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  • Magnolia: trama, curiosità, spiegazione finale

    Magnolia: trama, curiosità, spiegazione finale

    Molti critici considerano “Magnolia” l’esempio di film postmoderno, nonchè tra i più famosi e iconici lavori cinematografici di fine anni novanta. Il film presenta molte caratteristiche e temi che sono tipici del periodo, sia a livello di approccio che di narrazione intrecciata, dove le storie dei personaggi sono collegate inaspettatamente tra loro, in un turbine non lineare che non lesina la critica sociale.

    Una riflessione profonda e complessa, secondo i più, sulla natura umana e sulla società moderna.

    Sinossi Magnolia

    Magnolia” è un film del 1999 scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, regista noto anche per Il filo nascosto. Il film è noto per la sua struttura narrativa complessa e il ricco cast di personaggi, interpretati da attori di talento come Tom Cruise, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, John C. Reilly, William H. Macy, e molti altri. “Magnolia” è apprezzato per la sua regia, le prestazioni degli attori e la profondità delle sue tematiche. Il film ha ricevuto molte recensioni positive da parte della critica ed è stato nominato per diversi premi, incluso il premio Oscar. Il film è diventato di culto e ha ricevuto elogi dalla critica per la sua maestria tecnica e le prestazioni degli attori. Daniel Day-Lewis è stato particolarmente lodato per la sua interpretazione e ha vinto l’Oscar come Miglior Attore Protagonista per il suo ruolo nel film.

    La storia si svolge a Los Angeles e intreccia diverse trame che coinvolgono personaggi e storie diverse, ma collegate tra loro in vari modi. Il film affronta temi come il destino, la casualità, la solitudine, la redenzione e l’umanità.

    1. Introduzione: Il film inizia con una sequenza che mostra diverse storie brevi di eventi casuali che accadono nella vita di persone sconosciute. Questi eventi apparentemente casuali sottolineano il tema della casualità e del destino che saranno presenti nel resto del film.
    2. Earl Partridge (interpretato da Jason Robards): Earl è un anziano produttore televisivo di successo che è gravemente malato di cancro. La sua giovane moglie Linda (interpretata da Julianne Moore) è sopraffatta dalla colpa e rimorso per aver sposato Earl solo per il suo denaro. Il loro rapporto è complicato e tormentato.
    3. Frank T.J. Mackey (interpretato da Tom Cruise): Frank è un motivatore sessuale di successo, noto per il suo programma di auto-aiuto chiamato “Seduzione e sicurezza”. Nonostante il suo successo professionale, ha un rapporto complicato con suo padre morente, Earl Partridge, e si sforza di affrontare il suo passato turbolento.
    4. Stanley Spector (interpretato da Jeremy Blackman): Stanley è un bambino prodigio della televisione, noto per la sua intelligenza e conoscenza enciclopedica. Il padre di Stanley è ossessionato dal suo successo e lo sfrutta finanziariamente.
    5. Donnie Smith (interpretato da William H. Macy): Donnie è un ex bambino prodigio del quiz televisivo, che ora è un adulto sfortunato e insoddisfatto. Lotta con la sua solitudine e il suo desiderio di trovare amore e successo.
    6. Jim Kurring (interpretato da John C. Reilly): Jim è un onesto poliziotto che sta indagando su una serie di eventi strani e casuali che accadono in città durante la giornata piovosa.
    7. Claudia Wilson Gator (interpretata da Melora Walters): Claudia è una giovane donna tossicodipendente, figlia di un produttore televisivo, Jim Gator (interpretato da Philip Baker Hall). Claudia cerca disperatamente di liberarsi dalla tossicodipendenza e riconciliarsi con suo padre morente.
    8. Intrecci delle storie: Le storie di tutti questi personaggi e di altri ancora si intrecciano e si sovrappongono, spesso in modo inaspettato, durante la giornata. Il film esplora i temi della casualità, del destino e della redenzione, mentre i personaggi affrontano le loro sfide personali e cercano di trovare significato nelle loro vite.

    Il film culmina in un epilogo coinvolgente che lascia spazio all’interpretazione dello spettatore, con eventi misteriosi e straordinari che sconvolgono la vita dei personaggi e offrono una riflessione sulla natura umana e sulla connessione tra gli individui.

