PIANGERE_ (49 articoli)

Recensioni di film da piangere disperatamente (o drammatici che dir si voglia).

  • Train de vie: un treno per vivere la memoria

    Train de vie: un treno per vivere la memoria

    Anni ’40. Shlomo preavvisa gli abitanti del suo villaggio shtetl, in Europa dell’Est, che i soldati nazisti stanno arrivando. Per salvare tutti il protagonista lancia l’idea di costruirsi un treno, fingere di auto-deportarsi e fuggire in Palestina. Metà degli abitanti si travestirà da soldato tedesco e l’altra metà da deportato…

    In breve. Uno dei migliori film mai realizzati sull’ olocausto, in un perfetto equilibrio tra tragico e comico: da non perdere.

    Si può trattare in modo ironico o satirico l’olocausto, senza retorica o cattivo gusto, e senza scadere o degenerare? A guardare “Train de vie” del regista rumeno Radu Mihăileanu, sembrerebbe proprio di sì: questo film gioca un ruolo essenziale nella cinematografia del genere, solitamente propensa a presentare solo storie tragiche (come è giusto che sia, in fondo), ma focalizzando la visuale sull’ottica di un protagonista (una vittima o, più raramente, un carnefice). Ed è davvero incredibile come anche oggi, nella giornata della memoria, questo piccolo gioiello non venga quasi mai citato.

    Molti film sull’Olocausto, al di là di eccezioni molto specifiche, possiedono come difetto la capacità involontaria di sminuire o alleggerire i fatti, presi come sono da un meccanismo di “voler sembrare” in un certo modo (ad esempio il film di Benigni La vita è bella lascia più il segno di un tragedia personale piuttosto che collettiva, mentre La settima stanza di Márta Mészáros si focalizza sul contraddittorio misticismo della protagonista, tralasciando deliberatamente da parte, per dire, la tragedia in atto ed il rapporto ambiguo tra chiesa e nazismo). Si ammette infatti, di voler concentrare l’attenzione esclusivamente sul protagonista e i suoi drammi personali, per restituire la massima empatia con il pubblico: ma ciò, di fatto, finisce troppo spesso per mettere in secondo piano lo scenario che, nel caso del nazismo, è invece fondamentale. Train de vie non solo fa questo, ma lo rende oggetto di satira (il che non implica, ricordiamo, che la cosa debba fare ridere: semmai, alla fine, provoca l’effetto contrario).

    C’è una mentalità che degenera, un modo malato da rappresentare: e pochi film lo sanno fare come “Train de vie“. Si sa ironizzare su una tragedia senza sminuirne la portata, giocando su un equilibrio delicatissimo e, soprattutto, facendolo in modo credibile: e nel frattempo uno dei protagonisti si chiede quanto potrà mai costare un biglietto per la Palestina, oppure “se deportarsi da soli ti sembri da sani di mente”.

    Train de vie è una successione incalzante di eventi, che alternano tradizioni yiddish (una parodia del tedesco con dentro l’umorismo, si dice all’inizio, ed è un po’ questa la chiave di lettura più vere dell’opera) ad imperdibili siparietti parodistici: i personaggi che si dividono in fazioni politiche o religiose, del resto, è degno di un film dei Monty Python.  il finale, poi, è un’autentica sorpresa, che solo la visione completa del film potrà far gustare appieno.

    Train de vie può essere considerato, senza mezzi termini, un capolavoro del genere, proprio perchè mostra uno scenario verosimile, possiede una visione globale della cultura e della società dell’epoca, con la capacità di fare satira efficace in chiave anti-nazista, ma rifiutando al tempo stesso qualsiasi collocazione aprioristica in una religione o un’ideologia. Buona, ed incalzante, colonna sonora di Goran Bregovic.

    Io fuggivo, credendo che si potesse fuggire da ciò che si è già visto… troppo visto.

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  • Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Via del Tempio, 1: Augusta Terzi viene assassinata dal capo della sezione politica della questura: l’assassino non solo si auto-denuncia, ma cosparge la scena di prove della propria colpevolezza. La macchina burocratica e istituzionale della polizia, corrotta fino all’osso, non potrà mai attivarsi contro il protagonista, in virtù  della massima “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano“. Questa clamorosa conclusione è ciò a cui ci porta il capolavoro di Elio Petri, uno dei film più famosi del regista romano che si colloca nel clima turbolento degli anni Settanta italiani: all’uscita del film si vociferò di un possibile sequestro, anche per via della concomitanza con gli attentati di piazza Fontana e la morte di Pinelli (la critica di Lotta Continua vide nella figura del protagonista un alias del commissario Calabresi).

