PIANGERE_ (49 articoli)

Recensioni di film da piangere disperatamente (o drammatici che dir si voglia).

  • Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto: trama, cast, critica

    Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto: trama, cast, critica

    Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” è un classico del cinema italiano che, a prima vista, potrebbe sembrare un affresco spensierato di un’avventura estiva come tante, giusto nei pressi del mar Mediterraneo (più precisamente dalle parti della Sardegna). Questa considerazione nasce – quasi certamente – dall’averlo ridotto ad alcune scene emblematiche, o dall’averlo reso un meme senza badare alla sostanza (che è mastodontica, a ben vedere).

    Diretto dalla sapiente regia di Lina Wertmüller, si tratta di un vero e proprio trattato socio-politico sulle differenze di genere e di classe, rappresentate da un lato dal maschio comunista (il marinaio Gennarino) e dall’altro dalla donna borghese (la snob Raffaella). Il conflitto è esasperato dal fatto che i due saranno costretti a rimanere su un’isola deserta da naufraghi, condividendo loro malgrado la cattiva sorte. Ma cosa succederà alla loro relazione?

    Prima di raccontare ciò che questa gemma del cinema anni Settanta ha rappresentato per generazioni di cinefili è opportuno precisare ciò che questo film non è: non si tratta propriamente di un film d’amore, se non di un amore tragico e dalla conclusione quasi nichilista. Non si tratta nemmeno di un riassemblamento favolistico sulla falsariga di Incantesimo nei mari del sud (più noto negli anni Ottanta come Laguna blu), come la storia dei due naufraghi che finiscono per innamorarsi potrebbe suggerire allo spettatore non troppo attento. Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto è semmai uno dei film più politici mai girati in Italia, e anche uno dei più controversi e discussi: la relazione tra l’insopportabile e frustrata Raffaella (Mariangela Melato) ed il rude e patriarcale Gennarino (Giancarlo Giannini) è una metafora della relazione tra la classe sociale sfruttata e quella sfruttatrice, e naturalmente di cosa succederebbe se quella relazione fosse invertita (l’effetto di una rivoluzione primitiva e senza fronzoli, in sostanza). Se la circostanza oggi probabilmente si capisce poco è soprattutto per via della regressione dialettica che la politica ha subito, diventando uno scontro frontale delle ideologie a singhiozzo, che si richiamano solo quando serve o al limite per denigrare l’avversario. All’epoca dell’uscita del film la percezione era differente, perchè anche un film così finiva per suscitare reazioni più o meno scomposte, provando al contempo a ingenerare un dibattito sensato sui temi della violenza di genere, della lotta di classe e del contesto sociale in cui vivevamo a quei tempi.

    Nell’amore non c’è volgarità… ve la siete inventata voi borghesi, la volgarità.

    Nonostante le difficoltà iniziali Raffaella e Gennarino si adeguano allo stile di vita dell’isola, sia pure tra mille contrasti e prefigurando una forma di amore che, per quanto grottesca, è realistica, al punto potrebbe assimilarsi ad almeno una storia di vita reale che potremmo aver vissuto, stare vivendo o aver sentito da un amico o amica. Il richiamo al primitivismo è l’essenza del film, che prova ad immaginare come vivrebbero due novelli Adamo ed Eva in una società senza tecnologia e senza progressi, declinandosi come film che non riesce a far sorridere senza far riflettere, che non esita a portare il parossismo fino ad una violenza che, di per sè, non ha nulla di scenografico o di puramente visuale.

    La violenza del film, quando compare, è cruda, realistica, inattesa, quasi documentaristica: nella situazione iniziale Raffaella è una borghese colta, fintamente impegnata nella politica e sprezzante verso meridionali e classe operaia in genere, mentre Gennarino è un marinaio che conosce il mondo e possiede “il senso delle cose” e della pratica, al punto che riesce ad organizzarsi per sopravvivere sull’isola deserta senza intoppi. La donna, da sfioratrice del mondo appoggiata sugli allori, dovrà scendere ad inaccettabili compromessi pur di continuare a vivere, riscoprendo una parte di sè sepolta nel proprio inconscio e nel proprio essere spensieratamente borghese. In questo frangente Gennarino diventerà sempre più violento e aggressivo nei suoi confronti, formalmente con il pretesto di insegnare alla donna cosa significa lavorare per vivere, mentre Raffaella subirà passivamente la violenza, nascondendosi dietro un’ambiguo atteggiamento fatto di sopravvivenza, rassegnazione e presunto amore.