    Cast Magnolia

    Il cast di “Magnolia” è composto da un eccezionale insieme di talentuosi attori, molti dei quali hanno ricevuto ampi elogi per le loro interpretazioni nel film. Di seguito è riportato il cast principale:

    1. Jeremy Blackman – Stanley Spector
    2. Tom Cruise – Frank T.J. Mackey
    3. Melinda Dillon – Rose Gator
    4. Philip Baker Hall – Jimmy Gator
    5. Philip Seymour Hoffman – Phil Parma
    6. Ricky Jay – Burt Ramsey
    7. William H. Macy – Donnie Smith
    8. Julianne Moore – Linda Partridge
    9. John C. Reilly – Jim Kurring
    10. Jason Robards – Earl Partridge
    11. Melora Walters – Claudia Wilson Gator
    12. Michael Bowen – Rick Spector
    13. Luis Guzmán – Luis
    14. April Grace – Gwenovier
    15. Orlando Jones – Moderatore TV
    16. Alfred Molina – Solomon Solomon
    17. Pat Healy – Sir Edmund William Godfrey
    18. Michael Murphy – Alan Kligman

    Interpretazione del film

    Nel gioco della vita l’importante non è quello che sperate o che meritate, ma quello che prendete. Sono Frank T.J. Mackey, sovrano assoluto della fica e creatore del programma Seduci e Distruggi, ora disponibile anche in audio e videocassette. Seduci e Distruggi vi insegnerà tutte le tecniche necessarie a conquistare bionde mozzafiato pronte a benedire con i loro caldi umori il vostro letto. La parola chiave è il “linguaggio”: come per incanto il linguaggio ci aprirà le porte della mente femminile e ci permetterà di penetrare nelle loro speranze, desideri, paure, aspettative e nelle loro profumate mutandine. Imparate a trasformare la vostra buona amica in una schiava affamata di sesso. (Frank T.J. Mackey)

    “Magnolia” è un film ricco di simbolismi e temi complessi, che permette a diversi spettatori di trarre interpretazioni e significati personali dalla trama intricata. Va notato che “Magnolia” è un film aperto all’interpretazione e molte delle tematiche presentate sono intenzionalmente ambigue, lasciando spazio per diverse interpretazioni personali. La complessità delle storie e dei personaggi contribuisce a rendere il film un’esperienza cinematografica unica e coinvolgente per molti spettatori. Di seguito sono riportate alcune delle interpretazioni comuni del film:

    1. Casualità e destino: Un tema centrale del film è l’interconnessione degli eventi casuali e il ruolo del destino nella vita dei personaggi. Il film mette in evidenza come le azioni di una persona possono avere impatti inaspettati sulla vita di altre persone, creando una rete di connessioni e coincidenze.
    2. Solitudine e disconnessione: Molti dei personaggi del film sperimentano una profonda solitudine e disconnessione emotiva dagli altri. Nonostante vivano in una grande città come Los Angeles, si sentono isolati e incapaci di connettersi veramente con gli altri. Questo tema viene enfatizzato attraverso la rappresentazione di diverse storie di vita separate che si intrecciano solo occasionalmente.
    3. Redenzione e perdono: Diversi personaggi nel film stanno cercando la redenzione dalle loro azioni passate o stanno cercando di perdonare se stessi o gli altri. Il processo di redenzione è spesso ostacolato dalla complessità delle relazioni familiari e dei conflitti interni.
    4. Relazioni genitoriali: “Magnolia” esplora il tema delle relazioni complicate tra genitori e figli, evidenziando come il passato dei genitori possa influenzare profondamente la vita dei loro figli. Questo tema è rappresentato attraverso vari personaggi, come Frank T.J. Mackey e suo padre Earl Partridge, Claudia Wilson Gator e suo padre Jimmy Gator, e Donnie Smith e la figura paterna di Stanley Spector.
    5. Rinascita e cambiamento: Il film suggerisce che anche nelle situazioni più difficili, esiste la possibilità di una rinascita personale e di un cambiamento positivo. Molti personaggi affrontano momenti di crisi e, attraverso queste esperienze, trovano la forza di cambiare le loro vite.
    6. Il potere delle emozioni: “Magnolia” esplora l’intensità delle emozioni umane e il modo in cui queste possono influenzare le azioni e le decisioni dei personaggi. L’emozione è spesso rappresentata in maniera esplosiva e straordinaria nel film.

    A cosa si riferisce Magnolia del titolo?