    Al di là dei contenuti politici – spesso abusati o retorici in altri lavori – e dell’ovvia metafora contro il Potere e le sue perversioni, il film è denso di riferimenti culturali, dallo stile brechtiano e straniante di Volontè (in una delle sue più belle interpretazioni) all’intero paradosso di matrice kafkiana che avvolge l’intera storia. Il capo della sezione omicidi ha appena ucciso la propria amante, e sembra beffarsi delle stesse istituzioni che proteggono lui come altri colleghi corrotti: è una situazione di stallo circolare, in cui non sembra esserci speranza di giustizia se non per la sparuta ed isolata figura dell’anarchico Pace (nomen omen), unico relativo barlume di speranza e positività della storia.

    Nessuna impronta interessante, ci sono solo le sue, dottore… sì, su una maniglia, e su una tazzina di caffè, dottore, si vede che lei avrà avuto sonno. Questo nella doccia, lì siamo entrati tutti, anche il dottor Mangani ricorda? E poi nella cucina, anche lì siamo entrati  tutti… e sempre distrattamente avrà preso qualche cosa senza precauzioni… ecco, e poi sul telefono… ma lei senza dubbio avrà telefonato, ricordo benissimo che lei telefonò, e poi su un bicchierino da liquore, ma lei si sentì male, quella sera, un bicchierino di Fernet glielo versai io, si ricorda (Dott. Panunzio)

    Un’istituzione giudiziaria evoluta in una macchina cinica e burocratese, in cui nessun uomo comune è realmente al sicuro – ma che, al tempo stesso, si cura bene di proteggere i più forti. Nel farlo, il vero colpo di genio è l’uso del frame tipico del thriller all’italiana, tanto che le prime sequenze evocano i migliori lavori di Fulci o Argento, per poi diventare cinema politico con una forte connotazione “teatrale”. Tale sfumatura è visibile in diversi spaccati del film, come nei frammenti di riflessione interiore del protagonista, o quando ascolta la propria confessione registrata e ne ripete, drammatizzandoli, alcuni passaggi. L’aspetto singolare del film è legato al fatto che l’intera vincenda – quello che sarebbe un giallo, in altre circostanze, con finale a sorpresa – sono orchestrati dal protagonista che si beffa deliberatamente della legge che rappresenta.

    La Bolkan è una borghese irrequieta, attratta morbosamente dai segreti del poliziotto e, per estensione, invaghita del Potere (tanto feroce quanto infantile, in questa rappresentazione), arrivando da farsi trattare da bambola nella grottesca ricostruzione di più scene del delitto. Il punto cardine del film passa, poi, per un’intuizione brutale: l’identificazione da parte delle autorità del reato politico con quello criminale (sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo), il che porta la stessa a prendersi gioco di tutto il resto, e a schedare ferocemente i cittadini infangandoli ed accusandoli a convenienza. Le indagini sull’assassino della Terzi, peraltro, sono svolte da umili individui sottomessi al capo dell’attuale sezione politica, che vivono in perenne soggezione nei suoi confronti e sembrano non avere modo di poterlo incriminare, neanche volendolo sul serio. Uno scenario kafkiano fatto di accenni, riferimenti occulti e cenni di intesa, vissuta dal punto di vista del più forte ed in cui è evidente il senso di straniamento e di assurdo, che non avrebbe sfigurato in una tragi-commedia di Beckett o Ionesco.

    L’importanza culturale di Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto è molteplice: al di là del tentato risveglio delle coscienze e del forte senso di denuncia, si tratta di un importante passo avanti verso una società più adulta, […] più sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri (corsivo tratto dal Corriere della sera); non quindi una semplice analisi del problema, ma anche una possibile soluzione ed una potenziale svolta dietro l’angolo. Non è un caso che l’unico vero testimone del delitto sia un cittadino proclamatosi anarchico individualista, la cui effettiva efficacia d’azione è comunque messa in discussione dall’ambigua pantomima del poliziotto. La riunione “un po’ all’americana” con il delirio di onnipotenza del dirigente stesso (il cui nome non viene mai pronunciato), il successivo svelarsi di un archivio in corso di informatizzazione (nel quale vengono regolarmente schedati soggetti politici e comuni cittadini: una specie di NSA ante litteram, vista oggi), e la discussione con il commendatore che considera irrilevante l’auto-denuncia del collega (“per me è stato… il marito“) sono soltanto tre dei passaggi magistrali di Investigation of a Citizen Above Suspicion.

