AZIONE!_ (20 articoli)

Recensioni dei migliori film d’azione usciti al cinema e per il mercato home video.

  • I tre giorni del condor: trama, cast, spiegazione e critica

    I tre giorni del condor: trama, cast, spiegazione e critica

    In breve. “I tre giorni del condor” è un film thriller diretto da Sydney Pollack e uscito nel 1975. Il titolo originale è “Three Days of the Condor”. Il film è basato sul romanzo “Six Days of the Condor” di James Grady.

    Trama e sinossi (senza spoiler)

    La trama de “I tre giorni del Condor” segue le vicende di Joseph Turner (interpretato da Robert Redford), un analista della CIA che lavora in un ufficio segreto a New York. Turner è incaricato di leggere libri, giornali e riviste da tutto il mondo, alla ricerca di possibili indizi su attività nemiche. Un giorno, mentre si trova al lavoro, Turner scopre che tutti i suoi colleghi sono stati brutalmente assassinati mentre lui era fuori per pranzo. Comprende immediatamente di essere in pericolo e scappa, cercando rifugio e cercando di capire cosa sta succedendo.

    Turner si rivolge a un giornalista in pensione di nome J. Higgins (interpretato da Cliff Robertson) per chiedere aiuto e cercare di scoprire chi possa essere dietro l’attacco alla sua agenzia. Nel frattempo, un gruppo di assassini, guidati da un uomo chiamato Joubert (interpretato da Max von Sydow), è sulle sue tracce, determinato a ucciderlo.

    Turner e Higgins lavorano insieme per scoprire la verità dietro l’attacco e scoprono che ci sono forze all’interno della CIA che sono coinvolte in un complotto per controllare le risorse petrolifere nel Medio Oriente. Mentre cercano di raccogliere prove e scappare dai loro inseguitori, Turner e Higgins si trovano sempre più coinvolti in una rete di inganni e tradimenti.

    Il film culmina in un finale carico di tensione, con Turner che deve mettere in atto tutta la sua astuzia e le sue risorse per sopravvivere e portare alla luce la verità nascosta dietro l’attacco alla CIA.

    Cast

    Ecco il cast principale del film “I tre giorni del Condor”:

    1. Robert Redford nel ruolo di Joseph Turner (Condor)
    2. Faye Dunaway nel ruolo di Kathy Hale
    3. Cliff Robertson nel ruolo di J. Higgins
    4. Max von Sydow nel ruolo di Joubert
    5. John Houseman nel ruolo di Mr. Wabash
    6. Addison Powell nel ruolo di Leonard Atwood
    7. Walter McGinn nel ruolo di Sam Barber
    8. Tina Chen nel ruolo di Janice Chon
    9. Michael Kane nel ruolo di S.W. Wicks
    10. Don McHenry nel ruolo di Dr. Ferdinand Lappe

    Questi sono i principali membri del cast del film. Oltre a loro, ci sono altri attori che interpretano ruoli minori nel corso della storia.

    Curiosità

    • Il film è basato sul romanzo “Six Days of the Condor” di James Grady, ma il titolo è stato abbreviato in “Three Days of the Condor” per il film. Questa modifica è stata fatta per rendere il titolo più conciso e accattivante.
    • Inizialmente, il ruolo di Joseph Turner (Condor) era stato offerto a Clint Eastwood, ma è stato poi interpretato da Robert Redford, il quale ha anche partecipato come produttore esecutivo del film.
    • La colonna sonora del film è stata composta da Dave Grusin, il quale ha creato una partitura jazz molto acclamata. In particolare, la traccia principale del film, “Condor! (Theme from ‘Three Days of the Condor’)”, è diventata molto popolare e riconoscibile.
    • Riferimenti alla CIA: Il film offre uno sguardo intrigante all’interno della CIA e dei suoi metodi operativi. Molti critici hanno notato che il film è stato particolarmente rilevante durante il periodo post Watergate, quando il pubblico era particolarmente interessato alla corruzione e agli intrighi all’interno del governo degli Stati Uniti.
    • Scena dell’incontro: Una delle scene più memorabili del film è l’incontro tra Joseph Turner (Robert Redford) e Joubert (Max von Sydow) in un parco. Questa scena è stata girata in una singola ripresa, senza tagli, e si svolge in modo molto tranquillo e minaccioso, sottolineando la tensione tra i due personaggi.
    • Critiche positive: “I tre giorni del Condor” ha ricevuto recensioni positive dalla critica e ha avuto un successo commerciale al botteghino. È considerato uno dei migliori thriller degli anni ’70 e ha guadagnato un seguito di fan nel corso degli anni.