    È chiaro che si tratta di un film figlio del suo tempo, che oggi non sarebbe più realizzabile e susciterebbe reazioni ancora scomposte – proprio per quella violenza di cui si parla, decisamente insolita rispetto alla media, che finisce quasi per strizzare l’occhio a certa exploitation del primo Wes Craven o di Mario Bava. Nel momento in cui la relazione tra i due protagonisti si ribalta, infatti, esce fuori il lato oscuro del personaggio di Gennarino, il quale (nonostante la parvenza simpatica e da Peppone della situazione) è un uomo possessivo ed espressione di quello che oggi viene indicato con lo slogan men are trash: un un uomo egocentrato e tendenzialmente violento che considera la donna una preda da braccare. Nonostante abbia subito insulti e soprusi dettati dall’arroganza di Raffaella, in effetti, non è scontato che il pubblico empatizzi con lui. È in questo mood che mi sembra di ravvisare una qualche somiglianza con ciò che suscitano i film exploitation, che all’epoca andavano piuttosto bene e che, ancora oggi, sono difficili da distribuire e popolarizzare (nonostante ci sia una forte nicchia di pubblico che continua a seguirli).

    Chiaro che, con gli occhi di oggi, non bisogna commettere l’errore di considerare il tutto pura graphic violence (come i tarantiniani puri saranno tentati a fare) o peggio, di ergerla a manifesto del politicamente scorretto, addirittura finalizzandolo al voler normalizzare la violenza sulle donne. Il punto infatti non sembra la violenza sulla donna in astratto, ovviamente deprecabile in ogni luogo e tempo (lo dimostra se non altro l’insistere della camera su gesti che prima sono aggressivi, poi sono violenti, ad un certo punto diventano amorosi o sessuali e poi, tragicamente, si assestano come un mix indefinito tra amore e violenza). Nè tantomeno possiamo farci bastare la falsa rassicurazione che sia stata una regista a realizzare l’opera, perchè questo rischierebbe anche involontariamente di depotenziare il senso dell’opera e banalizzarlo. Il focus di Travolti da un insolito destino è invece la relazione politica tra due classi, l’inconciliabilità tra due estremi che hanno rovesciato il loro rapporto in senso rivoluzionario (il naufragio) e pagano le conseguenze della violenza insita in ogni rivoluzione (e da questo sembra trapelare, se non altro, disillusione). Le ripetute botte su Raffaella, unita al suo continuo scandalizzarsi per ciò che accade (addirittura durante le scene d’amore), è una misoginia realistica funzionale a raccontare un fatto politico, a denunciare che una rivolta puramente di pancia porta comunque alla rovina dei protagonisti, su cui lo spettatore non potrà fare a meno di fare delle riflessioni soprattutto in vista del twist finale, mai abbastanza citato quando straziante nel suo incedere: Gennarino rimarrà tragicamente solo per aver dato troppo amore senza rendersene conto, mentre Raffaella tornerà nella zona comfort che detestava.

    Questa prospettiva testimonia che dopo più di cinquanta anni dall’uscita (il film arriva nelle sale nel 1974) molte questioni di genere sono rimaste irrisolte (ed è questo che fa riflettere, alla fine), mentre gran parte della destra e una discreta parte della sinistra continua ad avere seri problemi in fase di accettazione dell’altro, così come ad uscire dagli stereotipi della “donna del popolo” primordiale, controllabile e poco evoluta, ma anche della pluri-citata “bottana industriale” cinica ed opportunista anche in amore. Luoghi comuni, forse, ma che vengono bellamente attribuiti ancora oggi a utenti dei social e influencer, in un mondo popolato di Raffaelle e Gennarini. Quei due protagonisti, forse, siamo noi – e non ce ne siamo ancora accorti.

    Se si guarda il film dalle prime sequenze emergono aspetti dai quali sembra impossibile prescindere: in primis ci troviamo durante una vacanza di benestanti, ma su una barca a noleggio. Non di proprietà, e viene il sospetto che si tratti di esponenti della mid class, nè proletari nè propriamente borghesi. I marinai invece sono tutti meridionali o comunque di umili origini, mentre gli affittuari della barca leggono ostentatamente L’Unità, giornale ufficiale del fu Partito Comunista Italiano. Raffaella, dal canto suo, sembra fin da subito una chic odiosa e distaccata (ostentatamente critica verso chiunque, ma non certo una dei borghesi di Hanno cambiato faccia, per intenderci): critica i comunisti sovietici ma fa discorsi ecologisti, strizza vagamente l’occhio ai progressisti per vezzo ma poi sembra radicata nel mondo agiato e stucchevole a cui appartiene. Perchè la denuncia più forte di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto pone l’accento sul fatto che non basta evidentemente essere rivoluzionari e incazzati contro le palesi ingiustizie che subiamo per cambiare le cose, nè basta una dittatura proletaria per risolvere la questione. La regia, in questo, è ossessivamente concentrata a mostrare ogni dettaglio della nuova vita della strana coppia, mostrando un’isola in cui sembra esserci ben poco da scoprire e quasi nulla per sopravvivere (a parte le uova degli uccelli, i pesci, le aragoste e naturalmente l’amour).

