CULT_ (114 articoli)

Gli imperdibili: una selezione di pellicole da non perdere per qualsiasi appassionato del genere horror, commedia, thriller, trash.

  • I cannibali di Liliana Cavani portò l’indovino Tiresia nel centro di Milano

    I cannibali di Liliana Cavani portò l’indovino Tiresia nel centro di Milano

    Quattro ragazzini trovano uno sconosciuto accasciato in spiaggia, si incuriosiscono e lo svegliano. Fuggendo via, vengono brutalmente colpiti a morte da un gruppo di militari, mentre l’uomo (che si scoprirà essere Tiresia, la cui lingua è incomprensibile alla maggioranza delgi uomini) rimane inebetito ad assistere alla scena.

    Tu ci vedi, ma pur vedendoci non vedi in che abisso sei caduto è la citazione, attribuita a Tiresia, dall’Antigone di Sofocle da cui trae ispirazione questo film, che ne da’ il via dopo un inizio traumatico (la morte di quattro bambini, idea di per sè in controtendenza rispetto alla maggioranza delle pellicole).

    A dirla tutta, si potrebbe assistere alla visione de I cannibali anche senza sapere nulla del classico di riferimento, tanto la regia di Liliana Cavani è concisa, sintetica ed efficace. Antigone è il personaggio a tutto tondo che esce volutamente fuori dalle righe, consapevole della carica etica e rivoluzionaria del suo gesto, un gesto che la società utilitaristica e narcotizzata non può capire e che, per questo, verrà martirizzata dal sistema. Simbolo della libertà di coscienza e derisa dal potere capitalistico (ci sono più sequenze nel film che esprimono questa metafora), nell’antica mitologia Antigone sfidò le autorità, a prezzo della sua stessa vita, pur di garantire una degna sepoltura al fratello Polinice, contrastata dal re di Tebe che, dal canto suo, voleva proibirla al fine di consolidare il proprio potere politico.

    Ne I cannibali (noto all’estero anche con il titolo The year of the cannibals, e distribuito in Italia da Raro Video) c’è anche spazio anche per una profonda considerazione sociologica: in un mondo militarizzato di soldati cinici e obbedienti al Super Io del Potere, i media sono talmente allineati al potere da fare le sue veci, catturando personalmente uno dei dissidenti, facendo un grottesco annuncio al telegiornale in pompa magna. Basti poi considerare la sequenza in cui Tiresia prova a scappare e, invece di provare a riprenderlo, il commentatore TV si lascia andare ad una surreale telecronaca dell’evento per capire come un film del genere, per quanto dall’andamento serioso, non manchino momenti di cupa, autentica ironia.

    Tu sei mio padre, e tu sei… il mio padrone. (Emone)

    Nel clima distopico imperante, i dissidenti vengono uccisi e usati come monito per i sopravvissuti, e nella migliore delle ipotesi sono rinchiusi in una sorta di carceri-manicomi, dove sono sottoposti a vessazioni di ogni genere. The Cannibals è anche il primo film di Cavani a fare affidamento (per garantirsi massima libertà espressiva, si presume) a una casa di produzione indipendente, il che lo rende ancora più diretto e interessante da reperire. Vedremo pertanto Antigone (giovane donna dei giorni nostri, intepretata da una efficace Britt Ekland, da bellezza enigmatica dalle motivazioni oscure a corpo sfigurato e martirizzato) che trafuga il cadavere del fratello (un contestatore ucciso dalla polizia) assieme a quelli di altri ragazzi che hanno subito la stessa sorte, trasgredendo così la repressiva legge vigente.

    Nel compiere l’impresa sarà proprio Tiresia (Pierre Clémenti), giovane altrettanto misterioso con cui sembra l’unica a riuscire a capirsi, a dargli una mano nel realizzare la propria idea. Il contrasto, pertanto, sembra perennemente giocato sulla contrapposizione tra adulti calcolatori e privi di scrupoli e giovani rivoluzionari vessati dal sistema nei modi più fantasiosi.

    Il mito del poeta tragico Sofocle (497-406) viene così traslietterato ai giorni nostri mediante una sostanziale modernizzazione: il re diventa il primo ministro, la protagonista una figlia di buona famiglia non allineata, mentre le relazioni tra i personaggi restano sostanzialmente intatte rispetto all’originale. Non c’è alcun sentimento didascalico nel farlo, soprattutto, e questo favorisce la fruibilità di un lavoro che, per l’epoca, deve certamente aver fatto discutere parecchio (anche chi non dovesse conoscere l’originale poteva capire appieno il senso dell’opera, anche solo per la scelta di rottura di ambientarlo nel centro di una Milano fin troppo riconoscibile).