    Critica

    Il film è noto per la sua atmosfera di tensione, la trama intricata e le performance degli attori, in particolare quella di Redford. È considerato un classico del cinema thriller degli anni ’70 e ha ricevuto elogi dalla critica per la sua regia, la sceneggiatura e la colonna sonora.

  • Tarantino e gli omaggi al cinema di arti marziali: “Kill Bill Vol. 1”

    Una sposa incinta è ferita e sanguinante: un uomo l’ha appena aggredita e sta per spararle.

    In breve. Tarantino omaggia i film di arti marziali di ogni ordine e grado, proponendo un kolossal del genere: fantasioso, ricco di violenza e colpi di scena. 

    Girato con un budget di almeno $60,000 (solo per l’armeria), Kill Bill è probabilmente – ad oggi – uno dei film di arti marziali più celebri e marketizzati della storia; è anche uno dei film di Tarantino più associabili al cinema di genere di ogni ordine e grado, per quanto l’ispirazione primaria sia dovuta a quelli di Bruce Lee. Al netto del vestiario della sposa, infatti, che indossa una tuta gialla identica a quella di Bruce, Kill Bill (in questo primo volume di quella che, ad oggi, potrebbe essere una trilogia incompiuta, che forse non vedremo mai sullo schermo) palpita di azione, eccesso e violenza in quasi ogni singolo fotogramma.

    Le fonti di ispirazione ufficiali sono tre film: The Killer di John Woo (1989), la blaxpoitation di Coffy (1973) ed il western di Per un pugno di dollari (1964); per quanto poi, a ben vedere, si tratti forse del film tarantiniano che omaggia più esplicitamente Lucio Fulci. Non solo per la presenza nella colonna sonora del main theme di Sette note in nero, ma anche per il tipo di violenza esplicita (spesso in primissimo piano, senza risparmiare dettagli) che viene qui omaggiata, rielaborata e riproposta in chiave moderna. Bill, peraltro, è una figura sinistra e difficile da inquadrare, neanche fosse il Jason del primo Venerdì 13, e rimane solo citato da altri personaggi senza vedersi mai (si vedranno solo le sue mani all’inizio ed alla fine del film: per vedere la sua faccia bisognerà infatti aspettare il secondo volume).

    Fondamentale in questo film l’apporto della Thurman, che a quanto pare ebbe l’idea di girare un film di arti marziali durante le riprese di Pulp Fiction (e infatti viene anche tributata nei titoli di coda: Based on the character of ‘The Bride’ created by Q and U è riferito proprio a Quentin e Uma), costruendo un personaggio su misura, archetipico dei film di kung fu: l’eroe solitario disposto a qualsiasi cosa pur di soddisfare la propria sete di vendetta.

    La Sposa è un personaggio tipicamente da film di genere, che per molti versi (e per via di certe morbose circostanze) evoca uno dei film preferiti (e meno citati dalla critica più hipster) di Tarantino, ovvero Thriller – A grim film. La guerriera disposta a qualsiasi cosa pur di vendicarsi dei propri aguzzini, del resto, farebbe di Kill Bill un vero e proprio rape’n revenge, se non fosse per la sua sostanza spettacolare, quasi da cine-fumetto, lontana dalla semi-amatorialità che rese famosi (quanto insostenibili) quel genere di film. Molti altri riferimenti, del resto, sono difficili da inquadrare per via del doppiaggio italiano, per la cronaca: la celebre pluri-citazione “My name’s Buck, and I’m here to fuck” (che suona meravigliosamente assonante quanto è semplicemente grottesca e priva di musicalità, se resa in italiano) è prelevata da una battuta quasi identica di Robert Englund in Quel motel vicino alla palude.