    Se dobbiamo riorganizzare la società, sembra suggerire il film, dobbiamo comunque fare i conti con gli abusi e le degenerazioni che saranno insiti nella natura umana, non semplicemente sfiorare la questione in maniera blanda o teorica come fa la protagonista. Personaggio peraltro incapace di difendersi e costretta a soggiacere all’amore per pura sopravvivenza, travolta dall’insolito destino di essere in balia di un proletario che tutto può giusto su un’isola deserta, ed è condannato ad un’esistenza grama e piatta non appena rientrato nella civiltà.  Che questo film finisca per disturbare per varie ragioni, far sorridere e provocare disagio – o addirittura fastidio – anche dopo mezzo secolo suggerisce, se non altro, l’importanza delle tematiche che tratta, e la loro pressante attualità. Per i due naufraghi la disavventura è un modo, alla fine, per provare a riappropriarsi di se stessi e della propria istintualità repressa, senza riuscirsi e anzi, sacrificando il proprio mondo.

    Ma se vuoi stare qua e vuoi mangiare, devi lavorare! Hai capito?

    Travolti da un insolito destino è considerato molto impropriamente una commedia all’italiana con un messaggio semplice e chiaro, ma i toni risultano multi-sfaccettati, forse più grotteschi che vuotamente divertenti, un po’ come nel mood dell’epoca e di quel tipo di regia (le regie “militanti” sono state molto frequenti negli anni Settanta, e in parte degli Ottanta). Se Roger Ebert elogia questo film e lo fa risalire a L’anima e la carne, del resto, la rivista Première lo annovera tra i 100 film che hanno sconvolto il mondo, nonchè “uno dei film più audaci mai girati”.

    Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1215775

    IMDB si è divertito a snocciolare i temi principali che tratta il film, in una divertente alternanza tra italiano ed inglese (si tratta probabilmente di tassonomie create dagli utenti stessi): la lista fa pensare a ciò che il film non è, letta d’un fiato, anche se effettivamente tutti i temi sono tabù affrontati dal film. Parliamo di sodomy, misogyny, rapporto marito moglie, trophy wife, machismo, upper class, lower class, social class, class society, society, mare, ship, mediterranean sea, rape turns to consensual sex, enemies become lovers, castaway, incagliato, abuso, domestic abuse, yacht, stranded on an island, italiano, slapped in the face, island, role reversal, naufragio, diretto da una donna, razzismo, triple f rated, female topless nudity, survival adventure, poverty, wealth, horny wife, cheating wife, horny woman begs for sex, large breasts, sexually dissatisfied wife, woman humiliates man, wife raped, naked female breasts, comunista, female sex slave, class difference, submissive woman, sex scene.

    Tra momenti di tensione e di ironia sempre ben bilanciati, “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” offre in definitiva uno sguardo critico verso la società e le sue convenzioni, spesso con un pizzico di sarcasmo. Se vi aspettate un film leggero, preparatevi a confrontarvi con elementi come la disparità di classe e le relazioni interpersonali complicate, il tutto condito da una buona dose di umorismo e spunti di riflessione.

    Il film è stato girato sulla costa orientale della Sardegna, in provincia di Nuoro, e per qualche tempo è stato previsto un sequel, anche l’idea fu abbandonata dopo la scomparsa di Mariangela Melato. Fu pero’ realizzato un remake, intitolato “Travolti dal destino” (titolo originale Swept Away) diretto da Guy Ritchie e interpretato da Madonna e Adriano Giannini, figlio di Giancarlo. Un film che, in almeno un’occasione, Mariangela Melato stroncò come “orribile”, che non coglieva il senso dell’opera originale, nè nel senso politico nè in quello più sentimentale o sociale.

  • Nymph()maniac: l’ipersessualità al femminile, secondo Lars Von Trier

    Il pensionato Seligman trova Joe, sanguinante e semisvenuta, in un vicolo vicino casa propria: la donna accetta di andare a casa dell’uomo per raccontargli come sia finita lì.

    In breve. Interminabile excursus sull’erotismo e le sue ossessioni, raccontato dal punto di vista di una ninfomane: c’è spazio per considerazioni varie sul genere umano, sui suoi rapporti e sui rispettivi (e spesso discutibili) comportamenti. Per un pubblico adulto, e soprattutto non superficiale.

    Lanciato con un chiarissimo (per chi conosce il regista, quantomeno) “Forget about love“, Nymphomaniac è un trattato nichilista e spassionato sull’erotismo, forse tra i film più controversi del regista danese (e che, per questo, probabilmente sarà davvero capito e rivalutato solo tra qualche secolo anno). Del resto, già conosciamo le sue folli – nel senso migliore del termine – incursioni di genere, oltre alla sua innata capacità – o forse esigenza – di trovare un aspetto “scandalizzante” (ovviamente dal punto di vista dei soliti tromboni) in quasi ogni sua opera.