    L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite… L’uso della libertà, che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!

    Un film dai registri perfetti, dalle sublimi interpretazioni di tutti i personaggi, i quali recitano un canovaccio dell’assurdo in cui sono tutti colpevoli ma, al tempo stesso, nessuno lo è davvero. Il black humor e la feroce satira di cui è cosparso il film, elemento considerevole di altri lavori di questo genere (ad esempio Signore, Signori, Buonanotte), rendono questo lavoro di Petri forse tra i film italiani più importanti e maturi di sempre. Prima parte della “Trilogia della Nevrosi“, che sarà seguita da La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973).

  • Requiem for a dream: la tragedia cinematografica per eccellenza

    Una storia di speranze e utopia, trasfigurata nel vissuto di quattro personaggi diversi, tutti accomunati da storie di dipendenza.

    In breve. Convulso e spietato trattato sulle dipendenze in genere, in una delle migliori prove registiche di Aronofsky (Il teorema del delirio): uno di quei film che restano, semplicemente, nella storia.

    Caratteristiche tecniche

    Basato su un romanzo di Hubert Selby Jr del 1978 con lo stesso nome (a quanto pare di difficile reperibilità in Italia), Requiem for a dream è uno di quei film – piacciano o meno allo spettatore – difficili da dimenticare: vero e proprio delirio di immagini, a tratti paragonabile ad un lunghissimo videoclip, inframezzato da primi piani simbolici, quasi da documentario quanto esplicativi di ciò che sta accadendo. In questi termini, e per il suo marcato realismo, riesce a produrre un effetto spaventoso sullo spettatore più di qualsiasi horror, con cui condivide una rappresentazione della realtà totalmente spietata e priva di compromessi. Girato magistralmente e con una tecnica di montaggio fuori dal comune, Requiem for a dream è girato spesso e volentieri come sequenza di frammenti di scene, il che conferisce un senso di spiazzamento allo spettatore senza mai, peraltro, degenerare o abusare della tecnica stessa. In media, IMDB ha conteggiato ben 2000 tagli differenti in un girato medio di un’ora, quando normalmente ne conterrebbe al massimo 700.

    Storia del film

    Se è vero che l’intera storia si basa su un assunto credibile più che altro negli anni ’70 (la superficialità delle cure mediche ed il maltrattamento dei pazienti pare fossero comuni, all’epoca), il film riuscì a shockare anche in tempi moderni, soprattutto perchè non sono presenti indizi che riescano a far capire con certezza la sua esatta collocazione temporale. Il regista stesso, del resto, ha descritto Requiem for a dream come una storia a-temporale, incentrata sulla dipendenza in quanto tale, e sugli effetti in grado di produrre su quattro personaggi diversi: dipendenza da eroina, in apparenza, poi magistralmente estesa e messa a confronto con una qualsiasi altra subordinazione (sia essa teledipendenza, dipendenza dal fumo, mito della bellezza perduta, e – per estensione – ossessione per un sogno). Per Aronofsky può cambiare la causa, in sostanza, ma il concetto di fondo resta lo stesso, tanto da presentare le storie diverse di quattro personaggi – accomunati da un’ambizione che non realizzeranno mai – e parallelizzarle, orientandole improvvisamente (ed in modo shockante per lo spettatore) in una direzione totalmente annientante, nella quale non esiste possibilità di redenzione.

    E questo, si badi bene, anche a costo di generalizzare il concetto tanto da renderlo grottesco, in linea con il fatto che le pillole dimagranti assunte da Sara – in realtà amfetamine a sua insaputa – la rendono fragile e vulnerabile come i tre ragazzi. Al fine di garantire una massima immedesimazione dei personaggi, in effetti il regista impose a Leto ed alla Burstyn di evitare rapporti sessuali e di assumere zucchero per circa un mese, in modo da interpretare ottimamente la mentalità e l’atteggiamento di una vera vittima della dipendenza.

