piedi d’argilla, crolla inesorabilmente, pandemia Covid docet: Appena l’uomo si è trovato davanti all’ignoto il sistema economico-sociale è precipitato nel baratro… ma il film è del ’76, e non vorremmo attribuire a Herzeg anche doti divinatorie.

    Per rappresentare nella maniera più forte possibile questo dualismo inestricabile tra perdita di conoscenza e perdita di ragione che portano alla follia, Herzog, utilizza l’espediente di ipnotizzare gli attori che andranno in scena in stato di catalessi, esibendosi in espressioni e recitazioni del tutto innaturali e stranienti, grottesche ed emblematiche immagini della follia indotta. Sì, perchè questa non è e non vuole essere la rappresentazione di una follia patologica di origine psichiatrica, ma è una follia più subdola e, appunto, indotta dal potere economico che rende pazzo chi non ha accesso ai soldi. Entrando in questa ottica, lo spettatore capirà come l’ipnosi sottoposta agli attori non sia una trovata cervellotica di un regista schizzato (beh, forse un po’ lo è davvero) adoperata al sol fine di far parlare di sè, ma è un vero colpo di genio, una metafora scenica che ha ben pochi precedenti nella storia della settima arte.

    E se gli attori ipnotizzati sono la metafora dell’uomo assuefatto al potere/necessità dattato dall’economia, nella quasi totalità delle scene del film (girate per lo più in interno e con illuminazione naturale in stile Barry Lyndon)  troviamo onnipresenti due simboli: una porta – la porta della conoscenza – e una candela (o, più raramente, dei tizzoni ardenti), a rappresentare il lume della ragione. Al di là della porta, l’esterno sarà sempre buio, tranne in una scena in cui, attraverso la porta, si vedono dei vetrai che trasportano l’ultimo carico di vetro rubino prodotto prima della morte del custode della ricetta: il momento in cui la “conoscenza/ragione” lascia il villaggio. Le stanze piccole, sporche e anguste cui le porte danno accesso, sono invece illuminate da queste flebili fiammelle, sempre sul punto di spegnersi, proprio come la ragione dei personaggi che vi dimorano, a loro volta per lo più immobili o dai movimenti misurati e robotici. La macchina fa sempre primi piani o comunque, quando sulla scena sono presenti più personaggi, inquadrature molto strette che portano allo spettatore una sorta di disagio da claustrofobia. Nessuno guarda negli occhi il suo interlocutore, quasi come che la presenza e la condizione dell’altro venga appena percepita, ma mai realmente capita. Questa mancanza di comprensione della realtà è magistralmente rappresentata dalla grottesca scena in cui un personaggio bislacco, distrutto dalla morte di un suo compagno di bevute, ne va a recuperare il corpo dal letto dove era stato ricomposto in attesa della sepoltura e lo porta nella locanda del villaggio dove chiede agli altri beoni di intonare un’ultima canzone con cui ballerà in compagnia del cadaverere dell’amico defunto.

    La follia collettiva non toccherà soltanto il popolino, ma anche il vecchio e paralitico proprietario della vetreria e suo figlio, il quale arriverà ad immolare la vita di una giovane domestica per poter riportare in vita la formula del vetro rubino. Il tentativo, ovviamente, fallirà miseramente portando il giovane, ormai completamente ottenebrato dalla pazzia, a dare fuoco alla vetreria ponendo con essa fine alle speranze di rinascita dell’intera comunità.