    Anche in quelle apparentemente più innocenti, come Dogville, figurarsi ora: il dualismo morte ed erotismo è il vero protagonista. Corpi che inizialmente scoprono la sessualità, prima con entusiasmo, poi con massimo ardore e in seguito, inevitabilmente, arrivando a consumare un’agonia straziante, mentre il corpo si logora, si contorce e si ferisce. L’amore ha poco a che fare con questo processo che evoca la dipendenza da una droga, e questo è chiaro soprattutto se conosciamo la tendenza cinica e beffarda del regista nei confronti dei facili sentimentalismi.

    In Nymph()maniac Von Trier racconta la storia di Joe, un’anti-eroina archetipica per un film del regista danese poichè, per sua stessa ammissione, non ha alcuna intenzione di salvarsi (rinuncia all’ambulanza fin dalle prime scene, ed evoca alcuni tratti della Justine di Melancholia). Il film racconta, con un montaggio anti-causale o seguendo lo stream of consciousness della protagonista, la storia della sua vita: la scoperta di essere ninfomane, le prime esperienza con il sesso, l’apice dell’erotismo, la sperimentazione di varie perversioni, l’inizio del degrado (e qui termina la prima parte del film), la crisi dei sentimenti, il declino, l’attrazione morbosa verso il sadismo (le sequenze più crude sono probabilmente qui), la successiva rinascita, il trauma inaspettato poco dopo.

    Un viaggio interminabile, quindi, per un film di quasi 5 ore di durata, che sembrano addiritture poche, tutto sommato, rispetto a quanto e come viene raccontato. Nymphomaniac si troverà, come molti altri film di Von Trier, nelle condizioni ideali di visione avendo l’accortezza (se si può) di non leggere nulla a riguardo, prima di guardarlo.

    L’incontro di Joe incontro con Seligman – archetipo maschile di colto, pacato ed un po’ tontolone “maschio medio” – diventa da un lato seduta psicoanalitica vera e propria (per la gioia degli esperti in materia, of course: a più riprese Von Trier sembrerebbe evocare il primo Cronenberg, quantomeno dal punto di vista dell’approfondimento dei personaggi e delle rispettive perversioni), dall’altro è un modo originale per raccontare una storia che, di per sè, non è altro che un incredibile concentrato di esperienza sessuali della protagonista.

    La stessa Joe che, fin da piccolissima, racconta di aver sempre avuto un’insana attrazione per queste tematiche, tanto da sfregarsi con qualsiasi cosa fosse utile a stimolarla sessualmente (fin da ragazzina), e da chiedere esplicitamente il primo rapporto al suo vicino di casa – di punto in bianco. Nymphomaniacopera omnia dell’ossessione dell’erotismo dai tratti patologici, e anche qui il parallelismo col canadese Cronenberg non sfigura, sebbene solo dal punto di vista “mentale” – nelle mani di qualsiasi altro regista sarebbe diventato un’opera insulsa; con Von Trier di mezzo non può essere così. L’impresa prefissata è quella di rendere significativo un film dai fortissimi tratti erotici, spesso esplicitamente pornografici ma mai, in effetti, gratuiti o non funzionali alla storia. Von Trier delizia il proprio pubblico con montaggi frenetici, narrazione anti-causali, scritte sullo schermo che esaltano determinate scene ed un repertorio di personaggi immenso e davvero complesso da catalogare.

    A contribuire al fascino della storia deve certamente aver contribuito il cast (Udo Kier, Uma Thurman, Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård e Willem Dafoe, solo per citarne alcuni), ma ovviamente è il tipo di storia raccontata ad essere un terreno molto fertile per le provocazioni di Trier. La ninfomania, argomento su cui molti propendono a fare facili (e poco divertenti) battute, viene qui trattata con lucidità e freddezza, per meglio contestualizzare il catalogo di “tipi” umani che probabilmente avremo incontrato anche noi nella nostra vita, e capirne meglio motivazioni e disagio. Un film forse – unica vera pecca – troppo lungo per le intenzioni medie che manifesta ma, a ben vedere, girato magistralmente e, per questo, non certo da biasimare. Le considerazioni da fare saranno tante e, tra un atto di sesso ed un’ennesima perversione mostrata – sono poche quelle che Von Trier non ha preso in considerazione – c’è spazio per la riflessione serie e, naturalmente, per l’inatteso ed imprevedibile finale della vicenda.

    Un twist che è tutto un programma, per quanto è pervaso di pessimismo antropologico, oserei scrivere, da manuale.