    Il titolo “Magnolia” fa riferimento a un simbolo ricorrente nel film, ossia il fiore della magnolia. La magnolia è un albero sempreverde che produce grandi fiori profumati e appariscenti. Nel contesto del film, il fiore della magnolia assume diversi significati simbolici:

    1. Bellezza e fragilità: La magnolia è spesso associata alla bellezza e alla delicatezza dei suoi fiori. Questo simboleggia la bellezza e la fragilità delle vite dei personaggi nel film, che sono complesse e vulnerabili, ma allo stesso tempo affascinanti.
    2. Rinascita e speranza: La magnolia è un albero il cui fogliame e fiori rimangono durante tutto l’anno. Questo simboleggia la possibilità di rinascita e di speranza per i personaggi, anche attraverso momenti difficili e oscuri.
    3. Connessione e interconnessione: Nel film, il tema delle connessioni casuali tra i personaggi è centrale. La magnolia simboleggia la rete di connessioni che collega le loro vite, creando una trama intrecciata.
    4. Dualità: La magnolia è nota per la sua dualità, in quanto i suoi fiori sbocciano sia in primavera che in autunno. Questa dualità si riflette nel film, dove i personaggi possono essere complicati e contraddittori, con sfaccettature nascoste.
    5. Bellezza nascosta: Nei fiori della magnolia, i petali sono spesso coperti da un involucro protettivo che si apre per rivelare la bellezza interna. Questo può essere visto come un simbolo per la scoperta delle verità nascoste e delle emozioni profonde dei personaggi nel film.

    Noi possiamo chiudere col passato, ma il passato non chiude con noi. (Jimmy Gator)

    10 cose che non sapevi su Magnolia

    Ecco dieci curiosità interessanti sul film “Magnolia”:

    1. Origine del titolo: Il titolo “Magnolia” è ispirato a una canzone di Aimee Mann, intitolata “Save Me”, che è anche presente nella colonna sonora del film. Aimee Mann ha contribuito con diverse canzoni per la colonna sonora del film.
    2. Numeri ricorrenti: Nel film, il numero 82 ricorre in varie scene. Ad esempio, compare sulla scatola delle scarpe di Jim Kurring, sulla targhetta dell’ufficiale di polizia, e anche sulla camicia di Stanley Spector.
    3. La pioggia nel film: La pioggia è un elemento ricorrente in molte scene del film. La pioggia è stata generata artificialmente durante le riprese, poiché il film è ambientato a Los Angeles, che non è una città particolarmente piovosa.
    4. Personaggi doppi: Molte delle storie dei personaggi nel film hanno delle parallele tra loro. Ad esempio, i personaggi di Frank T.J. Mackey e Donnie Smith condividono alcuni tratti e hanno entrambi problemi con la figura paterna.
    5. Audizione di Tom Cruise: Tom Cruise, che interpreta Frank T.J. Mackey, ha ottenuto il ruolo dopo un’audizione telefonica con il regista Paul Thomas Anderson. Cruise ha ricevuto elogi per la sua performance, ottenendo anche una nomination all’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista per il ruolo.
    6. Riferimenti a altre opere: Il film presenta diversi riferimenti a opere letterarie e cinematografiche. Ad esempio, il film inizia e finisce con una citazione dal libro “Frogs” di Aristofane.
    7. La traccia di Aimee Mann: Come accennato prima, Aimee Mann è una presenza importante nella colonna sonora del film. La sua musica contribuisce a creare un’atmosfera emozionante e si adatta perfettamente alla narrazione del film.
    8. Philip Seymour Hoffman e gli uccelli: Durante il film, il personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman, Phil Parma, mostra un amore per gli uccelli e li tiene come animali domestici. Hoffman era noto anche per il suo amore per gli animali nella vita reale.
    9. Lunghezza del film: “Magnolia” ha una durata piuttosto estesa, con una durata di circa 3 ore e 8 minuti. Questo lo rende uno dei film più lunghi nella filmografia del regista Paul Thomas Anderson.
    10. Finale ambiguo: Il finale del film è aperto all’interpretazione dello spettatore e ha suscitato diverse teorie e discussioni tra i fan e i critici. Il finale straordinario e misterioso ha contribuito a rendere “Magnolia” un film memorabile e discusso.

    Queste curiosità aggiungono ulteriore fascino e profondità a “Magnolia”, rendendolo un’opera cinematografica affascinante e intrigante da esplorare.

    Spiegazione del finale Magnolia

    Il finale di “Magnolia” è un’esperienza intensa e surreale che mette in luce i temi chiave del film, come la casualità, il destino, la redenzione e la connessione umana. È una sequenza carica di emozioni, che offre uno sguardo complesso e profondo sulla natura umana e il modo in cui le nostre vite sono intrecciate.

    Attenzione: Spoiler a seguire per chi non ha visto il film.