    Ma c’è una voce fuori dal coro in questo marasma di degenerazione, il personaggio di Hias, un cacciatore veggente che, vivendo tra i boschi, appena fuori dal villaggio, sembra l’unico ad aver mantenuto una certa razionalità, tant’è che Josef Bierbichler, l’attore che lo rappresenta, sarà uno dei pochi che Herzog non sottoporrà ad ipnosi (gli altri esentati, per ovvi motivi, saranno dei veri maestri vetrai, che in alcune scene verranno ripresi ad eseguire delle lavorazioni in vetro). Hias, in virtù delle sue doti da preveggente, sarà interpellato più volte sul futuro della comunità e, puntualmente, le sue profezie non saranno mai ascoltate dal popolo, fino alla beffa conclusiva quando verrà tacciato di essere un portatore di sfortuna, malmenato e incarcerato in compagnia del figlio del proprietario della vetreria. Cosa accadrà al villaggio in seguito alla prigionia di Hias non è dato sapersi, lasciando intendere che esso continuerà il suo cammino di autodistruzione, ma ritroveremo invece il cacciatore, solo nei boschi, in una rara scena girata all’aperto. Avremo così l’amara beffa di scoprire che anche lui, come gli abitanti del villaggio, è in realtà pazzo e lo capiremo quando, approcciandosi ad una grotta, verrà assalito da un animale selvatico. Dallo scontro il cacciatore uscirà vittorioso tanto da esclamare “per questa sera avrò di che mangiare” ma ciò che vedrà lo spettatore è la scena di una lotta immaginaria, poichè la belva, in realtà, esiste solo nella mente di Hias.

    Dopo questo finto combattimento, Hias ha l’ultima premonizione che chiuderà il film: su due isole perse nell’oceano vive una popolazione che ha il “dono del dubbio” e, a bordo di piccole imbarcazioni, partirà per un lungo viaggio con lo scopo di scoprire la verità.

    Verità? Quale? nessuno lo sa, tantomeno Herzog, ma almeno ci lascia con la speranza che questa sia da qualche parte e che qualcuno, libero dai condizionamenti dell’uomo moderno, andrà alla sua ricerca e la troverà.

    Appare evidente che non si può interpretare questo film senza fare riferimento a dottrine filosofiche quali il Marxismo e soprattutto all’influenza della filosofia di Herbert Marcuse, che teorizzò come la società industriale sia inevitabilmente portatrice di una morale repressiva, concetto che pervade il film dalla prima all’ultima scena. E proprio il popolo del mare che andrà alla ricerca della verità, rappresenta l’ultimo tributo alla filosofia di Marcuse che, nella suo opera “L’uomo a una dimensione“, teorizzò come l’unica àncora di salvezza che resta all’uomo moderno è quella della presa di coscienza di sé da parte dei popoli che fino ad ora sono stati esclusi dalla vita “all’occidentale”.

    Una delle particolarità che ha caratterizzato i film di Werner Herzog è stata, escluse rare eccezioni, la presenza della colonna sonora composta dal gruppo musicale tedesco dei Popol Vuh. Anche in Cuore di Vetro la colonna sonora verrà affidata al gruppo di Florian Fricke ma, al contrario di altri film del regista in cui la musica ha un ruolo di primo piano, in questo caso la musica è molto più rarefatta e concentrata quasi esclusivamente nella prima mezz’ora del film, dove ha il compito di accompagnare tre lunghe sequenze di immagini di paesaggi naturalistici di estasiante bellezza che valorizzano le doti di documentarista di Herzog, quasi ad anticipare la piega che prenderà la seconda parte della sua carriera. Per il resto, esclusi questi tre episodi (la reinterpretazione di uno jodel bavarese e due lunghe suite in stile new age), le musiche dei Popol Vuh saranno limitate a qualche accordo di organo qua e là e poco più. Invece, restando in tema di musica, è da sottolineare in varie scene del film la presenza di una ghironda (altrimenti detta “viola da orbi”), strumento “povero” per eccellenza, che compare nelle scene ambientate nella locanda – come quella della macabra danza col morto – e di un’arpa, strumento “degli dei”, che accompagna invece le scene girate nel palazzo del proprietario della vetreria.

    Un’ultima sottolineatura dobbiamo porla al fatto che il film è recitato in un dialetto stretto bavarese che ne ha reso difficoltosa se non impossibile una precisa opera di traduzione e doppiaggio in altre lingue. Il doppiaggio in italiano, per esempio, a tratti sembra quasi improvvisato e lontano dalla versione originale. Ciò sicuramente causerà l’impossibilità, per chi (come lo scrivente) non conosce quel dialetto, di cogliere molti dei simbolismi che soggiaciono al film e di cui sono parte integrante e sostanziale. Ma, anche in mancanza delle dovute conoscenze linguistica, vi assicuriamo che il film, se visto con la giusta ottica e predisposizione mentale, non passerà inosservato ai veri amanti del cinema e sembrerà meno folle di quanto si potrebbe pensare.