  • The imitation game è il film su Alan Turing che appassiona e commuove ancora oggi

    Alan Turing tenta di decifrare il funzionamento della macchina crittografica tedesca Enigma, con l’aiuto di un team di altri matematici. “The Imitation Game” è un film del 2014 che racconta la storia di Alan Turing, un matematico britannico che ha svolto un ruolo fondamentale nella decrittazione del codice Enigma tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

    In breve. La vera storia (sia pur romanzata, per certi tratti) del crittografo e matematico Alan Turing, considerato il padre putativo dell’informatica, e le cui speculazioni avvenieristiche sulla omonima “macchina” sopravvivono ancora oggi alla prova del tempo. Grazie al suo lavoro, il dispositivo elettromeccanico Enigma usato dai nazisti venne decifrato, impedendo di fatto il prolungamento della seconda guerra mondiale. Quale grottesco paradosso e tragico contrappasso, Turing venne condannato per omosessualità dal proprio governo, finendo suicida i propri giorni.

    Alan Turing, classe 1912, considerato uno dei padri dell’informatica nonchè matematico e crittografo tra i più celebri di ogni tempo: grazie ai suoi studi pioneristici sulla decifratura della macchina Enigma (un dispositivo elettromeccanico usato dai nazisti per trasmettere e ricevere messaggi) fu possibile anticipare la chiusura della seconda guerra mondiale. Non solo: la sua macchina di Turing, uno splendido quanto inossidabile modello teorico di dispositivo informatico, un archetipo su cui si può risolvere un problema di decisione di Hilbert e su cui, alla lunga, hanno finito per basarsi gli algoritmi che tutti conosciamo ed utilizziamo.

    All’epoca in cui è ambientato il film (che è un biopic in cui meno la metà degli avvenimenti – precisamente il 42,3% – è realmente accaduto, come studiato accuratamente dal sito informationisbeatiful.net), la parola ‘computer’ era un aggettivo riferibile ad una persona, non un dispositivo univoco come sarebbe avvenuto soltanto anni dopo. Alan Turing viene mostrato come personalità complessa e sensibile, appassionato del proprio lavoro oltre che runner ostinato (fatto storicamente accreditato, tanto che riuscì a correre una maratona nel 1946 in sole 2 ore, 46 minuti e 3 secondi). L’interpretazione del protagonista (Benedict Cumberbatch) fu talmente intensa, del resto, nel riprodurre una realtà storica in cui lo scienziato venne prima incensato e poi condannato per omosessualità e probabilmente indotto al suicidio, che l’attore che lo interpretò ammise, a fine delle riprese, di aver avuto una sorta di burnout. Peraltro le responsabilità politiche dell’epoca furono considerevoli nei termini di questa assurda condanna, che portò ad una riabilitazione e una grazia postuma solo nel 2013 non prima di averne ufficializzato la natura omofobica.

    L’unica persona che dovrebbe perdonare qualcuno è proprio Turing. Spero che il film possa portare alla luce quanto straordinario sia stato come persona, e quanto sia stato spaventosamente trattato dal governo dell’epoca. È stata una pagina vergognosa della nostra storia (Benedict Cumberbatch)

    The imitation game è diretto da una regia solida ed efficace (il norvegese Morten Tyldum), ruotando sul ruolo del protagonista mentre lavora in team (molto prima, in effetti, che farlo diventasse una moda effimera da startupper) alla ricerca delle chiavi crittografiche di Enigma, ricerca che lo scienziato cerca di automatizzare. Il limite del film è ovviamente nei suoi aspetti romanzati, che sembrano voler iper-personalizzare la vicenda umana mettendo in quasi in secondo piano l’ingiustizia politica e sociale nonchè le responsabilità del governo dell’epoca. Farne un film politico, del resto, sarebbe stato meno emozionale e quasi fuori tempo massimo, data la riabilitazione del personaggio Turing in tempi recenti, sia pur dopo molti anni dal tragico accaduto. Il Turing di Cumberbatch è l’archetipo del genio discreto, incompreso e valorizzato solo dai posteri, ai quali tocca l’ardua sentenza di giudicarne i meriti, nello specifico mediante un biopic sceneggiato sulla base del libro di Andrew Hodges Alan Turing, storia di un enigma.