    Di seguito una spiegazione dettagliata del finale:

    1. La pioggia: La pioggia nel finale simboleggia un momento di catarsi e purificazione per i personaggi. La pioggia può essere vista come una manifestazione esterna delle intense emozioni e tensioni interiori che i personaggi stanno vivendo.
    2. La pioggia di rane: Durante la sequenza finale, in un evento straordinario e surreale, cominciano a piovere rane dal cielo. Questo evento è un elemento surreale e allegorico che simboleggia l’imprevedibilità e l’incredibile natura della vita. È come se il mondo si stesse ribellando e reagendo in modo straordinario alle emozioni e ai drammi che i personaggi stanno vivendo.
    3. Le scelte dei personaggi: Molti dei personaggi si trovano ad affrontare momenti di svolta nelle loro vite durante la pioggia di rane. Si scontrano con la loro coscienza e cercano di trovare la forza di fare scelte cruciali che cambieranno il corso delle loro storie.
    4. La scena della pistola: Durante la pioggia di rane, il personaggio di Jim Kurring, interpretato da John C. Reilly, affronta una situazione drammatica. Viene chiamato a gestire una situazione in cui un ragazzo sta minacciando di uccidersi con una pistola. Jim riesce a calmare il ragazzo, convincendolo a lasciare la pistola. Questa scena rappresenta il tema della redenzione e della compassione.
    5. Il canto: Durante la pioggia di rane, i personaggi iniziano a cantare insieme la canzone “Wise Up” di Aimee Mann. Il canto è una sorta di catarsi collettiva, un modo per esprimere le emozioni che stanno attraversando. Anche i personaggi che erano stati isolati o chiusi a loro stessi si uniscono nel canto, sottolineando l’importanza della connessione umana.
    6. L’epilogo: Dopo la pioggia di rane, il film presenta un epilogo che mostra il destino dei personaggi principali. L’epilogo offre alcune chiusure alle storie dei personaggi, ma allo stesso tempo lascia spazio per l’interpretazione e la riflessione dello spettatore.
  • La proprietà non è più un furto: il film più sperimentale di Elio Petri

    Il 19 ottobre 1973 uscì un articolo su La Stampa dal titolo inequivocabile: Sequestrato a Genova la ‘proprietà’ di Petri, con riferimento al film di Petri che era uscito nelle sale appena 16 giorni prima. Le accuse erano di oltraggio al pudore: produzione e regia rifiutarono di apportare tagli ai contenuti della pellicola, per cui lo stesso uscì uncut vietato a minori di 18 anni, un divieto che oggi probabilmente si capisce poco e che lo declassa, molto ingiustamente, ad un film pornografico qualsiasi. Per inciso, a Berlino nello stesso il film venne premiato (Official Selection del Berlin Film Festival), e si tratta di un film rimasto nella memoria sia per il ruolo di molti caratteristi che, soprattutto,  per via dell’apparato ideologico che viene messo in discussione.

    Film simbolico e di concetto, La proprietà non è più un furto non è considerato il miglior film in assoluto di Elio Petri, per quanto sia sicuramente uno dei lavori più complessi ed interessanti mai realizzato dal regista. Molti concetti e stilemi registici derivano direttamente da Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, anche se il focus è in questo caso incentrato su tipi umani o sociali, non tanto su personaggi politici come nel film appena citato. È una storia di ossessione, avidità, persecuzione e sublimazione di questi stessi sentimenti, in cui quello che inquieta è duplice: ciò che vediamo fare ai personaggi, ma anche ciò che gli stessi “confessano”, meta-cinematograficamente, agli spettatori. Il cinema di Petri rimane comunque archetipico, ovvero gioca la propria essenza sulla caratterizzazione di esseri umani, quasi tutti avidi o spregevoli: l’idea è quella di favorire l’immedesimazione per poi accentuare il distanziamento da parte del pubblico, probabilmente. Sfruttando la fotografia oscura e teatraleggiante di Luigi Kuveiller, la trovata più clamorosa della sceneggiatura è quella di intervallare la storia con dei monologhi dei vari protagonisti, che commentano ciò che fanno invitando il pubblico, nel frattempo, a farsi due domande.

    L’intreccio è molto semplice e racconta di un giovane impiegato in banca (Flavio Bucci), affetto da una singolare (ed estremamente simbolica) allergia da contatto alle banconote. L’uomo è anche affetto inoltre da una patologia nevrotica, tanto da essere ossessionato da un cliente della sua stessa banca, un macellaio (Ugo Tognazzi), che ogni giorno deposita svariati milioni in contanti. Un giorno il protagonista assiste ad una rapina e, da allora, si licenzia, e sviluppa una sorta di avversione al denaro ancora più marcata: al tempo stesso, diventa morbosamente incuriosito dal furto, oltre che dalle modalità poco trasparenti utilizzate dal macellaio per guadagnare, che infatti inizia a perseguitare. Il suo monologo iniziale è emblematico in tal senso, e si rivolge – come i monologhi di tutti gli altri personaggi – direttamente al pubblico del cinema: e il punto chiave è proprio legato alla ricerca spasmodica del denaro, in una lotta interiore che non può che provocare insoddisfazione e frustrazione perenne.