    A testimonianza ulteriore di questo feeling subdolo e non necessariamente legato al mondo della droga (vista come sostanza illecita da procurarsi per strada, quantomeno, e per via del fatto che viene proposto un accostamento significativo con la teledipendenza), la parola “eroina” non viene mai pronunciata nel film. Requiem for a dream non è necessariamente – o almeno, non soltanto – un film che racconta la degenerazione indotta dalla droga, bensì un lavoro molto più ad ampio raggio, diretto peraltro in maniera sublime tanto nelle sequenze più crude (soprattutto sul finale) quanto in quelle surreali (i personaggi televisivi che Sara adora le entrano in casa, e la deridono grottescamente).

    Per queste ragioni è probabilmente uno dei migliori film usciti nel periodo, da reperire senza esitazione ancora oggi.

    Requiem for a dream, dove vederlo?

    Il film è disponibile in streaming su Prime Video.

  • Departures: Yojiro Takita

    Un film che ci porta alla scoperta delle antiche cerimonie giapponesi di preparazione dei defunti, il “Nokanshi”

    Una pellicola che ha diviso critica e spettatori in due opposte fazioni. La prima che lo considera un capolavoro cinematografico che tocca il cuore, con tutti gli ingredienti giusti: bellezza, musica, morte e abbandono. E la seconda che lo ritiene sopravvalutato. Se le uniche due certezze nella vita sono la morte e le tasse, allora Departures, di Yojiro Takita, film vincitore dell’Oscar 2008 come miglior pellicola straniera, è una certezza fondamentale, arricchita di profondo e macabro umorismo.

    Al centro della vicenda c’è Daigo (interpretato da Masahiro Motoki) giovane violoncellista costretto a lasciare il suo agognato lavoro in un’orchestra sinfonica di Tokyo, che viene sciolta per mancanza di fondi. Distrutto e deluso ammette, con riluttanza, a sua moglie, Mika (Ryoko Hisosue), di essere sprofondato nei debiti per l’acquisto del suo violoncello. Senza vedere all’orizzonte nessun’altra via d’uscita vende lo strumento, e torna alla sua sonnolenta città natale, nella casa che gli ha lasciato la defunta madre.

    Mika accoglie con gioia questo grande cambiamento nelle loro vite. È affascinata dalle storie e dai ricordi che la vecchia casa contiene. Soprattutto cerca di capire i motivi che si celano dietro all’allontanamento del padre di Daigo, che ha lasciato la famiglia quando lui aveva solo sei anni. Abbandono che lo ha profondamente turbato. Alla ricerca di una nuova carriera, Daigo risponde a un annuncio intitolato “Departures” (partenze), pensando si tratti del settore viaggi – in effetti lo è, ma si riferisce soltanto all’ultimo viaggio! ;-) Al momento del colloquio realizza, invece, che l’annuncio ha un errore di stampa: avrebbe dovuto trattarsi di “The Departed” (defunto).

    Il proprietario della società, Sasaki (Tsutomu Yamazaki – già presente in The Funeral di Juzo Itami), un uomo di poche parole, è un artista maestro del nokanshi”, cerimoniale funebre tipico giapponese. Attratto da un lauto stipendio e costretto dalla necessità, fa buon viso alle difficoltà iniziali e – pur inizialmente inorridito dalla realtà del suo lavoro – decide di accettare. Vergognandosi della sua nuova posizione, lo tiene segreto a moglie ed amici, fino al momento in cui Yamashita (Tetta Sugimoto), uno dei suoi amici d’infanzia, lo scopre e comincia ad evitarlo, stigmatizzandolo come a volerlo declassare ad un livello sociale inferiore. Anche Mika lo umilia e gli chiede di dimettersi perché lo trova “impuro”; vuole che abbia un lavoro “normale“, affermazione alla quale lui risponde “la morte è normale”.

    In questo passaggio è evidente la sostanziale differenza di concezione della morte, tra occidente ed oriente. Se fosse in occidente nessuno ci presterebbe particolare attenzione, e tutto si risolverebbe con una “toccatina” apotropaica e qualche battuta usurata. In Giappone, invece, la cosa ha ben altro senso: il rituale funebre, il legame con i morti, il tessere intorno a loro una specie di seconda vita con la cerimonia del “nokanshi”, è parte integrante e forte di quella cultura (da vedere, per esempio, la bellissima sequenza di Vivere di Kurosawa).

