PIANGERE_ (49 articoli)

Recensioni di film da piangere disperatamente (o drammatici che dir si voglia).

  • Nato il quattro luglio è la vera storia di Ronald Lawrence Kovic secondo Oliver Stone

    Nato il quattro luglio è la vera storia di Ronald Lawrence Kovic secondo Oliver Stone

    Il giovanissimo americano Ron Kovic si arruola nei marines e, ferito gravemente alla spina dorsale, perde l’uso delle gambe diventando impotente.

    In breve. La struggente storia di Ron Kovic, sentitosi tradito dalla propria patria dopo un passato tragico da militare nella guerra in Vietnam, diventa attivista per la pace. Un classico da non perdere per nessun motivo.

    Nato il quattro luglio (Born on the Fourth of July in lingua originale) è probabilmente uno dei migliori film di Oliver stone: uscito nelle sale nel 1989, venne sceneggiato in collaborazione con lo stesso Ron Kovic, personaggio realmente esistente negli USA, che si ritaglia anche un cameo all’inizio della pellicola.

    Incluso tra i migliori 100 film americani dall’American Film Institute nel 1998, è anche il primo film di Oliver Stone ad essere stato girato in formato 2.35:1. Fa parte della trilogia sulla guerra girata da Stone, che vede affiancato sia Platoon del 1986 che Tra cielo e terra del 1993. L’importanza del film è fondamentale perchè, soprattutto, narra la storia di un personaggio che cambia radicalmente idea: convinto del proprio patriottismo e disposto a sacrificarsi per la patria, paga a caro prezzo questa scelta diventando disabile e impotente. La sua reazione è quella di rivedere completamente la propria etica, scaraventandosi contro gli stessi USA che amava e che lo avevano abbandonato (in questo la storia evoca in qualche modo l’etica dei bikers, traditi anch’essi e dediti alla vita di strada, in contrapposizione ad un mondo troppo conformista). Un pugno in faccia, dal punto di vista narrativo, da cui lo spettatore rimane annichilito dal punto di vista emotivo: l’americano medio, ovviamente, non riuscirà mai (prevedibilmente) ad accettare questa scelta.

    Ausili per disabili – Sanort.com

    Oliver Stone, fortemente sostenuto dal suo mentore Martin Scorsese, avrebbe voluto girare girare il film proprio in Vietnam, ma considerazioni politiche e di convenienza lo fecero optare per una location nelle Filippine. Nato il quattro luglio è girato con varie sfumature cromatiche differenti, in particolare: le sequenze oniriche in bianco, quelle più struggenti in blu, quelle di battaglia in rosso. Per interpretare al meglio il proprio personaggio, Tom Cruise (attore sul quale la produzione ebbe, a torto, qualche perplessità di fondo) cercò di rimanere seduto sulla sedia a rotelle per molto più tempo del necessario, durante le riprese. Per inciso, poi, Cruise è nato un giorno prima del personaggio che interpreta (il 3 luglio).

    Dal punto di vista del torpiloquio, poi, si segnala la presenza della parola fuck, secondo IMDB, per 289 volte, un record battuto probabilmente solo da Pulp Fiction. Tra i personaggi pensati per interpretare la parte di Kovic, si segnalano Nicolas Cage, Sean Penn e curiosamente Charlie Sheen (lo stesso che avrebbe parodizzato la parte di Tom Cruise all’interno di Top Gun in Hot Shots).

    La Universal era preoccupata del messaggio sovversivo all’interno del film, tanto che – per contenere i costi – pare arrivò a non pagare buona parte del cast in anticipo, ma solo ad incasso ottenuto. Nato il quattro luglio ha anche vinto due Oscar: Migliore regia a Oliver Stone e Miglior montaggio a David Brenner e Joe Hutshing.

  • Malombra di Mario Soldati: cast, storia, cenni alla regia, produzione, stile, sinossi, curiosità

    “Malombra” è un film italiano del 1942 diretto da Mario Soldati, basato sull’omonimo romanzo gotico scritto da Antonio Fogazzaro nel 1881. Si tratta di un film drammatico e misterioso che mescola elementi di romance gotico con un’atmosfera cupa e sinistra.

