AZIONE!_ (20 articoli)

Recensioni dei migliori film d’azione usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Tarantino e gli omaggi al cinema di arti marziali: “Kill Bill Vol. 1”

    Tarantino e gli omaggi al cinema di arti marziali: “Kill Bill Vol. 1”

    Una sposa incinta è ferita e sanguinante: un uomo l’ha appena aggredita e sta per spararle.

    In breve. Tarantino omaggia i film di arti marziali di ogni ordine e grado, proponendo un kolossal del genere: fantasioso, ricco di violenza e colpi di scena. 

    Girato con un budget di almeno $60,000 (solo per l’armeria), Kill Bill è probabilmente – ad oggi – uno dei film di arti marziali più celebri e marketizzati della storia; è anche uno dei film di Tarantino più associabili al cinema di genere di ogni ordine e grado, per quanto l’ispirazione primaria sia dovuta a quelli di Bruce Lee. Al netto del vestiario della sposa, infatti, che indossa una tuta gialla identica a quella di Bruce, Kill Bill (in questo primo volume di quella che, ad oggi, potrebbe essere una trilogia incompiuta, che forse non vedremo mai sullo schermo) palpita di azione, eccesso e violenza in quasi ogni singolo fotogramma.

    Le fonti di ispirazione ufficiali sono tre film: The Killer di John Woo (1989), la blaxpoitation di Coffy (1973) ed il western di Per un pugno di dollari (1964); per quanto poi, a ben vedere, si tratti forse del film tarantiniano che omaggia più esplicitamente Lucio Fulci. Non solo per la presenza nella colonna sonora del main theme di Sette note in nero, ma anche per il tipo di violenza esplicita (spesso in primissimo piano, senza risparmiare dettagli) che viene qui omaggiata, rielaborata e riproposta in chiave moderna. Bill, peraltro, è una figura sinistra e difficile da inquadrare, neanche fosse il Jason del primo Venerdì 13, e rimane solo citato da altri personaggi senza vedersi mai (si vedranno solo le sue mani all’inizio ed alla fine del film: per vedere la sua faccia bisognerà infatti aspettare il secondo volume).

    Fondamentale in questo film l’apporto della Thurman, che a quanto pare ebbe l’idea di girare un film di arti marziali durante le riprese di Pulp Fiction (e infatti viene anche tributata nei titoli di coda: Based on the character of ‘The Bride’ created by Q and U è riferito proprio a Quentin e Uma), costruendo un personaggio su misura, archetipico dei film di kung fu: l’eroe solitario disposto a qualsiasi cosa pur di soddisfare la propria sete di vendetta.

    La Sposa è un personaggio tipicamente da film di genere, che per molti versi (e per via di certe morbose circostanze) evoca uno dei film preferiti (e meno citati dalla critica più hipster) di Tarantino, ovvero Thriller – A grim film. La guerriera disposta a qualsiasi cosa pur di vendicarsi dei propri aguzzini, del resto, farebbe di Kill Bill un vero e proprio rape’n revenge, se non fosse per la sua sostanza spettacolare, quasi da cine-fumetto, lontana dalla semi-amatorialità che rese famosi (quanto insostenibili) quel genere di film. Molti altri riferimenti, del resto, sono difficili da inquadrare per via del doppiaggio italiano, per la cronaca: la celebre pluri-citazione “My name’s Buck, and I’m here to fuck” (che suona meravigliosamente assonante quanto è semplicemente grottesca e priva di musicalità, se resa in italiano) è prelevata da una battuta quasi identica di Robert Englund in Quel motel vicino alla palude.