    Dopo il primo momento di rifiuto e disgusto, quasi una paura di contaminazione che forse ci detta anche l’istinto di sopravvivenza, che vuole allontanare il più possibile il contatto con la morte, Daigo comprenderà non solo l’importanza della compassione, ma anche quanto sia sottile la linea che separa vita e morte, anzi quanto facilmente si possa annullare la divisione per arrivare a capire che sono complementari: due facce della stessa medaglia. Emblematica in tal senso è la scena dei due salmoni che risalgono a fatica il fiume sfidando la corrente contraria, mentre uno, morto, ridiscende. Daigo si domanda il perché di tanto sforzo solo per andare a morire, e l’anziano che gli è accanto risponde che i salmoni vogliono morire laddove sono nati. Ogni cosa finisce dove è iniziata: Daigo diventerà un abile tanato-esteta.

    L’accurato cerimoniale inizia con la pulizia-purificazione del cadavere (senza che chi assiste veda anche un solo lembo di pelle), per prepararlo a iniziare il suo nuovo percorso, e proseguire riportando la bellezza della vita nei volti sfigurati dalla morte: come un ultimo gesto d’amore sia verso i defunti, che così manterranno la loro bellezza per sempre, ma soprattutto per coloro che li avevano amati, che potranno mantenere il ricordo di com’erano in vita i loro cari. Per completare il viaggio alla ricerca di se stesso e dell’armonia a Daigo manca un ultimo passaggio, quello della riconciliazione con il padre che lo aveva abbandonato da piccolo, e contro il quale mantiene il forte rancore di chi si sente rifiutato.

    Tra le scene ricorrenti c’è quella di Daigo bambino che suona il violoncello in riva al fiume, e dello scambio di due sassi tra padre e figlio, con la promessa, poi non mantenuta, che ce ne sarebbe stato uno ogni anno. Il significato di questo scambio di sassi resterà indelebile nella sua memoria, a differenza del volto di suo padre, che pur sforzandosi Daigo non riuscirà a ricordare.

    Ed è qui che appare evidente che Departures è anche un bell’esempio di come possa evolvere il complesso paterno. Questo spiega, a sua moglie mentre le porge un sasso:

    Nell’antichità, quando gli uomini non avevano la scrittura, per comunicare cercavano un sasso la cui forma esprimesse i loro sentimenti e lo inviavano ad un’altra persona.  Chi lo riceveva, dalla sensazione al tatto e dal peso capiva i sentimenti di chi lo aveva inviato. Un sasso liscio, per esempio, per comunicare serenità d’animo e felicità. Uno ruvido e spigoloso trasmetteva preoccupazione per l’altro”.

    Era questo che gli aveva spiegato suo padre: e quel sasso avvolto nello spartito e conservato con il violoncello era il sasso parlante che lui gli aveva dato.

    Daigo è arrabbiato: “Il fatto era che ci saremmo scambiati un sasso parlante ogni anno, alla fine, solo quella volta. Che idiota!”. Mentre ascolta la musica preferita del padre ha quel sasso tra le mani, ci giocherella, non riesce a staccarsene. L’energia è tutta lì, sia per odiare, ma anche per una specie di speciale attrazione che lo fa stare lì, su questa sua parte non risolta. “Mia madre mi ha allevato completamente da sola” dice Daigo. “Mio padre non è altro che un verme. Gestiva un piccolo caffè, ma poi è fuggito con la cameriera ed è scomparso: un padre inesistente.” Alla domanda “chissà cosa farà ora” lui risponde: “sarà già morto da tanto tempo” – “Se tu lo rincontrassi?” – “Lo picchierei”. Daigo racconta la sua ferita, ed i suoi commenti sul padre sono carichi di rabbia. La signora del bagno pubblico, vecchia amica di sua madre, confida alla moglie di Daigo:”Quando i suoi si sono separati, davanti alla sua mamma lui non ha mai pianto, mai, neanche una volta. Ma quando veniva qua ed era solo, piangeva, vedevo le sue spalle ossute scuotersi per i singhiozzi.

    Un dolore vissuto da solo, non condiviso, che ha scavato nel profondo e si è incistato chissà dove. Una ferita alimentata negli anni non solo dalla perdita del padre, ma anche dal dolore vissuto dalla madre. È tutto fermo lì. Fino al momento dell’incontro con il padre defunto. Quello che all’inizio era una negazione, diventa una possibilità. Arrivato a cospetto del cadavere di suo padre, un pescatore gli rivela aspetti di quell’uomo a lui sconosciuto. Un uomo che è arrivato da solo, ed è sempre stato solo.