    Cast:

    • Isa Miranda nel ruolo di Marina di Malombra
    • Andrea Checchi nel ruolo di Corrado Silla
    • Irasema Dilián nel ruolo di Lally
    • Gualtiero Tumiati nel ruolo di Guido Silla
    • Carlo Ninchi nel ruolo di Vincenzo Silla

    Storia: Il film è ambientato a Venezia e segue la storia di Marina di Malombra, una giovane donna affascinante che arriva in città per riscuotere un’eredità. Soggiornando in un’antica villa, Marina inizia a sperimentare eventi strani e soprannaturali, mentre si avvicina al figlio della famiglia proprietaria, Corrado Silla. La storia ruota attorno a segreti di famiglia, gelosie e passati oscuri che influenzano la vita dei personaggi principali.

    Regia: Il regista Mario Soldati ha cercato di catturare l’atmosfera gotica e misteriosa del romanzo nel film, sfruttando la suggestiva ambientazione veneziana per creare un senso di inquietudine e mistero.

    Produzione: Il film è stato prodotto in Italia nel 1942.

    Stile

    “Malombra” è noto per il suo stile gotico e misterioso, con ambientazioni suggestive e giochi di luce che accentuano l’atmosfera inquietante. Il film si concentra sulla tensione emotiva e sulle relazioni complesse tra i personaggi.

    Sinossi

    Marina di Malombra arriva a Venezia per riscuotere l’eredità di famiglia. Mentre soggiorna in una villa secolare, inizia a vivere esperienze paranormali e sinistre. Si avvicina a Corrado Silla, il giovane erede della villa, e tra loro nasce un’intensa storia d’amore. Tuttavia, segreti di famiglia e oscuri eventi passati cominciano a emergere, gettando ombre sulla loro relazione e sulla vita di Marina stessa.

    Curiosità

    • “Malombra” è stata una delle prime opere adattate per lo schermo da un romanzo di Antonio Fogazzaro.
    • Il film è stato girato in parte nella vera Venezia, sfruttando le suggestive location della città.
    • Antonio Fogazzaro e Mario Soldati sono due figure importanti nella letteratura e nel cinema italiani del XX secolo.

      Antonio Fogazzaro (1842-1911) è stato uno scrittore e poeta italiano. È noto principalmente per i suoi romanzi che esplorano temi religiosi, sociali e psicologici. Uno dei suoi lavori più celebri è “Malombra”, un romanzo gotico pubblicato nel 1881. Questo romanzo è stato adattato in diversi media, tra cui il film del 1942 di cui hai chiesto informazioni. “Malombra” è un’opera che esplora le dinamiche complesse delle relazioni umane, mescolando elementi di mistero e spiritualità.

      Mario Soldati (1906-1999) è stato uno scrittore, regista e critico cinematografico italiano. Soldati ha lavorato sia nel campo della letteratura che in quello del cinema, distinguendosi in entrambi. Come regista, ha diretto diversi film di successo, tra cui “Malombra” (1942), adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Fogazzaro. Oltre a dirigere, Soldati è stato anche un critico cinematografico di spicco e ha scritto opere letterarie, inclusi racconti, romanzi e saggi.

      Entrambi questi autori hanno lasciato un’impronta significativa nella cultura italiana attraverso il loro lavoro letterario e cinematografico. Fogazzaro è ricordato per i suoi romanzi che esplorano le complessità dell’animo umano, mentre Soldati ha contribuito alla crescita del cinema italiano sia come regista che come critico.

    Spiegazione finale

    Verso la fine del film, emergono segreti oscuri legati alla famiglia Silla e alla villa stessa. Si scopre che Corrado Silla è in realtà il figlio di Marina, nato da una relazione segreta con Guido Silla. La malvagia Lally, figlia di Guido, ha cercato di tenere nascosta questa verità e ha manipolato gli eventi per far sì che Marina si innamorasse di Corrado, suo fratellastro. Lally è responsabile delle esperienze paranormali che Marina ha vissuto, cercando di farla impazzire.

    Alla fine, Marina scopre la verità grazie a una serie di rivelazioni e confronti. La villa e l’atmosfera sinistra rappresentano la manipolazione di Lally e il peso dei segreti di famiglia. Corrado e Marina, ora consapevoli della loro parentela, si allontanano l’uno dall’altro.