    Nota di merito anche per la colonna sonora, che vede contributi che quasi precedono la fama del film (Nancy Sinatra, The RZA, SFX), brani classici del cinema di genere (Bacalov, Vince Tempera), e altri più di nicchia o raffinati (Neu!). Con un body count degno di uno slasher (si contano in questo episodio 95 morti in tutto), Kill Bill Vol. 1 venne girato in pellicola Super 35 (3-perf), per quanto poi nei credits figuri “Filmed in Panavision“. La scena più esaltante di una pellicola che nasce per esaltare lo spettatore, lasciando svariate parentesi aperte, rimane quella finale: la lotta della Sposa contro gli 88 Folli (Crazy 88, che ci ricorderanno poi ironicamente che “non erano veramente 88“), un omaggio esplicito alla cinematografia kung-fu anni 70 e 80 (soprattutto all’incompiuto Game of death, citato tra gli altri in Bruce Lee La leggenda), ma diventa anche un modo per il regista per aggirare un vincolo imposto all’epoca dalla MPAA, che non gradì l’eccesso di sangue durante quella sequenza.

    Una sequenza interminabile, accattivante quanto paradossalmente (penso) poco realistica anche per un film di arti marziali: del resto Tarantino è sempre stato il re dell’omaggio quanto dell’eccesso, ed impiegò 17 ciak e ben 6 ore di lavoro di cui molto girato con una steadicam (l’operatore ne uscì esausto, da quello che ne sappiamo). Nonostante la lunghezza eccessiva dell’opera, il regista è stato poi abile a tenere alta l’attenzione (apre furbescamente una parentesi sul figlio della sposa proprio negli ultimi secondi del film, ad esempio), anche perchè il rischio di diluire la trama era altissimo, e ne sarebbe risultato, all’atto pratico, un film molto meno consistente di quanto non sia in realtà.

  • Il serpente di fuoco: uno dei primi film autenticamente psichedelici

    Paul Groves è prossimo al divorzio, disorientato dalla circostanza e restìo ad affrontare la realtà: decide di sperimentare un acido per la prima volta in vita sua, dando vita ad un interminabile trip allucinato.

    In breve. È il racconto di un trip lisergico da parte di un protagonista alla prima esperienza in assoluto. Vivido, a tratti oscuro e vagamente autoironico, è noto per essere uno dei primi film a riportare le allucinazioni da LSD su pellicola, a quanto pare auto-sperimentate da alcuni attori e dal regista.

    Si potrebbero citare mille trame di film relazionate all’esperienza di assunzione di LSD, la nota droga dagli effetti imprevedibili – oltre che ideale, ovviamente solo dal punto di vista narrativo, per sviluppare originali variazioni sui soliti temi. “Il serpente di fuoco” – titolo con cui è circolata l’opera in Italia, al netto di un doppiaggio un po’ approssimativo o poco convincente – è una delle opere di Roger Corman più famose, oltre ad essere uno dei primi film (se non il primo in assoluto: siamo nel 1967) a trattare il tema della psichedelia in modo netto oltre che “sentito”.

    Tanto esplicito che venne inserita una minacciosa introduzione, a quanto pare non prettamente voluta dal regista, con una voce fuori campo che parla degli effetti delle droghe e la loro pericolosità, la quale evoca un po’ (per modi e toni utilizzati) l’introduzione de L’ultima casa a sinistra di Wes Craven.

    Il focus è incentrato sulla sindrome dell’abbandono che attanaglia il personaggio di un regista (interpretato da Peter Fonda che, qualche tempo dopo, girò Easy Rider), ormai prossimo al divorzio e deciso a sperimentare LSD, per la prima volta in vita sua, con la supervisione di un amico che gli fa da “guida”. Ulteriore perla: la sceneggiatura venne scritta da Jack Nicholson, sulla base di assunzione di LSD controllata da un gruppo di medici (e che fece parte dell’esperienza di Fonda, di Hooper e del regista stesso), ispirandosi alla vera storia che aveva portato Nicholson a divorziare dalla prima moglie (Sandra Knight).

    Vedevo fino in fondo al cervello… avevi ragione, è tutto nella testa.

    L’effetto dell’acido viene reso mediante un curioso gioco di caleidoscopi colorati, alternandolo con un girato allucinato di Fonda vestito in maniera diversa, all’interno di un esotico – e non meglio specificato – ambiente, caratterizzato da una spiaggia che velatamente vorrebbe omaggiare Il settimo sigillo di Ingrid Bergman. Non sappiamo se quelle esperienze furono effettivamente vissute e poi riprodotte sulla macchina da presa dal regista (come pare risaputo avessero fatto anche Kubrick e Noè, per inciso, girando rispettivamente 2001 Odissea nello spazio e Climax), o se si trattò solo di una manovra promozionale: comunque stiano le cose,  le immagini di Corman lasciano il segno – e rendono parecchio l’idea.