    Il significato de I cannibali appare chiaro nella propria valenza puramente politica, anche per il periodo in cui uscì: 1970, a cavallo del Sessantotto, in un periodo in cui gli scontri per strada tra polizia e manifestanti erano all’ordine del giorno, oltre che motivo di acceso dibattito nell’opinione pubblica. Un film che si potrebbe quindi collocare nella costellazione dei film anni settanta di matrice socio-politica come, per intenderci, La proprietà non è più un furto oppure Dilinger è morto.

    Dal canto suo, il Potere – il vero “mostro” della storia – appare auto-indulgente all’ennesima potenza: messo davanti alla situazione estrema della sua stessa figlia ricoverata in gravi condizioni in ospedale e personificato dal Re / Primo ministro, rifiuta cinicamente di salvarla in nome dello Stato, dato che cedere ad una richiesta di pietà avrebbe avuto il peso politico dell’auto-delegittimazione.

    La trama del film parte da una spiaggia (dove, chissà come , è arrivato Tiresia), mentre la regia equilibrata e realistica della Cavani mostra un mondo distopico, colmo di indifferenza, spie, allegorie e delatori. La gente muore per le strade, senza che nessuno sposti i cadaveri, e nessuno se ne lamenta. Il quadro è chiaro fin dai primi fotogrammi, proprio mentre vediamo passanti aggirarsi tra i morti come se fossero semplici elementi del paesaggio.

    Peggio ancora: esiste una legge specifica che punisce duramente chiunque osi toccarli o spostarli. Il clima di indifferenza e conformismo generale è alimentato dalle leggi dello stato: è ammessa la benedizione dei morti, ma solo durante la pulizia delle strade. La realtà dell’epoca sembra binaria quanto serializzata nel senso stabilito da Baudrillard: o sei contro il sistema o sei complice, non ci sono viene di mezzo, i corpi delle vittime devono rimanere per strada perchè servano da monito ai vivi, mediante un raffinato meccanismo di serializzazione (il simulacro del corpo di Polinice si trasforma in centinaia di corpi di contestatori sparsi). Il reale è riprodotto in serie e sono i morti, letteralmente, ad essere al centro della narrazione, probabilmente perchè risulterebbe destabilizzante per il sistema farli seppellire.

    Negare il diritto di sepoltura è un modo per mantenere l’ordine costituito, con una sorta di legge marziale in cui è concesso sparare a vista sui dissidenti senza processo. Di fatto, è ormai normale aggirarsi per la strada con decine di morti distribuiti ovunque, ridotti a elementi scenografici del numerosi non-luoghi meneghini.

    I cannibali rimane un film moderno, sostanziale ed imperdibile ancora oggi, impreziosito da una performance poco nota (e notevolissima nella sostanza) di Thomas Milian.

    Una versione restaurata del film è stata rilasciata su DVD e Blu-ray da Kino Lorber nel 2014.

  • Il silenzio degli innocenti: trama, cast, sinossi, curiosità

    “Il Silenzio degli Innocenti” (The Silence of the Lambs) è un celebre thriller psicologico del 1991 diretto da Jonathan Demme.

    Nel giorno di San Valentino del 1991 arrivava nelle sale Il silenzio degli innocenti, l’inquietante capolavoro diretto da Jonathan Demme, con Jodie Foster nei panni dell’agente dell’FBI Clarice Starling e Anthony Hopkins nell’iconico ruolo del dottor Hannibal Lecter. Un thriller psicologico che ha lasciato il segno, conquistando cinque premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore, Miglior Attrice e Miglior Sceneggiatura Non Originale), entrando così nella storia del cinema.

    Cast Principale:

    • Jodie Foster come Clarice Starling
    • Anthony Hopkins come Dr. Hannibal Lecter
    • Scott Glenn come Jack Crawford
    • Ted Levine come Jame Gumb (Buffalo Bill)

    Storia: Il film segue la giovane agente dell’FBI Clarice Starling mentre viene assegnata al caso di un serial killer noto come Buffalo Bill. Per risolvere il caso, Clarice cerca l’aiuto del famigerato criminale psicopatico Dr. Hannibal Lecter, un ex-psichiatra incarcerato che è noto per la sua mente brillante e la sua pericolosa natura. La storia è un intricato gioco di gatto e topo tra Clarice e il Dr. Lecter, con implicazioni psicologiche profonde.