    Io, ragionier Total, non sono diverso da voi, né voi siete diversi da me; siamo uguali nei bisogni, diseguali nel loro soddisfacimento. Io so che non potrò mai avere nulla più di quanto oggi ho, fino alla morte. Ma nessuno di voi potrà avere nulla più di quanto ha. Certamente molti di voi avranno più di me, come tanti hanno meno. E nella lotta legale o illegale per ottenere ciò che non abbiamo molti si ammalano di mali vergognosi.

    La “trilogia della nevrosi” di Elio Petri include questo titolo, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso. Al netto della lunghezza e della diluizione della trama (circa due ore di film), l’intreccio riesce comunque ad accattivare perchè vediamo Total, anonimo impiegato in cui è facile immedesimarsi, interessarsi progressivamente al mondo del furto, fino a rubare alcuni documenti alla polizia pur di trovare i recapiti di uno dei ladri più ricercati della città, ed imparare qualcosa da lui. L’uomo si autodefinisce marxista-mandrakista, che è una classificazione geniale quanto grottesca, forse poco percepita dalla critica dell’epoca: è un marxista letterale, nel senso di amante dell’esproprio proletario, ma è anche un mandrakista perchè vorrebbe saper emulare le magagne che hanno portato il macellaio (ed altri personaggi come lui) ad arricchirsi indebitamente. Le sue tendenze, pertanto, sono doppiamente tragiche perchè doppiamente anti-sociali, ed è questa l’idea del film che Petri intendeva, molto probabilmente, anche quando diceva che questo film fosse incentrato sulla nascita della disperazione in seno alla sinistra. La proprietà non è più un furto racconta provocatoriamente la crisi di una società in cui, di fatto, il capitalismo stava prendendo il sopravvento e, già all’epoca, si avvertiva che certi discorsi orientati sul sociale sarebbero stati declassificati e sviliti dall’andazzo generale di una società corrotta all’osso.

    Total è il simbolo degli oppressi, gli stessi oppressi che avrebbero voluto espropriare i beni ai padroni che li sfruttano, ma è mosso da un’invidia sociale che non lo rende affatto scontato o didascalico, come protagonista: come sempre nelle sceneggiature di Petri, infatti, non esistono buoni e cattivi in modo netto, ed i personaggi apparentemente più epici diventano inesorabilmente anti-eroi. Total, peraltro, non è ossessionato dal denaro in quanto tale: è turbato dal non avere il possesso dello stesso, dal non essere un capitalista, dal non avere una donna “acquistabile” che a sua volta possa sfruttarlo. La negazione ossessiva del piacere, ed il conseguente innegabile feticismo del suo personaggio, peraltro, è sviluppato molto chiaramente durante il primo furto che effettua nella casa del macellaio: lo vediamo portare via esclusivamente gioielli, lasciare il denaro e, soprattutto, constatare che tutte le volte che possiede un contatto con Anita non la possiede mai carnalmente, bensì la sublima per poi disprezzarla (la sequenza in cui la costringe a stare nuda a letto, immobile, per poi mandarla via). C’è molta psicologia non ovvia nel suo comportamento, a mio avviso, e qui Petri ha sfruttato complesse simbologie grottesche che si potrebbero paragonare allo stile usato, ad esempio, dal surrealismo di Lynch negli anni a venire, e probabilmente era anche normale che non tutti le apprezzassero. Di fatto, è anche uno dei film più sperimentali mai girati dal regista, ed è questo ad impreziosirlo e a spingermi ad una sostanziale rivalutazione, proprio perchè si tratta di un film che si presta a svariate letture, e non necessariamente di natura politica, in fin dei conti.

    È singolare, a mio avviso, che questo film sia considerato dalla critica il più debole della trilogia, anche perchè le scelte stilistiche di affidarsi a monologhi (che, come una commedia grottesca dell’arte, si rivolgono spesso e volentieri al pubblico) sono sempre funzionali e mai didascaliche. Come al solito, inoltre, la scelta degli interpreti non è casuale, ed è estremamente incisiva: Ugo Tognazzi (cinico ed egoista, per quanto il ruolo del suo personaggio fosse stato probabilmente pensato per Gian Maria Volontè, il quale per dissidi con Petri non collaborò a questo film), Flavio Bucci (abile nel caratterizzare un insospettabile “ladro in erba” ossessionato feticisticamente dal marxismo e dal furto in quanto tale), Daria Nicolodi (nell’insolito, per lei, ruolo di femme fatale, superficiale quanto subdola), Orazio Orlando (che interpreta un brigadiere giustamente sospettoso, dai modi rudi quanto impotente nel risolvere le ingiustizie). Ne esce fuori un quadretto desolante della società italiana, in cui questi personaggi interagiscono tra loro in un gioco di convenienze, opportunismo e feticismo degno di un mondo sempre più alla deriva, sul quale Petri si mostra ancora una volta molto pessimista.