    È notevole come Corman abbia saputo destreggiarsi tra vari effetti psichedelici visuali, ben accompagnati dalle improvvisazioni dei The Electric Flag e di qualità davvero eccellente, considerando l’epoca ed il fatto che The trip è considerato un film low budget (costato appena 100.000 dollari, ne incassò ben 10 milioni al botteghino). Al netto della oggettiva pesantezza di alcune sequenze che appaiono davvero interminabili, è interessante come sia ricorrente il tema del sesso e del consumismo da un lato (simboleggiato da cartelloni luminosi, folla, ambienti cittadini e naturalmente tette), e quello della repressione dall’altro (gli incappucciati del trip, che poi “diventano” poliziotti probabilmente chiamati dal proprietario della casa in cui si era intrufolato). Corman non è Antonioni, ovviamente, ma il senso ribelle del suo film è puramente anni 60 (e permane ancora oggi, forse). Le esperienze raccontate, inoltre, puntano all’aspetto più vivido e realistico, ovvero rientrano in cose plausibili per chi sperimentava quelle sostanze (nella sua autobiografia The Lost Gospels, ad esempio, Al Jourgensen racconta un paio di episodi reali in cui, durante un trip, si era introfulato nelle case dei vicini credendo che fosse la propria, proprio come vediamo fare a Paul quando si ritrova a guardare la TV con una bambina).

    Soprattutto perché, al netto di un inizio di trip da autentico hippie (con una memorabile sequenza di “amplesso psichedelico” con la ex moglie), pian piano prende piede una sorta di coscienza di morte in Paul: tale mood è raffigurato da immagini dal sapore gotico di individui incappucciati che lo inseguono a cavallo e di altri oscuri figuri che, semplicemente, lo torturano. A quel punto Paul si risveglia nudo in piscina, attanagliato da un senso di minaccia e, in prenda al panico, abbandona la propria guida e si incammina per le strade, delirando. La trama del film è abbastanza difficile da raccontare, a questo punto, perchè continua a svolgersi su un doppio livello: Paul allucinato che rincorre mentalmente la donna da cui è ancora attratto (pagandone le conseguenze tra metafore di paure, sensi di colpa e via dicendo), e Paul nella vita reale che vive singolari esperienze fino ad incontrare un’altra donna, che (alla fine del viaggio) lascia un senso di parziale incompiutezza: il protagonista sembra sapere quello che vuole, a questo punto, ma un senso di vaghezza sembra impadronirsi del suo essere (il celebre “aspetta domani” pronunciato dalla donna). Il film si chiude su una singolare soluzione visiva (l’immagine di Paul che si spacca, come un vetro rotto), il che ne ricorda una analoga che userà Lucio Fulci nel finale di Paura nella città dei morti viventi.

    È molto significativa la sequenza del trip in cui Paul è seduto su una minacciosa sedia elettrica, e passa in rassegna varie fotografie collegate alla sua attività di regista: lo zio Sam, la bandiera USA, Sophia Loren. Quelle immagini, pero’, non significano nulla per lui, e lo afferma a chiare lettere, e quando inizia a discutere di pubblicità il focus sembra scivolare letteralmente sul meta-cinema. Il senso del discorso, che vede il protagonista alla fine su una giostra a discutere della propria vita con un hippie (che aveva conosciuto in precedenza) vestito da giudice, verte sul senso di colpa del protagonista e, in relazione al proprio divorzio, sul legame ancora vivido con la ex moglie – ma anche sulle responsabilità che non è disposto ad assumersi.

    Al netto del senso di disorientamento che il genere, di per sè, in questo caso non può fare altro che indurre anche nello spettatore – e con una solida regia alle spalle – The trip è una singolare gemma del periodo, un unicum da reperire ad ogni costo.