    Nota di merito anche per la colonna sonora, che vede contributi che quasi precedono la fama del film (Nancy Sinatra, The RZA, SFX), brani classici del cinema di genere (Bacalov, Vince Tempera), e altri più di nicchia o raffinati (Neu!). Con un body count degno di uno slasher (si contano in questo episodio 95 morti in tutto), Kill Bill Vol. 1 venne girato in pellicola Super 35 (3-perf), per quanto poi nei credits figuri “Filmed in Panavision“. La scena più esaltante di una pellicola che nasce per esaltare lo spettatore, lasciando svariate parentesi aperte, rimane quella finale: la lotta della Sposa contro gli 88 Folli (Crazy 88, che ci ricorderanno poi ironicamente che “non erano veramente 88“), un omaggio esplicito alla cinematografia kung-fu anni 70 e 80 (soprattutto all’incompiuto Game of death, citato tra gli altri in Bruce Lee La leggenda), ma diventa anche un modo per il regista per aggirare un vincolo imposto all’epoca dalla MPAA, che non gradì l’eccesso di sangue durante quella sequenza.

    Una sequenza interminabile, accattivante quanto paradossalmente (penso) poco realistica anche per un film di arti marziali: del resto Tarantino è sempre stato il re dell’omaggio quanto dell’eccesso, ed impiegò 17 ciak e ben 6 ore di lavoro di cui molto girato con una steadicam (l’operatore ne uscì esausto, da quello che ne sappiamo). Nonostante la lunghezza eccessiva dell’opera, il regista è stato poi abile a tenere alta l’attenzione (apre furbescamente una parentesi sul figlio della sposa proprio negli ultimi secondi del film, ad esempio), anche perchè il rischio di diluire la trama era altissimo, e ne sarebbe risultato, all’atto pratico, un film molto meno consistente di quanto non sia in realtà.

  • Il serpente di fuoco: uno dei primi film autenticamente psichedelici

    Paul Groves è prossimo al divorzio, disorientato dalla circostanza e restìo ad affrontare la realtà: decide di sperimentare un acido per la prima volta in vita sua, dando vita ad un interminabile trip allucinato.

    In breve. È il racconto di un trip lisergico da parte di un protagonista alla prima esperienza in assoluto. Vivido, a tratti oscuro e vagamente autoironico, è noto per essere uno dei primi film a riportare le allucinazioni da LSD su pellicola, a quanto pare auto-sperimentate da alcuni attori e dal regista.

    Si potrebbero citare mille trame di film relazionate all’esperienza di assunzione di LSD, la nota droga dagli effetti imprevedibili – oltre che ideale, ovviamente solo dal punto di vista narrativo, per sviluppare originali variazioni sui soliti temi. “Il serpente di fuoco” – titolo con cui è circolata l’opera in Italia, al netto di un doppiaggio un po’ approssimativo o poco convincente – è una delle opere di Roger Corman più famose, oltre ad essere uno dei primi film (se non il primo in assoluto: siamo nel 1967) a trattare il tema della psichedelia in modo netto oltre che “sentito”.

    Tanto esplicito che venne inserita una minacciosa introduzione, a quanto pare non prettamente voluta dal regista, con una voce fuori campo che parla degli effetti delle droghe e la loro pericolosità, la quale evoca un po’ (per modi e toni utilizzati) l’introduzione de L’ultima casa a sinistra di Wes Craven.

    Il focus è incentrato sulla sindrome dell’abbandono che attanaglia il personaggio di un regista (interpretato da Peter Fonda che, qualche tempo dopo, girò Easy Rider), ormai prossimo al divorzio e deciso a sperimentare LSD, per la prima volta in vita sua, con la supervisione di un amico che gli fa da “guida”. Ulteriore perla: la sceneggiatura venne scritta da Jack Nicholson, sulla base di assunzione di LSD controllata da un gruppo di medici (e che fece parte dell’esperienza di Fonda, di Hooper e del regista stesso), ispirandosi alla vera storia che aveva portato Nicholson a divorziare dalla prima moglie (Sandra Knight).