    Nonostante questo, e nonostante una complessità sociale tutt’altro che banale in ballo, il film generalmente non piacque. Probabilmente la critica non riuscì ad accettare il ruolo del malvagio co-protagonista affidato a Tognazzi (che generalmente era associato a ruoli comici), non accettò il personaggio di Anita (che è l’emblema della donna che si fa comprare o sfruttare sessualmente, paragonandosi ad una macchina nelle mani di operaio: una metafora che oggi, forse, è meno incisiva di quanto non fosse all’epoca, ma – contestualizzando all’epoca ai noti problemi di sfruttamento, danni fisici e psicologici ed alienazione degli operai – Petri colpì profondamente nel segno), non accettò probabilmente l’impostazione da teatro dell’assurdo che Petri conferisce al film, soprattutto nell’enigmatica frase finale del padre di Total, che alla fine compare su un’altalena pronunciando la frase

    Mio figlio era come un padre per me.

    Questa globale non accettazione, di fatto, è la stessa che frustra Total nella sua ricerca spasmodica del materiale, nel suo desiderio perennemente frustrato; ed è proprio qui, forse, che emerge la grandezza dell’opera. Il film è disponibile gratuitamente in streaming su RaiPlay oltre che su Prime Video.

  • Urban Legend: le leggende metropolitane in chiave horror

    In un campus americano anni 90, una ragazza decide di indagare sugli omicidi di un killer, che sembra ispirarsi alle leggende urbane raccolte in un libro che sta studiando.

    In breve. Lo slasher portato ad una dimensione pop, relativamente accessibile per lo spettatore (rispetto ai cult anni 70 e 80 che, invece, lo avevano reso quasi insostenibile per il pubblico medio). L’intreccio di Urban legend viene privato della componente exploitation, diventando un punto di riferimento anche negli anni a venire: teenager curiosi ed eroici contro un villain misterioso ed inafferabile. Il film, complessivamente, non è male, e riserva un discreto finale a sorpresa.

    Diretto da Jamie Blanks e scritto da Silvio Horta, Urban Legend inaugura una mini-saga slasher che non ebbe troppo successo in Italia, ma che si ispirò grandemente a Scream di Wes Craven. Lo stesso film che aveva ri-codificato il genere, slegandolo dagli stereotipi del genere settantiani (improntati sul crudo realismo, il più delle volte) e dando, fin da allora, la sensazione allo spettatore che si trattasse solo di un film.  L’incanto, il “patto” del regista con lo spettatore viene subito svilito e demistificato, a favore di un intreccio che se non è puro intrattenimento ci si avvicina parecchio. Se Urban Legend è lontano dalle sperimentazioni estremizzate di film come The last house on dead end street o dagli eccessi di Nero criminale, si ispira grandemente all’opera di Craven, quello Scream che riportò nuova linfa in un horror che, all’epoca, sembrava spento e non più credibile.

    Per certi versi, Urban Legend (con il suo incedere lento, lineare ed inesorabile quando, a volte, prevedibile) vuole essere una satira ironica sugli stereotipi da film dell’orrore, ma anche (per non dire soprattutto) sulle leggende urbane. Le storie incredibili a sfondo orrorifico o sessuale che fanno parte del folklore, e che vengono (soprattutto negli USA, verrebbe da dire) credute quasi a prescindere. Il film vanta una piccola perla in tal senso, peraltro, perchè i dettagli sull’argomento vengono approfonditi durante una lezione in aula – in cui il docente è interpretato da Robert Englund (che cita, neanche a dirlo, la leggenda metropolitana che sembrerebbe alla base della trama di Black Christmas).

    Al netto del fatto (difficilmente discutibile) che si tratti di un buon calco di Scream, c’è da riconoscerne la carica innovativa che, all’epoca (1998), cita ancora a piene mani il cinema che conta (da Nightmare alla blaxpoitation: chi ricorda, ad esempio, che la poliziotta onnipresente nel college è rappresentata come fan sfegata del genere, e conosce a memoria le battute di Pam Grier in Foxy Brown?). In questo, il film non disdegna un cenno ironico, ad esempio, alla serie Dawnson’s Creek (la musica nell’autoradio poco prima della morte del personaggio interpretato da Joshua Jackson), e gioca con i propri personaggi come burattini nelle mani del villain. Allo spettatore, nel frattempo, non rimarrà altro da chiedere – se non “chi è il prossimo“?