    Regia: Jonathan Demme è stato il regista del film. Ha creato un’atmosfera di tensione e suspense attraverso l’uso di inquadrature ravvicinate e l’uso di primi piani intensi per mettere in evidenza le emozioni e i volti dei personaggi. Demme ha ricevuto molti elogi per la sua regia nel film.

    Produzione: La produzione del film è stata realizzata con un budget relativamente modesto, ma ha ottenuto un grande successo di critica e di pubblico. Il film è basato sul romanzo omonimo di Thomas Harris, ed è stato adattato per lo schermo da Ted Tally.

    Stile: Il film è noto per il suo stile realistico e per le interpretazioni straordinarie dei suoi attori principali. La narrazione è intensa e coinvolgente, con una serie di scene memorabili che includono dialoghi iconici tra Clarice Starling e il Dr. Lecter. La colonna sonora di Howard Shore contribuisce ulteriormente a creare una tensione palpabile.

    Sinossi: Clarice Starling, una giovane agente dell’FBI in formazione, viene assegnata al caso di Buffalo Bill, un serial killer che rapisce e uccide giovani donne. Per ottenere l’aiuto del Dr. Hannibal Lecter, un brillante ma psicopatico ex-psichiatra, Clarice deve penetrare nella mente di Lecter e svelare i suoi oscuri segreti. Nel frattempo, Buffalo Bill continua la sua scia di omicidi, e Clarice si trova sempre più coinvolta in una caccia all’uomo per fermarlo.

    Curiosità:

    • Anthony Hopkins ha vinto l’Oscar come Miglior Attore per il suo ruolo di Hannibal Lecter, nonostante il suo tempo limitato sullo schermo.
    • Jodie Foster ha vinto l’Oscar come Miglior Attrice per il suo ruolo di Clarice Starling.
    • “Il Silenzio degli Innocenti” è uno dei pochi film a vincere i cinque principali Premi Oscar: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore, Miglior Attrice e Miglior Sceneggiatura.

    “Il silenzio degli innocenti” è un capolavoro del cinema thriller che continua a suscitare interesse anche a distanza di anni dalla sua uscita. Il film, diretto da Jonathan Demme e interpretato magistralmente da Jodie Foster nel ruolo dell’agente FBI Clarice Starling e Anthony Hopkins nei panni del brillante e inquietante Dr. Hannibal Lecter, ha segnato profondamente l’immaginario collettivo.

    Una delle curiosità più affascinanti riguarda l’ispirazione dietro il personaggio di Hannibal Lecter. Lo scrittore Thomas Harris ha rivelato di essersi ispirato a un medico che aveva mutilato un uomo, conosciuto negli anni Sessanta quando era un giovane reporter.

    Un altro aspetto interessante è legato alle scelte di casting. Inizialmente, il ruolo di Clarice Starling era stato offerto a Michelle Pfeiffer, che rifiutò la parte, lasciando spazio a Jodie Foster, la quale con la sua interpretazione vinse l’Oscar come migliore attrice protagonista nel 1992.

    Locandina

    Clicca sulla locandina per ingrandirla. Credits: IMDB

    La locandina del film “Il Silenzio degli Innocenti” presenta un’immagine iconica con una farfalla stilizzata al centro dell’immagine.

    Colori: La locandina è dominata da tonalità di verde scure (almeno in alcune versioni reperibili online), creando un’atmosfera cupa e misteriosa.

    Farfalla: Al centro della locandina c’è una farfalla stilizzata. La farfalla è un motivo ricorrente nel film e simboleggia la metamorfosi e la trasformazione. È un elemento visivo potente che cattura l’attenzione dello spettatore.

    Corpi nudi: ingrandendo il dettaglio si nota che la farfalla forma una sorta di teschio stilizzato, composto a sua volta da corpi di donne nude.

    Nel complesso, la locandina del film “Il Silenzio degli Innocenti” cattura efficacemente l’essenza del film, con la farfalla “ricorsiva” che simboleggia la profondità psicologica e l’oscurità del thriller, mentre i colori e il design generale contribuiscono a creare una sensazione di suspense e tensione. È un’immagine iconica che è diventata riconoscibile per gli amanti del cinema.