    Insomma, Herzog è sempre stato così, o si ama o si odia, ma non c’è film migliore di questo per capire da quale parte stare!

  • Il grande capo: una satira pungente sulle aziende di informatica (L. von Trier, 2006)

    In crisi finanziaria con la società per cui lavora, Ravn assolda un attore per interpretare il ruolo di un fantomatico “super-capo”, e rimettere ordine nelle relazioni tra i dipendenti…

    In breve. Un Von Trier – diverso dal solito – abbandona per un attimo i toni lugubri e seriosi, e produce una commedia satirica sui paradossi di un’azienda informatica. Lavoro scorrevole e di buon livello, con vari siparietti memorabili.

    Quello che si nota da subito in questa commedia di von Trier è il tono sublimamente regolato: una via di mezzo tra una commedia americana arguta ed un documentario-verità dai toni frammentari. Non era facile trovare un equilibrio in questi fattori, ma il regista sembra esserci riuscito appieno.

    Guardando Il grande capo si vedono soggetti fuori campo, inquadrati male o dal viso “tagliato”. Dietro ciò esiste una singola scelta registica inventata dal regista quale Automavision: in pratica si piazza la macchina da presa normalmente, e in post-produzione un algoritmo stabilisce un’impostazione casuale per riprese e suono. Questo metodo si riflette sia sul sound del film che sul crop delle immagini, che appariranno più volte “riprese in modo strano” contribuendo a dare al lavoro un che di “vissuto” o realistico al lavoro, al limite del documentaristico, senza mai scadere nel fine a se stesso per via dell’ottimo ritmo che la commedia fine dall’inizio.

    La storia de Il grande capo vuole raccontare con registri ironici le vicende di un individuo che si trova in un contesto totalmente estraneo alla sua natura, e che farà di tutto per nascondere la propria identità, saggiando le proprie capacità di improvvisazione. L’ispirazione fu tratta dai rapporti tra il regista ed il suo ex produttore Vibeke Vindeloev, che colpì von Trier perchè dotato di particolare savoir-faire nel comunicare coi propri attori. Nell’intreccio del film, un attore teatrale – l’egocentrismo all’ennesima potenza, secondo la rappresentazione satirica del regista – viene pagato dal boss di un’azienda di informatica (benvoluto da tutti quanto occultamente affarista) per fingersi a sua volta il “grande capo”. Il tutto, se da un lato costruirà dei rapporti di necessità in bilico tra attrazione ed ostilità, servirà nel frattempo a Ravn a svincolarsi dalle proprie responsabilità; e se all’inizio l’attore si troverà impacciato con gergo, ritmi e modus operandi aziendali, presto inizierà a calarsi nella parte, esercitando su tuti il fascino magnetico del big boss, fino ad arrivare alle più imprevedibili conseguenze.

    Il grande capo” è una commedia intelligente, divertente e godibile nel rappresentare nevrosi ed ansie dei personaggi: non c’è tempo e modo per analisi ed introspezioni psicologiche perchè, ricorda il regista, la cosa essenziale è godersi lo spettacolo, ed uscire dal cinema con la “coscienza a posto”. Una parentesi di livello, e tutt’altro che fine a se stessa, per un regista senza dubbio più funzionale a registri differenti, ma che si fa apprezzare lo stesso nel marasma di commedie leggere in circolazione (quelle che divertono pure, magari, ma che difficilmente sono originali e genuinamente spassose come questa).

    Il divieto ai minori di 14 anni, di fatto, sembra più figlia di un preconcetto su von Trier che altro: il motivo, di fatto, pare essere legato all’unica scena di sesso che si vede nel film, peraltro neanche esplicita – quanto apertamente grottesca.

  • Seguendo il sangue (A. Antonini, 2011)

    “…al mondo non si fa quello che ci piace, solo e soltanto quello che si deve“. È questa probabilmente la summa del film di Alberto Antonini “Seguendo il sangue“, un thriller estremamente surreale a forti tinte horror, che deve moltissimo dell’impianto scenico alle opere più spaventose di David Lynch. (altro…)
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