    Non era agevole realizzare un film del genere senza romanzare le relazioni tra i personaggi, e molto di questo feeling umanizzato passa dal personaggio di Joan Elisabeth Lowther Clarke, personaggio realmente esistito e crittografa che sostiene il protagonista nei momenti più bui (interpretata da Keira Knightley). Dopo il successo dell’operazione Enigma, dopo aver superato mille diffidenze sulla propria scienza e coscienza, dopo essere stato eletto membro della Royal Society, avviene il breakdown: nel 1952 Turing viene additato dalle autorità come criminale, per via della propria omosessualità e nell’estremo paradosso di aver lottato contro i nazisti, ritrovandosi sulla gogna di un tribunale quasi equivalente a quello tedesco dell’epoca. Stando alla ricostruzione ufficiale, Turing morì nel proprio letto a soli 41 anni ingerendo una mela al cianuro, per quanto all’epoca il suicidio non venne neanche ufficialmente riconosciuto dalle autorità. Il suo modello di macchina di Turing ed il suo articolo pioneristico Computer machinery and intelligence del 1954 sono, ancora oggi, modelli riveriti e rispettati dai fatti per quello che riguarda la scienza informatica come la conosciamo e la utilizziamo ai giorni nostri.

    Il film The imitation game , uscito nel 2014, è disponibile in streaming gratuito su RaiPlay fino a fine 2021, e viene periodicamente trasmesso in TV.

    Di che parla il film?

    “The Imitation Game” è un film del 2014 diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. Il film si concentra sulla vita di Alan Turing, un matematico britannico noto per il suo contributo fondamentale alla decrittazione del codice Enigma durante la Seconda Guerra Mondiale. Il titolo del film, “The Imitation Game” (in italiano, “Il gioco dell’imitazione”), si riferisce al concetto centrale del film: la ricerca di Turing per creare una macchina che possa imitare il pensiero umano, una macchina che alla fine è diventata il precursore dei computer moderni.

    Il film esplora anche la difficile vita personale di Turing, incluso il suo status di omosessuale in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito. La sua storia è quindi un racconto sia di genio matematico che di lotta contro la discriminazione e l’intolleranza. L’opera è stata ben accolto dalla critica ed è stato candidato a diversi premi, vincendo l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 2015. Benedict Cumberbatch ha interpretato il ruolo di Alan Turing, e il suo lavoro è stato più volte elogiato per la sua interpretazione del personaggio.

    Ecco una panoramica della trama, del cast, di alcune curiosità e della produzione del film:

    Trama: Il film è incentrato sulla vita di Alan Turing, interpretato da Benedict Cumberbatch, dalla sua infanzia fino alla sua carriera adulta. La narrazione salta avanti e indietro nel tempo, mostrando i momenti chiave della sua vita. Gran parte della trama si concentra sulla sua esperienza lavorativa durante la guerra, quando è stato incaricato di decifrare il codice Enigma, una macchina crittografica tedesca considerata inarrivabile. Turing si unisce a un gruppo di matematici e crittografi a Bletchley Park, inclusa Joan Clarke (interpretata da Keira Knightley), per lavorare al progetto.

    Mentre lavorano contro il tempo e l’ostilità dei superiori militari, Turing e il suo team cercano di risolvere l’Enigma. Nel frattempo, il film esplora anche il passato di Turing, inclusa la sua difficile infanzia e il suo rapporto con la sua sessualità, che in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito, ha avuto gravi conseguenze sulla sua vita.

    Cast principale:

    • Benedict Cumberbatch come Alan Turing
    • Keira Knightley come Joan Clarke
    • Matthew Goode come Hugh Alexander
    • Rory Kinnear come detective Nock
    • Charles Dance come comandante Denniston
    • Mark Strong come Stewart Menzies

    Curiosità:

    • Il film è basato sulla biografia di Alan Turing, “Alan Turing: The Enigma” scritta da Andrew Hodges.
    • Benedict Cumberbatch ha ricevuto una nomination all’Oscar per la sua interpretazione di Alan Turing.
    • Il titolo “The Imitation Game” si riferisce al concetto centrale del film: la creazione di una macchina che può imitare il pensiero umano.
    • Alan Turing è considerato uno dei padri fondatori dell’informatica e della scienza dei computer, e la sua macchina Turing è un precursore dei computer moderni.
    • Il film esplora il trattamento ingiusto e discriminatorio che Turing ha subito a causa della sua omosessualità, e ha contribuito a sollevare l’attenzione sull’ingiustizia subita da Turing e da altri a causa delle leggi contro l’omosessualità nel Regno Unito.

    Produzione: Il film è stato diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. È stato girato principalmente nel Regno Unito, tra cui Bletchley Park, il luogo storico in cui Turing e il suo team lavoravano per decifrare l’Enigma. “The Imitation Game” ha ricevuto recensioni positive da parte della critica ed è stato un successo al botteghino. Ha anche vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

  • Il serpente di fuoco: uno dei primi film autenticamente psichedelici

    Paul Groves è prossimo al divorzio, disorientato dalla circostanza e restìo ad affrontare la realtà: decide di sperimentare un acido per la prima volta in vita sua, dando vita ad un interminabile trip allucinato.