    I riferimenti alle leggende urbane, nel film, sono innumerevoli: dalla ragazza che sostituisce la pillola anticoncezionale della compagna di stanza con un’aspirina, passando per la leggenda delle Bubble Yum che non andrebbero mai mischiate con bevande gassate. Tra le altre, vengono citate la leggenda della macchina senza fari fino alla fanciulla che aveva acidità di stomaco dopo aver ingoiato dello sperma. Se molte urban legend sono a sfondo sessuale, del resto, è coerente con il contesto scanzonato da campus americano, in cui eccedere nelle droghe e trovare fanciulle disinibite sembra normale quanto essere uccisi senza una ragione apparente. Per certi versi, Urban legend coinvolge e fa anche sorridere, a cominciare dal sottotesto complottista che suggerisce, per buona parte del film, che gli omicidi del killer siano in qualche modo protetti dall’università stessa.

    Sull’argomento leggende urbane, uno dei migliori e più completi libri sembra essere, per inciso, Sarà vero di Jan Harold Brunvand, che le raccoglie e le cataloga meticolosamente.

  • Nato il quattro luglio è la vera storia di Ronald Lawrence Kovic secondo Oliver Stone

    Il giovanissimo americano Ron Kovic si arruola nei marines e, ferito gravemente alla spina dorsale, perde l’uso delle gambe diventando impotente.

    In breve. La struggente storia di Ron Kovic, sentitosi tradito dalla propria patria dopo un passato tragico da militare nella guerra in Vietnam, diventa attivista per la pace. Un classico da non perdere per nessun motivo.

    Nato il quattro luglio (Born on the Fourth of July in lingua originale) è probabilmente uno dei migliori film di Oliver stone: uscito nelle sale nel 1989, venne sceneggiato in collaborazione con lo stesso Ron Kovic, personaggio realmente esistente negli USA, che si ritaglia anche un cameo all’inizio della pellicola.

    Incluso tra i migliori 100 film americani dall’American Film Institute nel 1998, è anche il primo film di Oliver Stone ad essere stato girato in formato 2.35:1. Fa parte della trilogia sulla guerra girata da Stone, che vede affiancato sia Platoon del 1986 che Tra cielo e terra del 1993. L’importanza del film è fondamentale perchè, soprattutto, narra la storia di un personaggio che cambia radicalmente idea: convinto del proprio patriottismo e disposto a sacrificarsi per la patria, paga a caro prezzo questa scelta diventando disabile e impotente. La sua reazione è quella di rivedere completamente la propria etica, scaraventandosi contro gli stessi USA che amava e che lo avevano abbandonato (in questo la storia evoca in qualche modo l’etica dei bikers, traditi anch’essi e dediti alla vita di strada, in contrapposizione ad un mondo troppo conformista). Un pugno in faccia, dal punto di vista narrativo, da cui lo spettatore rimane annichilito dal punto di vista emotivo: l’americano medio, ovviamente, non riuscirà mai (prevedibilmente) ad accettare questa scelta.

    Ausili per disabili – Sanort.com

    Oliver Stone, fortemente sostenuto dal suo mentore Martin Scorsese, avrebbe voluto girare girare il film proprio in Vietnam, ma considerazioni politiche e di convenienza lo fecero optare per una location nelle Filippine. Nato il quattro luglio è girato con varie sfumature cromatiche differenti, in particolare: le sequenze oniriche in bianco, quelle più struggenti in blu, quelle di battaglia in rosso. Per interpretare al meglio il proprio personaggio, Tom Cruise (attore sul quale la produzione ebbe, a torto, qualche perplessità di fondo) cercò di rimanere seduto sulla sedia a rotelle per molto più tempo del necessario, durante le riprese. Per inciso, poi, Cruise è nato un giorno prima del personaggio che interpreta (il 3 luglio).

    Dal punto di vista del torpiloquio, poi, si segnala la presenza della parola fuck, secondo IMDB, per 289 volte, un record battuto probabilmente solo da Pulp Fiction. Tra i personaggi pensati per interpretare la parte di Kovic, si segnalano Nicolas Cage, Sean Penn e curiosamente Charlie Sheen (lo stesso che avrebbe parodizzato la parte di Tom Cruise all’interno di Top Gun in Hot Shots).

    La Universal era preoccupata del messaggio sovversivo all’interno del film, tanto che – per contenere i costi – pare arrivò a non pagare buona parte del cast in anticipo, ma solo ad incasso ottenuto. Nato il quattro luglio ha anche vinto due Oscar: Migliore regia a Oliver Stone e Miglior montaggio a David Brenner e Joe Hutshing.