    La spiegazione finale mette in luce il tema della colpa, del destino avverso e della lotta contro le forze oscure che manipolano la vita dei personaggi. Il finale amaro riflette la tragedia e la complessità delle relazioni umane all’interno di un contesto gotico e misterioso.

  • Quando Phillips reinventa Joker

    Gotham City: il clown e aspirante stand-up comedian Arthur Fleck viene maltrattato ed emarginato dalla società, oltre a perdere il lavoro per via di un’arma (che si è portato dietro per difendersi). Esasperato da svariate circostanze socio-psicologiche, sarà presto noto in città come il Joker.

    In breve. Notevole rilettura di Phillips, in chiave anti-eroica, di uno dei cattivi per eccellenza. Il regista ribalta l’assunto narrativo tradizionale, e mostra la storia dal punto di vista del protagonista, con una pregevole analisi sociologica annessa.

    Secondo la teoria del comico di Henri Bergson i motivi del riso sono misteriosi: per quanto l’autore abbia provato a formalizzarli in un discreto mattoncino di 138 pagine, resta il dubbio su cosa possa – o meno – suscitare il riso, e di quanto sia etico ridere, sorridere o schernire qualcosa. Il sorriso di Joker, del resto, è cristalizzato nell’immaginario collettivo da più di 70 anni (Joker nasce su carta nel 1940 grazie alla DC Comics), ma quello di Phillips è, sorprendentemente, un riso patologico: Arthur, infatti, è affetto da una forma compulsiva di risata, che non sa controllare e tende ad emarginarlo dalla società. È un malato cronico, insomma, e questo è probabilmente il primo punto da tenere a mente nella sua controversa rappresentazione.

    Il Joker di Todd Phillips focalizza la propria attenzione su un personaggio ben noto al pubblico (operazione che ricorda per certi versi il saggio su Leatherface, ad esempio) e ne esplora ogni risvolto;  lo fa soprattitto evitando qualsiasi meccanismo di identificazione del pubblico, come sarebbe stato lecito aspettarsi. Se è cosa molto comune simpatizzare per tanti anti-eroi o villain del cinema (ad esempio per quelli di Quentin Tarantino), nel caso di Phillips è impossibile farlo. Un secondo aspetto sostanziale della sostanza del film, insomma, che evita sia l’associazione con il consueto monolitico cine-comics (che parte del pubblico potrebbe, in teoria, pensare di vedere, e da cui questo Joker prende invece le distanze) sia il solito meccanismo di identificazione nel protagonista, che sarebbe tipico del cinema più “epico” e accattivante – favorendo così lo straniamento totale del pubblico. Ed è davvero notevole (oltre che un merito gigantesco di Phillips, a mio avviso) che un film che brutalizza così il rapporto tra opera e pubblico venga strombazzato (peraltro quasi sempre in positivo) dalla stampa.

    Se l’intero Joker è focalizzato sul trasmettere al pubblico perché (e per quali ragioni) Joker sia diventato un crudele e beffardo villain, prima ancora che un antagonista e nemesi di Batman (citato solo di striscio, almeno all’apparenza, giusto per non stravolgere completamente la narrazione), alla fine si tratta di un personaggio come molti ne potrebbero davvero esistere: solo, emarginato, incompreso, e secondo alcune analisi associabile ad un incel (neologismo del web per indicare gli involuntary celibate, ovvero i single involontari). Per quanto gli stereotipi e le classificazioni delle persone siano spesso spregevoli, soprattutto se la cosa nasce su internet, questa chiave di lettura è a mio avviso interessante, fermo restando che questo Joker è un film politico (senza essere anti-politico, il che non è poco) ed incentrato su uno dei migliori anti-eroi mai visti negli ultimi anni su uno schermo, in una sarcastica (quanto cupa) satira contro i mass-media, ed il cronico voyeurismo che li caratterizzerebbe.

    Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini. […] Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. […] Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo conseguente. (G. Debord)

    Il focus sulla frustrazione sessuale degli incel, incapaci loro malgrado di trovare un partner, e rifiutati ripetutamente per i motivi più diversi, sembra essere ben figurata dal Joker di Phillips – per quanto i riferimenti al sesso ed alla solitudine del personaggio sembrino riguardare più che altro la società dello spettacolo. Non che il personaggio sia arrabbiato, banalmente, solo perchè non faccia sesso – chi la pensa così, per inciso, non fa parte del pubblico a cui è rivolto il film – ma la sua corrispondenza parziale con la figura dell’incel, il “mostro sbattuto in prima pagina su social network come Reddit, è abbastanza palese. Lo dimostra il suo compiacersi di uno stato che non ama, il suo auto-commiserarsi che non è fine a se stesso, ma possiede un’evoluzione prevedibile quanto shockante per lo spettatore (la scena finale nello studio televisivo). L’accusa di romanticizzare la cultura incel e compiacersi di ciò che mostra, del resto, sembra in effetti infondata, frutto di analisi superficiali ed accostamenti mentula canis che minano alla base stessa del cinema di genere: esplicitare la violenza, per alcuni, sarebbe riprovevole – per via di una potenziale emulazione in negativo del pubblico, del quale evidentemente non si ha troppa stima. Ma se funzionasse davvero così, a ben vedere, tutti i film sull’emarginazione e la solitudine sarebbero nel libro nero dell’Inquisizione Truzza da decenni: e nessuno avrebbe mai visto Nekromantik (che estremizza la mancanza d’amore nella necrofilia) o magari Izo (che la contestualizza in una società da sempre marcia e, anche lì, pregna di un mix perverso tra amore, sesso e violenza). In una sequenza di uno dei capolavori di Miike, del resto, si afferma nichilisticamente: “Cos’è l’amore? È una parola. Una parola non è necessariamente associabile alla fondamentale natura del suo significato.”). Gli stessi incel del resto, secondo certa vulgata fascistoide, dovrebbero non solo redimersi e omologarsi, ma addirittura sentirsi responsabili del proprio status, e farsi appellare come sfigati cronici (ed è quantomeno bizzarro che questa osservazione sia intesa da alcuni come una rassicurante “soluzione” al problema).

    Del resto se questo Joker è socialmente incazzato con il mondo, la sua rabbia dipende da molti altri fattori (infatti va da una psicologa) ed è progressiva: la vediamo sorgere e crescere a suon di soprusi subiti. È, insomma, generata dalla società, dalla famiglia e dalle circostanze: la madre solo apparentemente mite, la vicina di casa da cui è attratto senza volerlo riconoscere, il governo che taglia i fondi per la sua assistenza sociale, il lavoro che stenta, il sogno di fare il comico che si scontra con il gelo del pubblico (e con l’unica eccezione di Sophie). Del resto, il paradosso più feroce del film risiede proprio nell’ambizione del personaggio, sincera quanto sprovveduta, di voler far ridere, rendere felici le persone, mentre prova profonda frustrazione nel non riuscire a farlo.

    Il tutto prosegue in un delirio di violenza indotta, con ulteriori soprusi del proprio capo – passando per i bulletti che lo malmenano e naturalmente i giovani rampanti di Wall Street che lo aggrediscono in metro (e che, guarda caso, poco prima di farlo, parlavano di donne, compiacendosi del proprio essere predatori). Certo quello di Joker non è un meccanismo narrativo nuovo o innovativo, e ai più smaliziati potrà quasi sembrare scontato: ma non c’è bisogno di scomodare Taxi Driver per capirlo, per intenderci, per quanto il regista sia stato il primo (forse un po’ furbescamente) a suggerirlo. Il capolavoro di Scorsese, in effetti, c’entra con Joker soltanto per sommi capi, mentre questo film mostra più che altro derivazioni ed influenze – a livello di regia e ambientazione – che citano, senza scomodare ulteriori paragoni fuori bersaglio (per non dire peggio), soprattutto Requiem for a dream: vedi la dipendenza cronica di madre e figlio dalla TV, e la rispettiva ambizione di parteciparvi come protagonisti, destinata anche lì a collassare in una spirale di morte e distruzione.