  • 13 Assassini di Takashi Miike è il film d’azione basato su una storia realmente accaduta

    Nella sterminata filmografia di Takashi Miike, frammisti tra manga cinematografici (Yattaman), horror, thriller e quant’altro, rischia di apparire pretenzioso esprimere un giudizio senza averne visti pressappoco la metà: del resto si tratta di quasi cento pellicole, molte delle quali disponibili esclusivamente su internet, e neanche tutte doppiate in italiano (solo sottotitoli).  Una situazione che costringe, di fatto, anche il cinefilo più incallito a valutare ogni suo film come una cosa a sè stante, facendo diventare un’impresa titanica delineare una linea di continuità tra le opere.

    Nel caso dei “13 assassini” ci può stare, credo, che si esprima una valutazione a prescindere da tutto, dato che – al di là della violenza estetizzante, tra Eli Roth e Tarantino – non è esattamente un horror, anche se eredita parecchio a livello di gore: non mi sorprenderebbe sapere che possa aver deluso chi ha visto ad esempio Audition, dello stesso regista, dato che si tratta di un sostanziale remake di un film anni 60 di arti marziali con lo stesso titolo. 13 assassini” è intriso di cultura e tradizione giapponese – con riferimento al mondo dei samurai, esaltandone il codice etico da guerrieri e, al tempo stesso, mettendo in discussione gli assunti di una società arcaica che si sta estinguendo. Due mondi contrapposti – dignitosa tradizione contro avida modernità – che combattono ferocemente  come consuetudine vuole anche nei film di Bruce Lee.

    La storia narra di un gruppo di dodici samurai (più un tredicesimo che si aggiungerà in seguito), che dovrà combattere contro un esercito intero per eliminare un signorotto feudale (Naritsugo) feroce e sanguinario. Il tutto per evitare che l’uomo possa consolidare ancora di più il proprio potere, approfittando dell’impunità di cui gode (etteparèva) e della schiera di soldati pronti a morire per difenderlo. Dopo una prima parte più contemplativa (anche se il sangue arriva dopo pochi minuti, mostrando il suicidio rituale di un uomo), si passa all’azione vera e propria: la dinamica di fatto è quella di un puro action-movie, solo con qualche spiegazione etico-filosofica in più rispetto alla media. I riferimenti di fondo, da tenere presente, sono almeno due: “I sette samurai” di Kurosawa – altro bellissimo film – e l’omonimo <<13 Assassini>> di Eiichi Kudo, del 1963.

    Questo film possiede dunque la struttura di un tipico film orientale di arti marziali elaborato in chiave moderna (ottima la fotografia), e trasposto nel mare di sangue di una guerra senza scampo, che potrebbe quasi considerarsi l’equivalente nipponico di Platoon. Di fatto molti tratti dei “13 assassini” sono (atipicamente, direi) “occidentalizzati”, a cominciare dallo svilupparsi lineare della trama, senza trascurare dettagli che saranno familiari un po’ a chiunque, come il samurai che minaccia il proprio opponente con un “ci vediamo all’inferno” che sa troppo di già sentito e di american-way. Un film inizialmente lento – è un luogo comune, in questi casi, ma va detto – che non mostra debolezze umane su cui sadici aguzzini infieriscono (come nel succitato Audition) bensì la figura di un Male assoluto, beffardo, compiaciuto e sostanzialmente estraneo a qualsiasi moralità. Un Male che gode nel vedere le proprie pedine combattere ferocemente, e difenderlo come se fosse un semi-dio.

    Se avete un po’ di insana curiosità, o comunque apprezzate il cinema orientale e non siete schizzinosi in fatto di sangue, secondo me dovete procurarvi questa pellicola ad ogni costo, e non credo rimarrete delusi. In caso contrario state alla larga, o alla meglio è bene che vi prepariate con la giusta predisposizione mentale ad assistere ad una pellicola insolita, che ha come suo principale “difetto”, se posso chiamarlo così, qualche momento lento e riflessivo non sempre troppo comprensibile. Una complessità che cozza con la tagline degna di un film di Schwarzy (“13 uomini / una missione / massacro totale“), forse un po’ subdola e che possiede il pesante difetto di suggerire una banale “tamarrata” anni 80.