    In breve. È il racconto di un trip lisergico da parte di un protagonista alla prima esperienza in assoluto. Vivido, a tratti oscuro e vagamente autoironico, è noto per essere uno dei primi film a riportare le allucinazioni da LSD su pellicola, a quanto pare auto-sperimentate da alcuni attori e dal regista.

    Si potrebbero citare mille trame di film relazionate all’esperienza di assunzione di LSD, la nota droga dagli effetti imprevedibili – oltre che ideale, ovviamente solo dal punto di vista narrativo, per sviluppare originali variazioni sui soliti temi. “Il serpente di fuoco” – titolo con cui è circolata l’opera in Italia, al netto di un doppiaggio un po’ approssimativo o poco convincente – è una delle opere di Roger Corman più famose, oltre ad essere uno dei primi film (se non il primo in assoluto: siamo nel 1967) a trattare il tema della psichedelia in modo netto oltre che “sentito”.

    Tanto esplicito che venne inserita una minacciosa introduzione, a quanto pare non prettamente voluta dal regista, con una voce fuori campo che parla degli effetti delle droghe e la loro pericolosità, la quale evoca un po’ (per modi e toni utilizzati) l’introduzione de L’ultima casa a sinistra di Wes Craven.

    Il focus è incentrato sulla sindrome dell’abbandono che attanaglia il personaggio di un regista (interpretato da Peter Fonda che, qualche tempo dopo, girò Easy Rider), ormai prossimo al divorzio e deciso a sperimentare LSD, per la prima volta in vita sua, con la supervisione di un amico che gli fa da “guida”. Ulteriore perla: la sceneggiatura venne scritta da Jack Nicholson, sulla base di assunzione di LSD controllata da un gruppo di medici (e che fece parte dell’esperienza di Fonda, di Hooper e del regista stesso), ispirandosi alla vera storia che aveva portato Nicholson a divorziare dalla prima moglie (Sandra Knight).

    Vedevo fino in fondo al cervello… avevi ragione, è tutto nella testa.

    L’effetto dell’acido viene reso mediante un curioso gioco di caleidoscopi colorati, alternandolo con un girato allucinato di Fonda vestito in maniera diversa, all’interno di un esotico – e non meglio specificato – ambiente, caratterizzato da una spiaggia che velatamente vorrebbe omaggiare Il settimo sigillo di Ingrid Bergman. Non sappiamo se quelle esperienze furono effettivamente vissute e poi riprodotte sulla macchina da presa dal regista (come pare risaputo avessero fatto anche Kubrick e Noè, per inciso, girando rispettivamente 2001 Odissea nello spazio e Climax), o se si trattò solo di una manovra promozionale: comunque stiano le cose,  le immagini di Corman lasciano il segno – e rendono parecchio l’idea.

    È notevole come Corman abbia saputo destreggiarsi tra vari effetti psichedelici visuali, ben accompagnati dalle improvvisazioni dei The Electric Flag e di qualità davvero eccellente, considerando l’epoca ed il fatto che The trip è considerato un film low budget (costato appena 100.000 dollari, ne incassò ben 10 milioni al botteghino). Al netto della oggettiva pesantezza di alcune sequenze che appaiono davvero interminabili, è interessante come sia ricorrente il tema del sesso e del consumismo da un lato (simboleggiato da cartelloni luminosi, folla, ambienti cittadini e naturalmente tette), e quello della repressione dall’altro (gli incappucciati del trip, che poi “diventano” poliziotti probabilmente chiamati dal proprietario della casa in cui si era intrufolato). Corman non è Antonioni, ovviamente, ma il senso ribelle del suo film è puramente anni 60 (e permane ancora oggi, forse). Le esperienze raccontate, inoltre, puntano all’aspetto più vivido e realistico, ovvero rientrano in cose plausibili per chi sperimentava quelle sostanze (nella sua autobiografia The Lost Gospels, ad esempio, Al Jourgensen racconta un paio di episodi reali in cui, durante un trip, si era introfulato nelle case dei vicini credendo che fosse la propria, proprio come vediamo fare a Paul quando si ritrova a guardare la TV con una bambina).

    Soprattutto perché, al netto di un inizio di trip da autentico hippie (con una memorabile sequenza di “amplesso psichedelico” con la ex moglie), pian piano prende piede una sorta di coscienza di morte in Paul: tale mood è raffigurato da immagini dal sapore gotico di individui incappucciati che lo inseguono a cavallo e di altri oscuri figuri che, semplicemente, lo torturano. A quel punto Paul si risveglia nudo in piscina, attanagliato da un senso di minaccia e, in prenda al panico, abbandona la propria guida e si incammina per le strade, delirando. La trama del film è abbastanza difficile da raccontare, a questo punto, perchè continua a svolgersi su un doppio livello: Paul allucinato che rincorre mentalmente la donna da cui è ancora attratto (pagandone le conseguenze tra metafore di paure, sensi di colpa e via dicendo), e Paul nella vita reale che vive singolari esperienze fino ad incontrare un’altra donna, che (alla fine del viaggio) lascia un senso di parziale incompiutezza: il protagonista sembra sapere quello che vuole, a questo punto, ma un senso di vaghezza sembra impadronirsi del suo essere (il celebre “aspetta domani” pronunciato dalla donna). Il film si chiude su una singolare soluzione visiva (l’immagine di Paul che si spacca, come un vetro rotto), il che ne ricorda una analoga che userà Lucio Fulci nel finale di Paura nella città dei morti viventi.