    Con una differenza fondamentale: a differenza del finale devastante di Aronofsky, Joker mostra che è possibile (forse) ribellarsi alla propria condizione, reagire e sentirsi liberi, ma che l’unico modo per farlo sia quello di ricorrere alla violenza. Joker, in altri termini, non suggerisce banalmente alla “ggente” di incazzarsi a caso, reagire di pancia o vendicarsi su chi capita (come la versione cinematografica di V per vendetta aveva un po’ populisticamente fatto, ad esempio, e cosa che l’omonimo fumetto, per inciso, si guarda bene dal fare. Sarebbe anche il caso di citare, sempre di Alan Moore, Batman: The Killing Joke, che potrebbe avere punti di contatto con questo film a vari livelli). Joker, insomma, ricorre ad una violenza che è catartica, liberatrice, simbolo di un cambiamento radicale che è necessario imporsi, probabilmente sviluppando una giusta dose di libertà e cinismo. La prova della fondatezza di questa considerazione arriva da una sequenza importante: subito dopo aver ucciso i tre ragazzi in metropolitana, vediamo Joker entrare in casa della vicina e baciarla all’improvviso. La sua liberazione è a quel punto ufficiale, in un certo senso, e da lì partirà il processo che finirà per renderlo addirittura protagonista di uno show televisivo, in bilico tra un ego mite e mansueto ed uno crudele e spietato. Non sappiamo se quel bacio sia realmente accaduto o sia soltanto un sogno o un’allucinazione (tantissimo del film vive su questa ambigua doppiezza), ma il messaggio sottinteso è la presa di consapevolezza di un personaggio che ricorre, nei fatti, alla famigerata ultra-violenza (avrebbe abbastanza senso citare Arancia Meccanica, a questo punto) per uscire dal proprio disagio: questo in senso sia letterale che, direi soprattutto, figurato.

    Il tutto nonostante le ambiguità del finale, che farebbero pensare ad una gigantesca allucinazione di un protagonista che era, in realtà fin dall’inizio, semplicemente un folle in un manicomio: un twist che, se fosse confermato, renderebbe lecito accostare le conclusioni a quelle de Il gabinetto del dottor Caligari.  Una storia, in definitiva, molto semplice da raccontare, quanto necessaria a rendere un messaggio così complesso del tutto totalizzante e, almeno in parte, comprensibile al pubblico mainstream.

    E questo, da cinefili incalliti o meno, non potrà che farci piacere.

  • Gummo: il saggio sull’orrore dell’animo di H. Korine

    Un tornado in Ohio uccide numerose persone e le rispettive famiglie: quella che si vede è la storia dei sopravvissuti.

    In breve. Ispirato all’idea di girare un film su dei ragazzini sopravvissuti ad un terremoto, si basa su un’atmosfera post-apocalittica ineditamente di provincia: dopo un tornado, una piccola comunità prova a ricostruire le proprie esistenze sulle macerie. Ma che riescano davvero a farlo, è tutto da vedere.

    Opera prima di Harmony Korine (già noto per Kids), qui regista ed autore della sceneggiatura, Gummo racconta a suon di death-black metal le solitarie ed alienanti vite dei sopravvissuti ad un tornando in Ohio, ridotto ad un deserto di degrado, noia, spazzatura, nichilismo e perversione. La trama racconta, in modo frammentato, la crudele vita a cui sono costretti i vari ragazzini protagonisti, in particolare due: il cinico Tummler (nomen omen: significa “agitatore” o ribelle in lingua Yiddish) ed il mite Solomon (Jacob Reynolds, che compare pure sulla locandina ed è diventato noto per questo personaggio).

    Girato in soli 20 giorni con un budget di poco più di un milione di dollari, peraltro da un cast di attori non professionisti in larga prevalenza (solo cinque avevano in minimo di esperienza), si ispira apparentemente ai fatti realmente accaduti a nell’Ohio (Xenia) nella metà degli anni ’70, sfruttando parecchie luci fluorescenti che servono a conferire un particolare feeling ossessivo, a tratti giallastro e con parvenza di snuff in molte sequenze.

    Una narrazione che procede sulla falsariga del flusso di coscienza, ereditando qualche meccanismo narrativo da Slacker (uscito 6 anni prima) e ponendosi quasi come una sua rielaborazione degradata. Se nel film di Linklater, infatti, il ritmo era concatenato ad un susseguirsi di eventi continui (quantomeno nello spazio), mentre il montaggio rivestiva un ruolo secondario, in quello di Korine esce fuori una componente più spezzettata e frenetica, ancora più realistica e cruda – tanto da far pensare ad un mockumentary (falso documentario).