    Vedevo fino in fondo al cervello… avevi ragione, è tutto nella testa.

    L’effetto dell’acido viene reso mediante un curioso gioco di caleidoscopi colorati, alternandolo con un girato allucinato di Fonda vestito in maniera diversa, all’interno di un esotico – e non meglio specificato – ambiente, caratterizzato da una spiaggia che velatamente vorrebbe omaggiare Il settimo sigillo di Ingrid Bergman. Non sappiamo se quelle esperienze furono effettivamente vissute e poi riprodotte sulla macchina da presa dal regista (come pare risaputo avessero fatto anche Kubrick e Noè, per inciso, girando rispettivamente 2001 Odissea nello spazio e Climax), o se si trattò solo di una manovra promozionale: comunque stiano le cose,  le immagini di Corman lasciano il segno – e rendono parecchio l’idea.

    È notevole come Corman abbia saputo destreggiarsi tra vari effetti psichedelici visuali, ben accompagnati dalle improvvisazioni dei The Electric Flag e di qualità davvero eccellente, considerando l’epoca ed il fatto che The trip è considerato un film low budget (costato appena 100.000 dollari, ne incassò ben 10 milioni al botteghino). Al netto della oggettiva pesantezza di alcune sequenze che appaiono davvero interminabili, è interessante come sia ricorrente il tema del sesso e del consumismo da un lato (simboleggiato da cartelloni luminosi, folla, ambienti cittadini e naturalmente tette), e quello della repressione dall’altro (gli incappucciati del trip, che poi “diventano” poliziotti probabilmente chiamati dal proprietario della casa in cui si era intrufolato). Corman non è Antonioni, ovviamente, ma il senso ribelle del suo film è puramente anni 60 (e permane ancora oggi, forse). Le esperienze raccontate, inoltre, puntano all’aspetto più vivido e realistico, ovvero rientrano in cose plausibili per chi sperimentava quelle sostanze (nella sua autobiografia The Lost Gospels, ad esempio, Al Jourgensen racconta un paio di episodi reali in cui, durante un trip, si era introfulato nelle case dei vicini credendo che fosse la propria, proprio come vediamo fare a Paul quando si ritrova a guardare la TV con una bambina).

    Soprattutto perché, al netto di un inizio di trip da autentico hippie (con una memorabile sequenza di “amplesso psichedelico” con la ex moglie), pian piano prende piede una sorta di coscienza di morte in Paul: tale mood è raffigurato da immagini dal sapore gotico di individui incappucciati che lo inseguono a cavallo e di altri oscuri figuri che, semplicemente, lo torturano. A quel punto Paul si risveglia nudo in piscina, attanagliato da un senso di minaccia e, in prenda al panico, abbandona la propria guida e si incammina per le strade, delirando. La trama del film è abbastanza difficile da raccontare, a questo punto, perchè continua a svolgersi su un doppio livello: Paul allucinato che rincorre mentalmente la donna da cui è ancora attratto (pagandone le conseguenze tra metafore di paure, sensi di colpa e via dicendo), e Paul nella vita reale che vive singolari esperienze fino ad incontrare un’altra donna, che (alla fine del viaggio) lascia un senso di parziale incompiutezza: il protagonista sembra sapere quello che vuole, a questo punto, ma un senso di vaghezza sembra impadronirsi del suo essere (il celebre “aspetta domani” pronunciato dalla donna). Il film si chiude su una singolare soluzione visiva (l’immagine di Paul che si spacca, come un vetro rotto), il che ne ricorda una analoga che userà Lucio Fulci nel finale di Paura nella città dei morti viventi.