  • Pagliacci assassini dallo spazio profondo è un horror di vecchia scuola ironico e intelligente

    Un gruppo di alieni dall’aspetto di clown (sic) arriva sulla Terra e terrorizza una piccola cittadina americana.

    In breve. Un piccolo e misconosciuto capolavoro low-budget anni ’80: da non perdere, se amate il genere horror e fantascienza e non vi dispiacciono le parodie, per quanto semplicistiche o demenziali possano essere.

    Killer Clowns degli statunitensi fratelli Chiodo (trio artistico specializzato nell’effettistica cinematografica che ha prodotto, ad oggi, questo unico film alla regia) è una commedia horror che produce, almeno all’inizio, un effetto straniante. Se il richiamo immediatamente comprensibile, infatti, è quello della fantascienza classica, dopo qualche minuto si intuisce che le cose non andranno come di solito accade. Gli alieni hanno un aspetto mostruoso, ma sono dei veri e propri pagliacci da circo, che sfruttano il proprio aspetto per avvicinare esseri umani in modo divertente e poi, ovviamente, catturarli. Nel farlo, usano armi decisamente non convenzionali – ad esempio, un fucile che spara popcorn.

    Sai se sono vulnerabili? Sì: devi sparargli sul naso.

    I due milioni di dollari di budget, all’epoca, vennero interamente investiti nei costi di produzione; questo implicò la realizzazione artigianale di quasi tutti gli effetti speciali del film, nella media – questi ultimi – rispetto alla produzione del periodo, per non dire di tutto rispetto. Se è vero che il cinema di genere è anche un gioco di ricicli e rielaborazioni, nello script di questo film c’è davvero qualcosa in più – e persiste nella mente dello spettatore, anche a costo di sollevare più di un sopracciglio durante la  visione (ciò che gli anglofoni esprimono efficacemente con un semplice acronimo, ovvero WTF: What The Fuck!?). Questa sorta di curiosità, che nel teatro si esprimerebbe attraverso un effetto straniante sullo spettatore, è più stimolante che respingente, e costringe letteralmente lo spettatore a scoprire un’assurdità dietro l’altra, alcune delle quali davvero piuttosto divertenti. Killer clowns è proprio così, inebriato dalla propria demenzialità autocelebrativa, in barba a qualsiasi protesta da parte del pubblico impegnato. Come spesso si dice in questi casi, “prendere o lasciare“: e per gli amanti del cinema di genere, è davvero il caso di prendere.

    Qualsiasi trucco o trovata topica da pagliaccio assume, qui, una parvenza horrorifica: se da un lato questo è autenticamente divertente (le torte in faccia usate come armi, le trombette da clown che soffocano le vittime, i bozzoli per catturare gli umani mediante zucchero filato) altre volte rischia di sembrare forzoso, per non dire troppo assurdo per essere vero. Ma in questo caso il film, nella sua semplicità, riesce a reggersi sulle proprie gambe, e questo lo eleva rispetto ad una certa media qualitativa, che è in genere piuttosto bassa, in questi scenari del genere.

    Le stesse interpretazioni degli attori, del resto, non sempre sono all’altezza (con poche eccezioni), i dialoghi giocano sulle situazioni tipiche da b-movie e, in buona sostanza, ne fanno una divertente contro-parodia: il cult di riferimento è il genere di fantascienza modello The brain, ma anche Invaders from Mars ed ovviamente Blob – Fluido mortale, in cui – evergreen – una piccola città è invasa dagli alieni, nell’indifferenza delle autorità. Tantissime situazioni, al limite del parodistico-demenziale, vedono gli alieni-clown muoversi esattamente come dei pagliacci, ovvero con movenze buffe o facendo scherzi (il mazzo di fiori con lo spruzzo d’acqua, ad esempio), ma nell’unico interesse di rapire esseri umani per cibarsene. Se non altro, qui siamo di fronte a situazioni parodistiche che si fanno accettare per quello che sono: non c’è tempo per puntualizzare, e bisogna per forza di cose sopravvolare sulle situazioni meno probabili, anche perchè il film garantisce un format leggero per la classica serata b-movie tra amici.

    Un film davvero incredibile, pertanto – forse tra le migliori commedie horror americane anni 80, poco nota in Italia, probabilmente, ma da riscoprire senza indugio. Era inoltre previsto – ultime notizie sono del 2017 – un sequel sempre da parte dei fratelli Chiodo, che sarebbe dovuto essere girato in 3D (dal titolo provvisorio: The Return of the Killer Klowns from Outer Space in 3D). A quanto pare, pero’, il sequel non uscirà per via di alcune complicazioni produttive: ma in questi casi, ovviamente, mai dire mai.

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