    Gummo è anche decisamente grottesco a partire dai passatempi e dalle movenze dei singoli personaggi, tanto goffi quanto – spesso di puro ripiego – inutilmente crudeli. Uno scenario che evoca il post-apocalittico, almeno come scenario, dotandolo di una parvenza di pesante realismo, tanto da far sospettare allo spettatore che addirittura le morti degli animali siano snuff (nonostante le apparenze a nessun animale, come dichiarato il regista, è stato davvero fatto del male in questo film). Come se non bastasse, molte sequenze sono tanto sconnesse da apparire surreali ed illogiche, con personaggi che vivono in un proprio, rispettivo micro-mondo in cui è quasi impossibile rapportarsi con gli altri in modo socialmente normale. Neanche fossimo all’interno di un teatro di strada dell’assurdo, insomma, ed il soggetto non fosse stato concepito da Beckett o, meglio ancora, da Bernhard. Gran lavoro è stato fatto su questo frangente, ed anche se visto oggi per la prima volta Gummo rimane un film indimenticabile, di quelli che turbano e fanno sentire sporchi pur esercitando una chiara funzione catartica (se non vi piacciono i paroloni: guardarlo può essere, a suo modo, rigenerante per lo spirito).

    Decisamente marcata, e non poteva essere diversamente, la componente horror di Gummo, certo non legata al folklore, allo splatter o ai classici villain-tritacarne bensì, in modo decisivo, all’orrore insito nell’animo umano: tanto più che si tratta di personaggi dai tratti primordiali, quasi elementari, spesso al limite della follia, in grado comunque di fare più di una considerazione straziante o esistenzialista. Nella sequenza forse più incisiva e spaventosa della pellicola, ad esempio, assistiamo al monologo davanti allo specchio di Tummler (un suicidio simulato), seguito da una sorta di rituale satanico, intermezzato da un anonimo che si incide a sangue il logo della band thrash metal Slayer.

    Caro mondo, sono confuso dalle oscure elucubrazioni del mio cervello. Ho cercato… ho cercato in tutti i modi di farcela in questo schifoso mondo, ma credo che il primo errore sia stato quello di nascere. Non ho nessun senso di colpa per il mio suicidio. Ho provato… alla vostra maniera, ho sempre lavorato fin da quando avevo 13 anni. Lavorare per vivere non è mai stato un problema per me. Il problema è che sono circondato dall’oscurità. È buio! È buio! È buio! Ora mi punto la pistola alla testa e sparo.

    Una narrazione in cui non si risparmia qualche considerazione sensata (La vita è bellissima, davvero: lo è. Piena di bellezza e di illusioni. La vita è grandiosa), sarcastica (…senza la vita saresti morto) o caratterizzata da una rassegnata ironia di fondo (Conoscevo un ragazzo dislessico, ma era anche strabico: così è venuto fuori bene, tutto sommato). L’ironia corrosiva del regista, peraltro, è abbastanza chiara sia dalla conclusione (la ragazza in disgrazia convinta di essere madre di un bambolotto, e che canta sconnessamente “Gesù mi ama“) che dalla geniale comparsata dei due ragazzini africani, che fingono di raccogliere fondi per curare il cancro e progettano come spenderli: “Ehi, stiamo facendo un mucchio di soldi. Non è meglio che andare a scuola? Così ci compriamo gli insegnanti e non dobbiamo più andare a scuola. Ci compriamo pure la gente? Sì, ci compriamo tutti. Avremo un sacco di amici, e se ci rompiamo ci compriamo degli amici nuovi. Tutti quelli che vogliamo: diventeremo ricchi. E ci compreremo anche delle belle donne“. Menzione particolare per la figura del ragazzo vestito da coniglio (Jacob Sewell), un simbolo che si presta a varie interpretazioni (finge di farsi cacciare da due coetanei vestiti da cowboy, e si indugia sulla sua morte apparente per diversi fotogrammi), salvo poi liberare inaspettatamente la propria sessualità nella sequenza in piscina con le due ragazze bionde. Musica di sottofondo: Crying di Roy Orbinson, che dopo tutto questo bel black metal è un contraltare liberatorio e profondamente originale: un film coi contro-fiocchi, ammesso che sia lecito ed opportuno fargli un complimento del genere.