    È molto significativa la sequenza del trip in cui Paul è seduto su una minacciosa sedia elettrica, e passa in rassegna varie fotografie collegate alla sua attività di regista: lo zio Sam, la bandiera USA, Sophia Loren. Quelle immagini, pero’, non significano nulla per lui, e lo afferma a chiare lettere, e quando inizia a discutere di pubblicità il focus sembra scivolare letteralmente sul meta-cinema. Il senso del discorso, che vede il protagonista alla fine su una giostra a discutere della propria vita con un hippie (che aveva conosciuto in precedenza) vestito da giudice, verte sul senso di colpa del protagonista e, in relazione al proprio divorzio, sul legame ancora vivido con la ex moglie – ma anche sulle responsabilità che non è disposto ad assumersi.

    Al netto del senso di disorientamento che il genere, di per sè, in questo caso non può fare altro che indurre anche nello spettatore – e con una solida regia alle spalle – The trip è una singolare gemma del periodo, un unicum da reperire ad ogni costo.

  • 13 Assassini di Takashi Miike è il film d’azione basato su una storia realmente accaduta

    Nella sterminata filmografia di Takashi Miike, frammisti tra manga cinematografici (Yattaman), horror, thriller e quant’altro, rischia di apparire pretenzioso esprimere un giudizio senza averne visti pressappoco la metà: del resto si tratta di quasi cento pellicole, molte delle quali disponibili esclusivamente su internet, e neanche tutte doppiate in italiano (solo sottotitoli).  Una situazione che costringe, di fatto, anche il cinefilo più incallito a valutare ogni suo film come una cosa a sè stante, facendo diventare un’impresa titanica delineare una linea di continuità tra le opere.

    Nel caso dei “13 assassini” ci può stare, credo, che si esprima una valutazione a prescindere da tutto, dato che – al di là della violenza estetizzante, tra Eli Roth e Tarantino – non è esattamente un horror, anche se eredita parecchio a livello di gore: non mi sorprenderebbe sapere che possa aver deluso chi ha visto ad esempio Audition, dello stesso regista, dato che si tratta di un sostanziale remake di un film anni 60 di arti marziali con lo stesso titolo. 13 assassini” è intriso di cultura e tradizione giapponese – con riferimento al mondo dei samurai, esaltandone il codice etico da guerrieri e, al tempo stesso, mettendo in discussione gli assunti di una società arcaica che si sta estinguendo. Due mondi contrapposti – dignitosa tradizione contro avida modernità – che combattono ferocemente  come consuetudine vuole anche nei film di Bruce Lee.

    La storia narra di un gruppo di dodici samurai (più un tredicesimo che si aggiungerà in seguito), che dovrà combattere contro un esercito intero per eliminare un signorotto feudale (Naritsugo) feroce e sanguinario. Il tutto per evitare che l’uomo possa consolidare ancora di più il proprio potere, approfittando dell’impunità di cui gode (etteparèva) e della schiera di soldati pronti a morire per difenderlo. Dopo una prima parte più contemplativa (anche se il sangue arriva dopo pochi minuti, mostrando il suicidio rituale di un uomo), si passa all’azione vera e propria: la dinamica di fatto è quella di un puro action-movie, solo con qualche spiegazione etico-filosofica in più rispetto alla media. I riferimenti di fondo, da tenere presente, sono almeno due: “I sette samurai” di Kurosawa – altro bellissimo film – e l’omonimo <<13 Assassini>> di Eiichi Kudo, del 1963.

    Questo film possiede dunque la struttura di un tipico film orientale di arti marziali elaborato in chiave moderna (ottima la fotografia), e trasposto nel mare di sangue di una guerra senza scampo, che potrebbe quasi considerarsi l’equivalente nipponico di Platoon. Di fatto molti tratti dei “13 assassini” sono (atipicamente, direi) “occidentalizzati”, a cominciare dallo svilupparsi lineare della trama, senza trascurare dettagli che saranno familiari un po’ a chiunque, come il samurai che minaccia il proprio opponente con un “ci vediamo all’inferno” che sa troppo di già sentito e di american-way. Un film inizialmente lento – è un luogo comune, in questi casi, ma va detto – che non mostra debolezze umane su cui sadici aguzzini infieriscono (come nel succitato Audition) bensì la figura di un Male assoluto, beffardo, compiaciuto e sostanzialmente estraneo a qualsiasi moralità. Un Male che gode nel vedere le proprie pedine combattere ferocemente, e difenderlo come se fosse un semi-dio.