    Non so da dove venisse. Era comparso in città un giorno. Era solo. Qua al porto si è sempre dato un gran da fare… era taciturno… era difficile strappargli una parola.

    Daigo si interroga:

    Che significato avrà mai avuto la vita di quest’uomo? Ha vissuto per più di settant’anni, e quello che lascia è una scatola di cartone”.

    All’arrivo degli addetti delle pompe funebri, che approcciano il defunto con i loro modi frettolosi e irrispettosi, si infastidisce e li ferma. Decide di preparare lui la salma.

    E qui l’incontro.

    Quei gesti di accudimento lo portano a scoprire, che suo padre è morto stringendo tra le mani il sasso che lui, bambino, gli aveva dato tanti anni prima. E qui si sciolgono tutte quelle emozioni rimaste congelate per anni, scendono le lacrime, cautamente, con pudore, Daigo finalmente sente il dolore di tutto quello che è mancato, a lui e a quest’uomo che ha appena incontrato. Pian piano il volto del padre si ricompone anche nel suo ricordo. Adesso che ha rincontrato suo padre, potrà anche lui essere padre.

    Questa pellicola, è innegabile, ha una sua originalità e una gradevolezza che viene da una piacevole mistura di umorismo e malinconia, soprattutto nelle prime scene. Nei primi piani del viso di Daigo, nelle sue smorfie, nei suoi continui spiazzamenti rispetto agli eventi della vita, nella ricostruzione puntuale del rito del “nokanshi”, nei tipici paesaggi nipponici (ciliegi fioriti che contrastano cime innevate, e l’immancabile monte Fuji).

    Si tratta di un’opera ben diretta, senza dubbio in grado di coinvolgere e commuovere lo spettatore. L’impianto narrativo studiato da Kundo Koyama, autore della sceneggiatura, segue perfettamente i dettami classici di scrittura: il percorso di crescita morale e di maturazione del protagonista procede attraverso un’ininterrotta sequela di ostacoli da superare.

    Unica pecca di questa pellicola: il netto contrasto tra incipit convincente e finale riscattato da un pathos in grado di coinvolgere anche i cuori più pietrificati, e un lungo segmento centrale eccessivamente statico, che inceppa il marchingegno narrativo e poi frana nella lunga digressione musicale che vorrebbe segnalare al pubblico lo scorrere del tempo. Per quanto la componente antropologica e sociale a cui fa riferimento sia intrisa fin nei minimi dettagli di cultura giapponese, Departures potrebbe definirsi un film hollywoodiano, nella sua perfetta parabola umana di caduta e rinascita, nonché di accettazione della propria memoria e della propria storia.

    Qualcuno ha addirittura definito questo film “politicamente scorretto”, perché osa parlare della morte in una società che tenta in ogni modo di allontanarla dall’orizzonte umano. Uno scandalo, in un mondo alla ricerca della ricetta dell’eterna giovinezza. Per questo è stata coraggiosa la scelta dei giurati dell’Academy Awards di premiare Departures con l’Oscar come miglior film straniero, avendo in lizza pellicole importanti come “La classe” (Palma d’oro a Cannes) e “Valzer con Bashir” (Golden globe).

    Coraggiosa anche la decisione di Takita di girare un film in cui la vera protagonista fosse la morte. Takita, regista che non definirei indimenticabile, con questo film sforna la sua creatura migliore, la più compatta ed evocativa. Affronta l’estrema nemica da un punto di vista originale, mettendo sul piatto della bilancia un carico di emozioni con le quali diventa veramente arduo non empatizzare, un perfetto equilibrio di tragedia compassionevole e umorismo grottesco molto ben raffigurato e sapientemente gestito.

    Un film sulla morte che riconcilia con la vita e con il ricordo dei propri cari che non ci sono più. È a loro che va l’ultimo pensiero, con le parole del regista Yojiro Takita:

    “è destino di tutti accompagnare qualcuno, è destino di tutti essere accompagnati”

    Il funerale in Giappone

    Le usanze funebri giapponesi variano molto da regione a regione, anche se alcuni aspetti sono standard in tutto il paese. Il 91% dei funerali giapponesi viene celebrato secondo la tradizione buddista.
 Subito dopo la morte, i parenti inumidiscono le labbra del defunto con acqua. Quando si verifica un decesso, i santuari all’interno delle abitazioni giapponesi vengono chiusi e coperti con carta bianca, per tenere lontani gli spiriti impuri. Talvolta viene posto un pugnale sul petto del defunto per scacciare gli spiriti maligni.