    Di fatto, Korine lascia parlare parecchio i suoi personaggi, senza degenerare in masturbazioni mentali intellettualoidi: a volte in forma di dialoghi auto-conclusivi e connotati da humour nero, ma anche nella forma di monologhi concepiti come deliranti risposte ad un’immaginaria intervista – e qui interviene una componente introspettiva, caratterizzata da riprese di tipo amatoriale, veri e propri filmini in 16mm alternati con riprese tradizionali.

    Lo sai cosa faccio domani?

    Cosa?

    Vado in un manicomio.

    In un manicomio?

    Mi troverò una bella pazza furiosa.

    Non c’è speranza di redenzione per i protagonisti, peraltro, tanto da nullificare il mantra conclusivo di Slacker (“Ma più il dolore aumenta, piu’ questo istinto per la vita in qualche modo si riafferma.“) e rendere Gummo (che nello slang è usato per per riferirsi ad individui, generalmente razzisti, concepiti da un incesto) un film indipendente dai tratti molto cupi, privo di compromessi con il “grande pubblico” (ma mai pesante o vuotamente “di nicchia”) e, per quanto suoni stereotipato leggerlo: un film per pochi ma buoni, come davvero pochissimi sono stati realizzati.

  • La nona configurazione è l’horror grottesco di William Peter Blatty (1980)

    Un castello sperduto viene utilizzato dai militari per internare reduci dalla guerra in Vietnam affetti da vari squilibri mentali.

    In breve. L’ospedale di Fell è popolato da figure grottesche e tragicomiche, incapaci di metabolizzare il dolore per la guerra. Un affresco molto potente, quanto criptico in alcuni passaggi, con cui Blatty affronta il tema del senso della vita e del sacrificio.

    La nona configurazione è stato scritto e diretto dall’autore del romanzo da cui è nato il film “L’esorcista“, William Peter Blatty, ed ha vinto un Golden Globe nel 1981 come Miglior sceneggiatura. Secondo lo stesso William Peter Blatty, La nona configurazione fa parte di una vera e propria trilogia, che include L’esorcista (incentrato sull’esistenza del bene e del male) e Legion (da cui fu tratto il film L’esorcista III), che invece si focalizza sull’espiazione dal peccato originale e la punizione del male.

    Non è difficile immaginare, in quest’ottica, che La nona configurazione sia anch’esso pervaso da un forte misticismo, nonostante le apparenze facciano sospettare un lavoro delirante e semplicemente claustrofobico sulla schizofrenia. Il ruolo della religione nella lettura di Blatty, del resto, compare a chiare lettere fin dalla sequenza con il crocefisso posto nello spazio (sulla superficie lunare), quest’ultima allucinazione o sogno del protagonista (il colonnello Kane).  Una delle tante sequenze enigmatiche, complesse per lo spettatore ancora oggi, di cui il film è letteralmente cosparso – tanto più che la comprensibilità dell’opera è più abbordabile soltanto se si guarda la versione uncut, dato che l’edizione doppiata in italiano aveva inspiegabilmente saltato – e mai ridoppiato – alcune sequenze (il soldato impazzito che declama l’Amleto ad un gregge di pecore, altri due pazienti che sospettano la follia di Kane). Al suo fianco troviamo la figura di Billy Cutshaw, ex astronauta ed internato dopo aver rinunciato in extremis ad una missione nello spazio: la sua motivazione, come si scoprirà, è dovuta al senso di vuoto che avrebbe provato nel rimanere così lontano da altri esseri umani (“Ci ho provato, signore. Vede le stelle? Così free, lontane, e così sole. Oh, così sole. Tutto quello spazio, vuoto. E così lontano da casa. Ho girovagato attorno casa, orbita dopo orbita. A volte finisco per chiedermi come sarebbe se girassi in quel modo per sempre. E se arrivassi sulla Luna senza poter più tornare? Chiaro, ognuno di noi muore, ma ho paura di farlo da solo, così lontano da casa. E se non esistesse un Dio, saremmo davvero molto soli.“). Un personaggio profondamente umano, pertanto nonostante le apparenze psicotiche iniziali, dal comportamento in linea con presunte velleità artistiche e simbolo, probabilmente assieme a Kane, dell’umanità e della sua doppia faccia (Kane si rivelerà anche un feroce soldato, Billy troverà conferme il proprio pessimismo antropologico fino al simbolico twist finale; al tempo stesso Kane verrà presentato letteralmente come un Cristo morto per i nostri peccati).