    È molto significativa la sequenza del trip in cui Paul è seduto su una minacciosa sedia elettrica, e passa in rassegna varie fotografie collegate alla sua attività di regista: lo zio Sam, la bandiera USA, Sophia Loren. Quelle immagini, pero’, non significano nulla per lui, e lo afferma a chiare lettere, e quando inizia a discutere di pubblicità il focus sembra scivolare letteralmente sul meta-cinema. Il senso del discorso, che vede il protagonista alla fine su una giostra a discutere della propria vita con un hippie (che aveva conosciuto in precedenza) vestito da giudice, verte sul senso di colpa del protagonista e, in relazione al proprio divorzio, sul legame ancora vivido con la ex moglie – ma anche sulle responsabilità che non è disposto ad assumersi.

    Al netto del senso di disorientamento che il genere, di per sè, in questo caso non può fare altro che indurre anche nello spettatore – e con una solida regia alle spalle – The trip è una singolare gemma del periodo, un unicum da reperire ad ogni costo.

  • Anonimo veneziano: cast, trama, musiche originali

    “Anonimo Veneziano” è un film italiano del 1970 diretto da Enrico Maria Salerno. Il film è noto per la sua colonna sonora memorabile composta da Stelvio Cipriani e per la sua storia romantica e drammatica ambientata a Venezia.

    La trama ruota attorno a un uomo di mezza età, interpretato da Tony Musante, che visita Venezia per suonare il suo violino in un’orchestra. Durante la sua permanenza nella città lagunare, incontra casualmente una donna, interpretata da Florinda Bolkan, con cui aveva avuto una relazione nel passato. La donna è ora sposata con un altro uomo, ma i due iniziano a riscoprire i loro sentimenti reciproci.

    Il film affronta temi come la nostalgia, l’amore non corrisposto e il senso di perdita. La colonna sonora di Stelvio Cipriani, con il brano principale “Anonimo Veneziano,” ha contribuito in modo significativo al successo del film ed è ancora oggi molto apprezzata.

    “Anonimo Veneziano” è un film molto noto nel panorama cinematografico italiano e rappresenta un esempio classico del cinema romantico italiano degli anni ’70. È stato accolto positivamente dalla critica e ha guadagnato diversi premi e nomination.

    Curiosità

    • La colonna sonora del film, composta da Stelvio Cipriani, è diventata estremamente popolare, soprattutto il brano principale, “Anonimo Veneziano.” La musica contribuisce in modo significativo all’atmosfera romantica del film.
    • Il regista Enrico Maria Salerno ha anche un piccolo ruolo nel film.
    • “Anonimo Veneziano” è stato girato principalmente a Venezia, catturando la bellezza unica della città lagunare.

    Cast

    • Tony Musante interpreta il protagonista maschile, Stefano.
    • Florinda Bolkan interpreta Valeria, l’interesse amoroso di Stefano.
    • Enrico Maria Salerno è il regista del film e appare anche in un ruolo secondario.
    • Altri membri del cast includono Umberto Orsini, Eva Renzi, e Alessandro Haber.

    Sinossi

    “Anonimo Veneziano” è una storia romantica e drammatica ambientata a Venezia. La trama ruota attorno a Stefano, un violinista di mezza età interpretato da Tony Musante, che si reca a Venezia per suonare il suo violino in un’orchestra. Durante il suo soggiorno, Stefano si imbatte casualmente in Valeria, interpretata da Florinda Bolkan, una donna con cui aveva avuto una relazione nel passato. Valeria è ora sposata con un altro uomo, ma i due iniziano a riscoprire i loro sentimenti reciproci mentre condividono momenti romantici e nostalgici a Venezia. Il film esplora i temi dell’amore non corrisposto, della nostalgia e del passato.

    Musiche

    La colonna sonora del film è stata composta da Stelvio Cipriani ed è una parte essenziale dell’esperienza cinematografica. Il brano più noto è “Anonimo Veneziano,” che è stato eseguito con il violino da Tony Renis ed è diventato un successo musicale a livello internazionale. La musica contribuisce in modo significativo all’atmosfera romantica e malinconica del film, ed è uno dei motivi per cui il film è ancora apprezzato oggi.

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