    Spiegazione Dettagliata del Finale con Pre-Avviso Spoiler: Attenzione, spoiler! Nel finale del film, Clarice Starling riesce a identificare la vera identità di Buffalo Bill, un uomo di nome Jame Gumb. Con l’aiuto del suo addestramento e delle informazioni ottenute da Hannibal Lecter, Clarice riesce a salvare la prigioniera di Gumb e ad affrontare l’assassino in un pericoloso confronto nella sua casa.

    Il finale è pieno di tensione mentre Clarice attraversa l’oscura cantina di Gumb per salvare la prigioniera. Alla fine, riesce a uccidere Gumb e salvare la ragazza. Nel frattempo, Hannibal Lecter riesce a sfuggire dalla sua prigione e rimane in libertà, lasciando aperte molte questioni senza risposta sulla sua sorte.

    Il finale di “Il Silenzio degli Innocenti” è molto intenso e offre una chiusura soddisfacente per la trama principale, mentre lascia un mistero sospeso riguardo al destino di Hannibal Lecter, che verrà poi esplorato nei seguiti e nella serie televisiva ispirata ai romanzi di Thomas Harris.

  • Povere creature! di Lanthimos è il trionfo dell’Anti-Edipo

    “Povere Creature!” (titolo originale: Poor Things), è un romanzo di Alasdair Gray pubblicato nel 1992. Si tratta di una storia in stile gotico che combina elementi di satira sociale e politica con una narrazione surreale. Il libro è ambientato in una Glasgow vittoriana e segue la vicenda di Bella Baxter, una donna riportata in vita attraverso esperimenti scientifici. “Poor Things” è stato adattato in questo film del 2023 diretto da Yorgos Lanthimos, con Emma Stone nel ruolo della protagonista. La pellicola è stata molto apprezzata per la sua estetica unica e le tematiche profonde.

    Scrivere recensioni assomiglia a volte a uno sport bizzarro, nel quale non solo devi “sollevare i pesi” della tua esibizione interpretativa ma, come se non bastasse, sei costretto ad affannarti in derive letterarie improbabili, trovando rifugio tra i meandri di quello che hai provato, delle cose che hai letto e che forse c’entrano qualcosa, degli episodi che ti vengono in mente, le suggestioni che ricevi dallo schermo. Almeno per me è stato così, dopo aver visto Povere creature! in un cinema (purtroppo) mezzo vuoto, per quel che mi riguarda: e vale soprattutto quando assisti ad un lavoro del genere, semplice eppur complesso nel suo concepimento, incerto sull’attribuzione del genere, attualissimo – soprattutto – per le tematiche che scomoda. Un film che urla, letteralmente, la necessità di parlarne, di vederlo una prima o una seconda volta, per coglierne le numerose stratificazioni che lo caratterizzano.

    Cosa significa poor things

    Andrebbe come prima cosa sgombrato il campo sul titolo, e sulla pseudo-polemica legata alla traduzione: Poor things non significa povere cose (nè cose da nulla, come qualcuno ha maccheronicamente tradotto), ma andrebbe tradotto come poverini, poveracci, poveretti. In molti casi l’espressione vorrebbe esprimere disperazione e sofferenza, come in she just seemed more desperate, poor thing (sembrava disperata, poverina). Il sempre affidabile Urban Dictionary, peraltro, sottolinea come l’espressione poor thing finisca per denotare compassione per qualcuno, per una persona in questione a causa del dibattere su di essa. Da escludere, pertanto, l’idea che Povere creature! possieda una qualche componente exploitation (che è considerato il sottogenere che mostra violenza, sesso e derivati per il gusto di shockare o, al limite, per presunti scopi educativi o sociologici): l’attenzione sembra semmai posta sull’empatizzare con la vittima, impersonificandone la sofferenza e provando a mostrare come uscirne.

    Si è molto parlato di questo film negli ultimi tempi – la sua produzione risale al 2021 – e si tratta dell’ennesimo del prolifico Yorgos Lanthimos (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro), il quale dirige l’ennesima storia simil-distopica dai tratti singolari. Una narrazione dotata di un approccio diretto e privo di fronzoli, costruito come un romanzo di formazione (è la storia di una fanciulla che rinasce, letteralmente, grazie ad una ardita forma di chirurgia) con numerosi echi al Von Trier di Nimphomaniac. Per il soggetto il regista greco va a pescare da un romanzo di Alasdair Gray del 1992, che racconta di questo singolare personaggio dai tratti freak che, per ribadirlo con l’espressione del film, finisce per essere “madre e figlia nello stesso corpo“.