  • Uno di noi (let him go): trama, recensione, cast, spiegazione finale

    “Let Him Go” è un thriller neo-western del 2020, diretto, scritto e co-prodotto da Thomas Bezucha, con protagonisti Diane Lane e Kevin Costner. Il film si basa sul romanzo omonimo del 2013 scritto da Larry Watson. La trama ruota attorno a un ex sceriffo (interpretato da Kevin Costner) e a sua moglie (Diane Lane), che tentano di salvare il loro nipote da una famiglia pericolosa che vive in isolamento. Il cast include anche Lesley Manville, Kayli Carter, Will Brittain e Jeffrey Donovan.

    Il film è stato distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi il 6 novembre 2020 da Focus Features. “Let Him Go” ha ricevuto recensioni positive e ha incassato oltre 11,6 milioni di dollari.

    Il Concetto di Neo-Western

    Il termine “neo-western” si riferisce a una rielaborazione moderna dei temi e degli elementi classici del genere western. Mentre i western tradizionali si concentrano su avventure epiche, la lotta tra il bene e il male e l’espansione verso l’ovest degli Stati Uniti, i neo-western tendono a esplorare temi più complessi e realistici, spesso ambientati in contesti contemporanei.

    Nel caso di “Let Him Go”, il film incorpora elementi tipici del western—come la lotta per la giustizia e il confronto con una forza ostile—ma lo fa attraverso una lente moderna. L’ambientazione isolata e la dinamica familiare pericolosa ricordano i paesaggi e le tensioni dei western classici, ma i personaggi e le situazioni riflettono problematiche contemporanee, come l’isolamento sociale e il conflitto familiare.

    Il neo-western, quindi, non solo rende omaggio ai film western tradizionali, ma li aggiorna e li adatta ai temi e alle preoccupazioni del presente, offrendo una prospettiva nuova e più sfumata su una narrativa ben conosciuta.

    Cast

    Diane Lane nel ruolo di Margaret Blackledge
    Kevin Costner nel ruolo di George Blackledge
    Kayli Carter nel ruolo di Lorna Blackledge
    Ryan Bruce nel ruolo di James Blackledge
    Otto e Bram Hornung nel ruolo di Jimmy Blackledge
    Lesley Manville nel ruolo di Blanche Weboy
    Will Brittain nel ruolo di Donnie Weboy
    Jeffrey Donovan nel ruolo di Bill Weboy
    Will Hochman nel ruolo di Tucker
    Connor Mackay nel ruolo di Elton Weboy
    Adam Stafford nel ruolo di Marvin Weboy
    Booboo Stewart nel ruolo di Peter Dragswolf
    Greg Lawson nel ruolo di Gladstone Sheriff
    Bradley Stryker nel ruolo di Sceriffo Nevelson

    Recensione e trama

    Nel 1961, in Montana, l’ex sceriffo George Blackledge e sua moglie Margaret vivono con il loro figlio James, la moglie di James Lorna e il loro bambino Jimmy. Dopo che James muore tragicamente, Lorna sposa Donnie Weboy per ricevere il suo supporto. Tuttavia, quando Margaret osserva Donnie trattare male Jimmy, decide di intervenire. Scoprendo che Lorna e Jimmy sono in pericolo, Margaret e George partono per salvarli. Il loro viaggio li porta a Gladstone, North Dakota, dove cercano Bill Weboy, zio di Donnie, e incontrano diverse difficoltà. Alla fine, la loro missione culmina in una violenta resa dei conti con la famiglia Weboy, culminando in una serie di eventi tragici.

    “Let Him Go” ha ricevuto una risposta critica generalmente positiva. Su Rotten Tomatoes, il film ha ottenuto un elevato tasso di approvazione dell’84% da parte della critica, con una valutazione media di 7 su 10, suggerendo che, sebbene non perfetto, è stato ben accolto dalla maggior parte dei recensori. Il consenso critico sottolinea che la combinazione di dramma e thriller è ben gestita grazie alla forza interpretativa di un cast esperto. Metacritic, con un punteggio medio di 63 su 100, conferma che le recensioni sono per lo più favorevoli, ma non senza riserve.