    Vengono posti anche un kimono bianco tradizionale, una fascia bianca con un triangolo al centro, sandali e soldi per pagare il pedaggio attraverso il fiume dei tre inferni, come vuole la tradizione buddista. 
Il corpo viene sistemato davanti all’altare di famiglia, mentre il parente più prossimo veglia accanto ad esso, fino al momento della sepoltura, senza lasciarlo mai da solo. Gli ospiti che giungono alla veglia per offrire le loro condoglianze lasciano una busta speciale avvolta da un nastro bianco e nero, contenente soldi: l’importo varia a seconda del grado di parentela dell’ospite e viene indicato all’esterno della busta, poi si avvicinano al feretro, suonano il campanello dell’altare e pregano.

    Una tavoletta di legno con inciso il nome del defunto viene posta sull’altare o davanti ad esso: si tratta del nome postumo assegnato dal sacerdote. Il nome postumo, o kaimyo, è un nome diverso da quello che la persona ha avuto in vita, e che si suppone aiuti ad evitare che il defunto ritorni ogni volta che viene pronunciato il suo nome. La lunghezza del nome dipende anche dalla durata della vita della persona, o più comunemente, dall’entità della donazione dei parenti al tempio: non è raro che alcuni templi facciano pressione sulle famiglie per l’acquisto di un nome più costoso. Le salme vengono cremate.

    I membri della famiglia assistono mentre la bara procede verso il fuoco e attendono che venga comunicata l’ora per andare a ritirare i resti. La famiglia torna poi a casa facendo un percorso modificato, per evitare che lo spirito del defunto segua la famiglia verso casa. Al momento stabilito, ad ognuno dei membri viene dato un set di bacchette per raccogliere i resti e posizionarli nell’urna. L’addetto di solito indica quali sono i pezzi importanti da raccogliere. Le ossa dei piedi vengono raccolte per prime, per ultime quelle della testa, questo per garantire che il defunto non sia a testa in giù nell’urna.

    Questa operazione viene effettuata contemporaneamente da tutti i membri della famiglia; questa usanza spiega il perché, quando due persone prendono un pezzo di cibo allo stesso tempo con le bacchette, esse tendano a ritrarsi immediatamente, in quanto ciò avviene unicamente per porre i resti di un defunto nell’urna.

    Titolo originale: Okuribito – (おくりびと)


    Traduzione letterale: “Persona che accompagna alla partenza”


    Genere: drammatico, psicologico


    Paese: Giappone


    Durata: 130 minuti


    Anno di uscita: 2008


    Tratto: storia originale, ma liberamente ispirata dal libro “Coffinman: The Journal of a Buddhist Mortician” di Shinmon Aoki

    Regista: Yojiro Takita


    Sceneggiatura: Kundo Koyama


    Musiche: Joe Hisaishi

  • Io la conoscevo bene: il dramma di Antonio Pietrangeli che ha lasciato il segno

    Adriana è una ragazza di provincia con un sogno nel cassetto: fare l’attrice.

    In breve. Un saggio intenso ed indimenticabile sulla società dello spettacolo, in grado di rappresentarne il degrado e l’ipocrisia. Il tutto dal punto di vista di un’ambiziosa quanto sprovveduta Adriana, aspirante attrice.

    Selezionato di recente tra i 100 film italiani da salvare, Io la conoscevo bene pone le basi concettuali di un’intera generazione di registi: un concept lungimirante, cinico e realista che sarebbe stato imitato e ripreso più volte in seguito. La storia è quella di Adriana, avvenente giovane donne nonchè aspirante attrice di provincia, la quale cerca di mantenersi tra mille lavori diversi, facendosi regolarmente sfruttare da individui uno peggio dell’altro, che il suo istinto la porta tragicamente a selezionare con cura. In questo, ovviamente, è evidente come il suo personaggio sia simbolico e, al tempo stesso, realistico, tanto che il film viene spesso annoverato nel filone neo-realista a cui Pietrangeli (padre del cantautore Paolo) viene associato. Un filone, quello della decadenza e delle illusioni della società delle apparente, che avrebbe contaminato in seguito anche l’horror – da Society al nostrano Ubaldo Terzani Horror Show.