    Noi nasciamo capaci d’imparare, ma non sapendo nulla, non conoscendo nulla – scriveva Rousseau nel suo celebre romanzo pedagogico Emilio del 1762. È curioso osservare che i presupposti di Povere creature! potrebbero collocarsi su questa falsariga. Qualche riga dopo, infatti, l’autore ipotizza per assurdo che se un fanciullo avesse alla sua nascita la statura e la forza di un adulto, quest’uomo bambino sarebbe un perfetto imbecille, un automa, una statua immobile e quasi insensibile. Serve a rimarcare il potere dell’educazione e l’importanza per ogni essere umano di imparare a conoscere  e capire il mondo (trovare l’a che serve per agire, per dirla alla Rousseau). Ed è come se l’autore del romanzo, ed il regista come diretta conseguenza, partissero dai presupposti posti per assurdo da questo celebre scritto, immaginando non un fanciullo ma una fanciulla bambina nel corpo di un adulto, che si comporta come tale assorbendo progressivamente il bene ed il male, suo malgrado, dal mondo che la circonda.

    La storia è quella di Bella Baxter, una giovane donna dal comportamento infantile, frutto del lavoro di un esperto chirurgo (Godwin Baxter, ovviamente nomen omen). Il medico è dedito ad esperimenti arditi – tra cui innestare teste e corpi di animali viventi diversi, come cani, gatti e maiali, al fine di creare nuove specie o, al limite, di mostrare i limiti oltre i quali la scienza non dovrebbe andare. Complicato effettuare operazioni del genere in una struttura sanitaria, del resto: per cui vediamo l’allestimento di una sala operatoria all’interno di una villa privata. Un ambiente che non può non evocare quello grottesco dell’isola del dottor Moreau, in cui un mad doctor supera i limiti dell’etica in onore dell’ossessione per la scienza. Ma il vero focus è  su Bella, il suo esperimento meglio riuscito: il personaggio non ha alcun ricordo, è infantile, libera e spensierata, oltre al fatto non indifferente di vivere senza saperlo nel corpo della madre morta suicida poco prima. Il corpo della madre di Bella è stato recuperato dal chirurgo in extremis, e si è deciso di impiantarle il cervello del feto che portava in grembo. Ogni conseguenza è imprevedibile, a questo punto, e la domanda pressante è: Bella scoprirà di vivere nel corpo della madre, oppure no? Cosa le comporterà saperlo, quando arriverà questo momento?

    Gli echi di Frankestein sono gli stessi del romanzo a cui il film si ispira, ma la dimensione horror classica è solo una condizione di partenza, non esclusiva, dalla quale si sviluppa un film totalmente surreale, imprevedibile e multisfaccettato, con numerosi echi erotici e vari significati psico-sociali. Sì, perchè il rito di iniziazione di Bella è la scoperta della sessualità, che la porta a fare sì che il suo Es scardini ogni convenzione e richieda, ad un certo punto, al proprio creatore di essere lasciata libera di scegliere. Un lavoro a cui Lanthimos conferisce una parvenza tra il vittoriano e lo steampunk, una sorta di mondo incantato in cui le funivie sovrastano il cielo delle città, i colori sono tanto saturi da sembrare fumetti, e in cui è ordinario che una giovane donna (interpretata da Emma Stone, che si muoverà meccanicamente per buona parte del film) vada a chiedere ad una attempata signora, appena conosciuta, se compensi con la masturbazione la mancanza di sesso che vive da più di vent’anni. La sua (ri)scoperta del sesso è un insight autentico, un’illuminazione, una rivelazione quasi mistica che la spinge a scoprire la logica del mondo e, come prevedibile, ad impattare in ogni suo aspetto.

    Povere creature è (anche) un film sulla degenerazione, sulla perdità di umanità, sul sesso come tabù e sulla sua valenza liberatoria, tanto orgasmatica quanto rivoluzionaria, che tanto si lega alle tematiche del desiderio e della repressione e che – soprattutto – rifiuta il familiarismo tipico delle pellicole più claustrofobiche di questo tipo: quelle per cui tutto nasce, vive e muore in famiglia, con la famiglia che diventa prigione, lettino dello psicoanalista e tomba. In questo film il focus sembra essere aprire noi stessi al mondo, che è probabilmente ciò che Lanthimos ci invita a fare – pena perdere la nostra umanità.