    Dal punto di vista del pubblico, le risposte sono state miste ma positive. CinemaScore ha indicato una valutazione media di “B−”, suggerendo una risposta generalmente positiva ma con alcune riserve. Tuttavia, PostTrak ha rivelato che una percentuale considerevole di spettatori (82%) ha apprezzato il film, e metà di questi lo raccomanderebbe senza esitazioni.

    Le recensioni critiche lodano in particolare le interpretazioni di Kevin Costner e Diane Lane. Owen Gleiberman di Variety ha sottolineato come i due attori offrano una performance intensa e sincera, elevando il film. Barry Hertz di The Globe and Mail ha descritto il film come un thriller ben realizzato, sebbene orientato verso un pubblico più maturo che predilige drammi con elementi di violenza. Tuttavia, la qualità della realizzazione consente al film di intrattenere anche spettatori al di fuori di questo target specifico.

    (SPOILER da qui in poi)

    Il finale di “Let Him Go” è intenso e drammatico. Dopo aver subito gravi lesioni durante l’assalto da parte della famiglia Weboy, George trova la forza di lanciarsi in un’ultima azione disperata. La scena culminante vede George, armato di un fucile, tentare di liberare Jimmy dalla casa dei Weboy, che è stata messa a fuoco per distrarre i suoi nemici.

    George riesce a trovare un fucile sul retro della casa e si prepara a confrontarsi con Donnie. Tuttavia, la situazione si complica rapidamente. Blanche e Donnie, insieme ad altri familiari, attaccano George, ma lui riesce a neutralizzare Donnie e a prendere Jimmy. L’azione si sposta all’esterno dove Blanche, armata di pistola, viene colpita accidentalmente mentre tenta di fermare George. Nel caos, George lancia Jimmy a Lorna, che lo prende al volo, mentre Blanche spara a George, uccidendolo.

    Margaret, assistita da Peter, si precipita a salvare George ma arriva troppo tardi. Blanche, sconvolta e furiosa, continua a sparare e uccide anche Marvin ed Elton. Margaret riesce infine a impadronirsi del fucile e uccide Blanche, mentre la casa dei Weboy brucia.

    Alla fine, Margaret e Lorna, con Jimmy al sicuro, tornano a casa. Sebbene distrutta dalla perdita di George, Margaret trova una certa consolazione nella sicurezza di Jimmy, segnando la conclusione di una lunga e dolorosa lotta per la salvezza familiare.

  • Lo stupefacente successo del film di Super Mario Bros

    Un mese fa il film di Super Mario Bros ha superato il miliardo di dollari di vendite di biglietti in tutto il mondo. Per chi non lo conoscesse, questo film si tratta di una versione animata del famoso franchise di videogiochi arcade Nintendo. La sua prima del 5 aprile è stato il più grande weekend di apertura di qualsiasi film d’animazione di sempre, battendo il precedente detentore del record “Frozen II” della Disney.

    Chris Pratt dà la voce a Mario mentre possiamo trovare Anya Taylor-Joy nei panni della Principessa Peach. Anche la presenza di stelle di tale calibro ha attirato un vasto pubblico internazionale, guadagnando più di cinquecentotrenta milioni di dollari all’estero. Il riciclaggio della vecchia proprietà intellettuale è una formula predefinita nell’odierna Hollywood: c’è poco da fare, la nostalgia molto spesso vende. Nonostante questo, la scala del successo di Super Mario Bros. è stato sorprendente. Sebbene i giochi Nintendo siano stati introdotti negli Stati Uniti quattro decenni fa, l’adattamento dell’universo di Mario era una prospettiva in gran parte non testata. L’unico precedente era un bizzarro film d’azione del 1993, con dinosauri evoluti con la forza e strani costumi da rettile che oggi sarebbero considerati troppo stravaganti in film per bambini. La versione del ‘93 ha fallito, almeno al botteghino, guadagnando meno dei circa quarantotto milioni di dollari che è costato. Allo stesso tempo, magari per i più patiti, ci sono alcuni motivi che lo rendono comunque interessante.