    Ambientato in larga parte a Roma (due scene emblematiche sono state girate a Lungotevere Portuense e a Ponte Testaccio), Io la conoscevo bene rappresenta in modo efficace il degrado e la decadenza del mondo dello spettacolo dell’epoca. Un mondo nel quale il talento conta poco o nulla, e si cerca solo l’ennesimo burattino da illudere, umiliare e sfruttare all’osso. In questo, ancor prima del personaggio di Adriana Astarelli (Stefania Sandrelli), si erge la figura di Gigi Baggini (Ugo Tognazzi, vincitore anche del Nastro d’Argento quale miglior attore non protagonista nel 1965): un misero lacchè e passacarte dei potenti, disposto a qualsiasi cosa pur di lavorare (“ti faccio pure da autista!“), ridotto addirittura a buffone di corte dall’attore che aveva, a suo tempo, lanciato (di cui conosciamo solo il nome, Roberto, e che è stato interpretato da Enrico Maria Salerno).

    Baggini, un po’ come Adriana (per quanto privo di quel minimo pudore che si porta dietro dalla propria educazione di provincia), farebbe qualsiasi cosa pur di restare nel mondo dello spettacolo. Un mondo che, per età avanzata, sembra averlo definitivamente escluso: e per ingraziarsi il potente si mette a ballare in modo instancabile fino quasi a svenire, ed arriva a corteggiare la protagonista – e questo esclusivamente per conto del Roberto che ossequia.

    Per lei ieri e domani non esistono, non vive neanche giorno per giorno perché già questo la costringerebbe a programmi troppo complicati.

    Adriana, dal canto suo, è archetipica della ragazza di provincia ingenua e priva di esperienza, in grado soltanto di passare da un letto all’altro senza mai progredire nella propria carriera, anzi venendo umiliata e sbeffeggiata per la sua origine e scarsa cultura. In questo, privilegia come partner personaggi potenti, infimi quanto degradati, per quanto qualcosa (che non riuscirà a focalizzare) le suggerisca che sia vagamente sbagliato farlo. Nel farlo, vive passivamente dei flirt e storie occasionali che ama procurarsi con personaggi di bassa estrazione sociale (il pugile, il parcheggiatore), da cui pero’ diffida e a sua volta illude senza dare null’altro.

    Il suo dramma di solitudine, sottolineato elegantemente dalle musiche d’epoca, viene vissuto con la stessa inconsapevolezza con cui vive la vita, ed descritta acutamente dal monologo dello scrittore suo amante e conoscente.

    Il fatto è che le va bene tutto, è sempre contenta, non desidera mai niente, non invidia nessuno, è senza curiosità, non si sorprende mai. Le umiliazioni non le sente… Eppure, povera figlia, dico io, gliene capitano tutti i giorni… le scivola tutto addosso senza lasciare traccia, come su certe stoffe impermeabilizzate. Ambizioni zero, morale nessuna, neppure quella dei soldi perché non è nemmeno una puttana.

    Se oggi un ritratto del genere può sembrare scontato, oltre che emblematico di un certo modo di fare casting e di scritturare soubrette ed attrici, all’epoca dovette fare un certo scalpore, nonostante l’elegante capacità e sensibilità di Pietrangeli di scegliere le musiche d’epoca più adatte, e di non mostrare mai nè sesso (ripreso sempre fuori camera, come nella prima sequenza in cui Adriana alza semplicemente il volume della radio), nè l’unica scena realmente violenta (quella dell’imprevedibile finale della storia, ripreso in soggettiva).

    Del resto è potentissima l’essenza del personaggio interpretato dalla Sandrelli: perchè domina e sarebbe in grado di sottomettere qualsiasi uomo, ma non ha realmente il carattere nè la malizia per riuscire a mettere in atto il piano. Un personaggio del genere, come in una tragedia greca, non può fare altro, alla fine, che soccombere e decidere di farla finita, creando un contrasto raggelante con il resto dell’edonismo sfrenato, pacchiano e spensierato della sua narrazione.

    Perciò vive minuto per minuto: prendere il sole, sentire i dischi e ballare sono le sue uniche attività. Per il resto è volubile, incostante, ha sempre bisogno di incontri nuovi e brevi, non importa con chi. Con se stessa, mai. […] Forse sei tu la più saggia di tutti.

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