    Di fatto l’introspezione psicologica sui protagonisti, il cui limite tra lucidità e follia è sempre labile – praticamente in ogni caso – rende il film affascinante quanto affetto da una forma di manicheismo di fondo: lo intuiamo sia dalle parole di Billy appena citate, che quando sentiamo le considerazioni misticheggianti di Kane (“Affinché la vita apparisse spontaneamente sulla terra, prima dovevano esserci centinaia di milioni di molecole proteiche della nona configurazione. Ma date le dimensioni del pianeta Terra, sapete quanto tempo ci sarebbe voluto perché solo una di queste molecole proteiche apparisse totalmente per caso? Circa dai 10 ai 240 miliardi di miliardi di anni. E lo trovo molto, molto più fantastico del semplice credere in Dio.“).

    Non dovrebbe essere una novità, quest’ultima, dato che le posizioni di Blatty in tema di fede sono esplicite fin dai tempi de L’esorcista (un buon horror di culto, senza dubbio, per quanto anch’esso vittima di manicheismo e di un messaggio propagandistico in favore della fede a prescindere, per certi versi non troppo progressista). Non è mai chiarito cosa possa essere, in effetti, la nona configurazione, per cui ogni spiegazione rischia di apparire parziale e viene lasciata all’immaginazione dello spettatore. Appare comunque sbagliato avere un atteggiamento eccessivamente riduzionista o anti-idealistico nei confronti di questo film, che rimane interpretato splendidamente e molto solido narrativamente – per quanto lo script rischi di sembrare un po’ didascalico in certi passaggi (il tema del soldato stravolto dal trauma, del resto, è stato affrontato in modo più incisivo in film come La morte dietro la porta).

    L’atteggiamento nei confronti del sovrannaturale, per molti versi, è anche analogo a quello espresso da John Carpenter ne Il signore del male, con la differenza fondamentale che quel film usa la fisica quantistica come strumento di propagazione dello stesso e, soprattutto, svela l’arcano in chiave antropologicamente pessimista quanto materialista (è l’Uomo, in quel film, ad essere l’unica causa del male). Nel film di Blatty l’occhio della camera si pone invece in maniera onirica e distaccata rispetto a tutti i protagonisti, e si limita ad accumularne il dolore universale per proporre una riflessione puramente teologica.

    Dall’aria impettita e dallo sguardo fisso – da freddo osservatore, Kane rivelerà una personalità doppia, tanto che (da semplice psichiatra quale dovrebbe essere) si troverà sempre più coinvolto in una para-seduta che, paradossalmente, riguarderà se stesso, sempre più da vicino. L’interpretazione di Stacy Keach è stata in questa sede magistrale, e deriva dall’impostazione da teatro dell’assurdo dell’intero film, alquanto criptico in alcuni passaggi e giocato su toni grotteschi giustificabili, almeno in parte, dal clima di follia che finisce per permeare l’opera. Del resto alcuni riferimenti all’opera di Shakespeare (Amleto) sono ripetuti in più occasioni, almeno fino al primo twist nella trama che rivela la reale natura del protagonista e l’orribile antefatto che l’ha portato lì (la decapitazione accidentale di un ragazzino vietnamita, fatto occultato dai militari in seguito). Il suo personaggio, pertanto, cerca la redenzione provando a curare dei pazienti affetti da un male molto simile – il trauma di una guerra – figurando, probabilmente solo nella sua mente, di avere gli strumenti per poterlo fare.

    La nona configurazione venne curiosamente finanziato grazie alla Pepsico, nota per la nota bevanda analcolica (la Pepsi, eterna rivale della Coca-Cola); ci fu anche una diatriba piuttosto accesa su dove girare il film, che i finanziatori pretendevano di realizzare a Budapest, senza avere l’assenso del regista / autore della sceneggiatura. Il compromesso trovato fu memorabile, e solo parzialmente visibile: si limitò semplicemente a riprendere (per alcuni brevi istanti) un distributore di bevande con il marchio Pepsi sopra.

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