    Il film segue i contorni dei videogiochi ma senza preoccuparsi di riempirli. Mentre Mario e Luigi cercano di mettersi alla prova affrontando una enorme alluvione urbana, vengono risucchiati nel mondo dei videogiochi tramite un tubo sotterraneo.

    Lì incontrano la Principessa Peach dal Regno dei Funghi in un mondo abitato da migliaia di creature dalla testa di fungo, tutte chiamate Toad.

    Nel loro percorso incontrano anche il malvagio Bowser, il cui amore non corrisposto per Peach lo ha spinto a invadere il suo pacifico regno con il suo esercito di tartarughe scheletro. Bowser è doppiato da Jack Black che riesce a infondere al personaggio un fascino disperato. Una nota di colore è data dalla ballata per pianoforte, cantata da Bowser grazie talento musicale di Black, che ha raggiunto la Billboard Hot 100 a metà aprile. Se siete curiosi, ecco il video ufficiale della canzone.

    Una delle scene più efficaci è una breve ripresa iniziale di Mario da solo nella sua camera da letto. La sua famiglia ha appena preso in giro il suo progetto di avviare un’attività idraulica con Luigi e lui si sente abbattuto. Quindi fa quello che farebbero molti giovani tristi nella sua situazione: nella stanza buia, su un vecchio schermo televisivo, gioca a un gioco pixelato sul Nintendo Entertainment System originale. Il gioco gli fornisce una breve fuga da ciò che lo circonda, in un mondo più contenuto e controllabile, con personaggi familiari e obiettivi raggiungibili.

    Cosa ha reso Super Mario Bros un successo? Da una parte è comprensibile come il pubblico possa essere stanco di infinite serie di supereroi in stile Marvel e cercare qualcosa di diverso. Infatti era dei fumetti della metà degli anni Duemila sta incontrando problemi e l’era dei giochi potrebbe essere alle porte sia a livello teatrale che a livello di piccolo schermo.

    Prodotto dallo studio Illumination, il successo di altri franchise come “Cattivissimo me” e “Minions” con i loro centinaia di milioni di dollari al botteghino dava una buona garanzia sulla riuscita di Mario Bros.

    Un altro aspetto da non sottovalutare è la capacità di questo film nel parlare a più generazioni. Infatti i bambini sono riusciti a cogliere numerosi riferimenti ai videogiochi del film: da un fungo che rende Bowser minuscolo o scene di combattimento in stile Super Smash Bros. Allo stesso tempo, c’erano riferimenti progettati anche per gli adulti: come ad esempio la scena nichilista di Luma, simile a una stella di Super Mario Galaxy imprigionata nella prigione di Bowser.

    Dall’altra per il puro riconoscimento del nome, Mario è difficile da battere in quanto uno dei pochissimi personaggi dei videogiochi che tutti conoscono.

    Alla fine dei conti, l’industria dei videogiochi è più grande del cinema stesso o della televisione, anche se può sembrare quasi invisibile se non sei un particolarmente coinvolto. Osservando solo il mercato americano, si sono spesi circa quarantasette miliardi di dollari in videogiochi nel 2022. Senza contare come rimangono ancora in voga i titoli più classici della categoria arcade, disponibili gratuitamente online come ad esempio Tetris o Pacman in questo sito.

    Solo il titolo Mario Kart Deluxe 8, una ristampa di un precedente gioco di corse di Mario, ha venduto più di cinquanta milioni di copie dal suo lancio nel 2017. Come un franchise Marvel, Mario si è trasformato in molti nuovi giochi ogni anno: Mario Golf, Mario Party, Luigi’s Mansion.

    Poiché Nintendo non tentava un film di Mario da decenni, c’era una nostalgia non sfruttata in milioni di consumatori che ricordano il gioco con affetto fin dall’infanzia o giocano ancora a nuove iterazioni. Tenendo conto di questo, è facilmente comprensibile come il film abbia raggiunto molte persone assomigliando il più possibile al gioco: d’altronde più meccanica e letterale è la somiglianza, meglio è.

Exit mobile version