    Se avete un po’ di insana curiosità, o comunque apprezzate il cinema orientale e non siete schizzinosi in fatto di sangue, secondo me dovete procurarvi questa pellicola ad ogni costo, e non credo rimarrete delusi. In caso contrario state alla larga, o alla meglio è bene che vi prepariate con la giusta predisposizione mentale ad assistere ad una pellicola insolita, che ha come suo principale “difetto”, se posso chiamarlo così, qualche momento lento e riflessivo non sempre troppo comprensibile. Una complessità che cozza con la tagline degna di un film di Schwarzy (“13 uomini / una missione / massacro totale“), forse un po’ subdola e che possiede il pesante difetto di suggerire una banale “tamarrata” anni 80.

  • Quel maledetto treno blindato: il film di guerra di Castellari che ispirò Tarantino

    1944: cinque soldati americani vengono condannati a morte per motivi diversi in un campo nei pressi delle Ardenne; durante il tragitto si buca uno pneumatico…

    In breve. Film di guerra italiano, motivo di grande interesse e decisamente originale, con qualche inevitabile pecca.

    La storia è quella di un gruppo di disertori, durante la seconda guerra mondiale, che si trovano in Francia per essere fucilati: durante il tragitto si creerà per loro una nuova storia, ricca di avventure ed imprevisti. Una lotta per la sopravvivenza che li dovrebbe portare, dopo l’assalto ad un treno, verso la salvezza, nel territorio neutro della Svizzera. Una battaglia contro tutto e tutti, visto che il gruppo si troverà perennemente tra due fuochi, e sarà esaltato il senso di fedeltà tra i commilitoni accomunati dai medesimi problemi, rispetto alla fedeltà alla nazione o a qualsiasi bandiera prestabilità. Un senso di anomala solidarietà tipico del western, di fatto, e di tutto un filone di cinema realistico e di vendetta, da Distretto 13 a I guerrieri della notte e moltissimi altri.

    Molta della fama di questo film si deve, almeno in parte, a Quentin Tarantino, amante del cinema di genere e (ri)scopritore di talenti nascosti (spesso e volentieri italiani) che ne ha citato lo spirito ed alcuni passaggi (ma non la trama) all’interno dei suo Inglorious Basterds. Quando in seguito avrebbe diretto il suo Bastardi senza gloria, un film dal titolo identico ma con storia completamente diversa, volle acquistare solo i diritti sul titolo, giusto per evocare questo cinema, questi tempi e questi ritmi. Nel suo caso non si è trattata pertanto di un’operazione di remake, bensì del suo consueto gioco di citazioni: l’opera di Castellari si ricollega ad un filone ben consolidato, da cui eredita una componente di azione ricca di momenti intensi e di siparietti ironici, motivo di interesse sostanziale per il film. La sceneggiatura è stata affidata a Sergio Grieco, autore di film semi-dimenticati di genere prevalentemente poliziesco, tra cui il misconosciuto ed introvabile I violenti di Roma bene: qui, cronologicamente, si tratto dell’ultimo film da lui scritto, in collaborazione con lo stesso regista.

    Un film che è forse lontano dal capolavoro di guerra, ma che diverte, avvince e si fa seguire con una sceneggiatura azzeccatissima e varie trovate originali, tra cui i siparietti del baffuto Michael Pergolani (che interpreta il soldato Nick Colasanti) che nella versione italiana è stato doppiato in siciliano. Insomma un cult a tutti gli effetti, con qualche difetto riscontrabile quasi esclusivamente in alcune trovate improbabili, come le mitologiche infermiere tedesche che ovviamente faranno il bagno più sexy possibile nel laghetto. Per il resto, Quel maledetto treno blindato rimane impresso con tutti i suoi protagonisti, tra cui la superba, direi, interpretazione di Bo Svenson, il tenente Yeager attorno al quale ruota l’intera storia.

Exit mobile version