    Per questo è necessario, oggi e per sempre, non soffermarsi superficialmente sull’aspetto sessuale prompente che l’attivissima Bella ci propina, per quanto la regia insista su di esso senza tabù sfruttando frequenti primi piani facciali, nonchè una rassegna di pratiche erotiche che vengono quantomeno citate se non mostrate (masturbazione, coito in qualsiasi posizione, rimming, cunnilingus, sado-masochismo). Il punto, semmai, è il significato simbolico di queste pratiche, che da un lato vogliono dire emancipazione sessuale (femminile, soprattutto), dall’altro fanno diventare la trama diventa una riflessione spassionata e coinvolgente sui perchè dell’essere umano, dal punto di vista di un cervello non completamente sviluppato o “immaturo” come quello di Bella, che appare, grottescamente, più ragionevole e sensato di quello di un uomo adulto, viziato da rabbia e gelosie irrazionali, senso di possesso, patriarcato e via delirando.

    Il cervello della protagonista recepisce il mondo in modo sostanzialmente innocente, scopre da sola la propria sessualità, poi scopre le relazioni, le imposizioni, i tabù, fino a scoperchiare il dolore del mondo (la sequenza annessa è dotata di un’intensità rara, quasi commovente). Poi inizia a leggere libri e romanzi, scopre il socialismo a Parigi e alcuni lavori “proibiti” per mantenersi, inizia a studiare medicina per poi costruirsi il proprio mondo poli-amoroso da manuale.

    L’idea di Godwin, del resto – un dio che ha vinto, letteralmente – era quella di dimostrare scientificamente che Bella è un autentico reset biologico, una donna creata al di fuori dell’evoluzione proprio perchè in grado di liberararsi completamente dall’influenza dei genitori. Anti-Edipo, insomma. Mamma e papà non erano al lavoro mentre studiavi e avevi il primo fidanzatino: semplicemente non c’erano, non ci sono mai stati, perchè sei nata ed hai aperto gli occhi su un tavolo operatorio, con un corpo di madre che solo incidentalmente si trovava lì.

    Ecco perchè Lanthimos (e Gray, di riflesso) uccidono la madre, metaforicamente, e costringendo lo spettatore a superare qualsiasi triangolazione edipica, a buttarsi nella mischia, a conoscere il mondo (che riserva ovunque anfratti di amore e libertà, nonostante le minacce e le brutture), in nome della bellezza dell’esperienza, dell’apertura verso il mondo, della (ri)scoperta e dei piaceri che ciò può provocare. Non è la rappresentazione del sesso in sè a essere tabù, in fondo: è l’idea di Bella a sconvolgerne il bieco conformismo, se si pensa che era stata lei, ingenuamente, a chiedersi perchè la gente non trascorresse interamente le proprie giornate a fare qualcosa di meraviglioso come il sesso.

    Il personaggio è incredibilmente potente, al punto da risultare spaventoso o destabilizzante per qualche spettatore, e diventa sempre più tale col progredire di una trama variabile e dai tratti a volte nostrani, altri esotici. Inizialmente il comportamento di una bambina dispettosa diventa un’adolescente in tempesta ormonale, poi viene promessa in sposa all’assistente del chirurgo (che se ne innamora) fino a diventare una donna e scoprire il mondo, le sue perversioni, le sue brutture, la sua bellezza, la sua speranza. Un viaggio tra Lisbona, Parigi, Alessandria, alla scoperta del proprio sè, a contatto con un mondo ben più cinico di quanto la sua innocente empatia suggeriva, probabilmente, fino a tornare nella Londra vittoriana in cui era inizialmente ambientato il film. Rinascere, anche qui, ancora una volta.

    È in discussione la narrazione più classica, del resto: se è vero si inizia con la tipica triangolazione di personaggi tra Io (il giovane medico che ascolta, come noi, la storia), SuperIo (il chirurgo creatore onnipotente) ed Es (Bella, in progressiva preda dei propri desideri, il film prende una piega inaspettata proprio perchè il personaggio femminile rifiuta deliberatamente di ridurre tutto a mamma e papà (per usare l’espressione antiedipica forse più usata da Deleuze e Guattari), ma soprattutto accetta, con coraggio e audacia, di affacciarsi nel mondo, di relazionarsi nel proprio singolare modo, a proprio rischio e pericolo. È una donna, ed è libera, accarezza idee socialiste e – naturalmente – è minacciata non solo dal patriarcato del mite spasimante ma anche da quello di molti uomini con cui avrà una relazione. E poi il sesso che la entusiasma candidamente non potrà essere accettato dal perbenismo imperante, per cui conoscerà il dolore della repressione; la sincerità che la contraddistingue non sempre sarà motivo di successo, anzi la renderà vittima di sopraffazione e bieco patriarcato; il suo viaggio nella sessualità a 360° la porterà ad aprirsi a nuovi mondi, a nuove sensazioni, fino a spalancare le porte ad una relazione poliamorosa che sembra, di fatto, chiudere uno dei migliori film mai girati da Lanthimos.

    Povere creature è un film complesso, senza dubbio, che va interpretato alla luce delle tematiche non banali che abbiamo elencato. Ma è anche un film che fa della chiarezza narrativa il suo più importante pregio, per quanto l’ambientazione fantascientifica dirompente lasci il pubblico privo di un vero e proprio punto di riferimento. Poco importa: perchè guardi Bella, guardi i personaggi attorno a lei, ti capaciti che il tuo mondo non era poi così diverso e pensi che, tutto sommato, potresti provare ad aprirti anche tu. Magari da lunedì prossimo, nel giorno da incubo per eccellenza, accettando di attraversare la nostra formazione, di accelerare il processo, di spingersi oltre a nostro consapevole rischio e pericolo. Per vivere come uomini – ma soprattutto come donne – sempre più autenticamente liberi e libere.

    La spiegazione di “Povere creature!”

    Spiegazione di Povere Creature!: un viaggio tra cinema, letteratura e filosofia

    Povere Creature!” (titolo originale Poor Things) è un’opera che affonda le sue radici nel romanzo gotico e nella satira sociale, diventando un fenomeno culturale capace di affascinare lettori e spettatori. Il romanzo di Alasdair Gray, pubblicato nel 1992, ha ispirato l’omonimo film diretto da Yorgos Lanthimos nel 2023, con Emma Stone nel ruolo della protagonista Bella Baxter. Quest’articolo esplora la trama, le tematiche principali e il significato simbolico dell’opera, mettendo in luce perché sia diventata un punto di riferimento nel panorama culturale.


    Trama

    Il romanzo e il film seguono la storia di Bella Baxter, una giovane donna riportata in vita da Godwin Baxter, un chirurgo geniale e controverso. Bella è il risultato di un esperimento radicale: il suo corpo appartiene a sua madre, deceduta, mentre il cervello proviene dal feto che portava in grembo. Questo “reset biologico” crea un personaggio unico, che esplora il mondo con un misto di innocenza infantile e curiosità adulta.

    Ambientata in una Glasgow vittoriana che richiama atmosfere steampunk, la narrazione mescola elementi gotici con riflessioni filosofiche, creando un’esperienza profondamente stratificata.


    Il titolo: “Poor Things” e il suo significato

    Una delle prime curiosità riguarda il titolo originale: Poor Things. La traduzione “Povere Creature!” è appropriata, ma il termine “poor things” porta con sé sfumature di compassione e empatia verso chi soffre. Non si tratta di una semplice espressione di pietà, ma di una riflessione sull’umanità e le sue contraddizioni.

    Il titolo anticipa la chiave di lettura dell’opera: non uno spettacolo di sfruttamento o violenza, ma una narrazione che invita a empatizzare con i personaggi, esplorando temi come la libertà, la sessualità, e l’identità.


    Tematiche principali

    1. Educazione e libertà
      Bella rappresenta un “foglio bianco” che si riempie lentamente attraverso le esperienze. Questo richiama le teorie di Rousseau in Emilio, dove l’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’individuo.
    2. Sessualità e autodeterminazione
      Un aspetto centrale del film è la scoperta della sessualità di Bella. Questa non è presentata come semplice tabù, ma come un mezzo di emancipazione personale e sociale. Le sue esperienze erotiche simboleggiano la libertà dai vincoli imposti dal patriarcato e dalla morale vittoriana.
    3. Scienza ed etica
      Godwin Baxter incarna il classico “mad doctor” che spinge la scienza oltre i limiti morali. Tuttavia, il focus non è sull’orrore delle sue azioni, ma sulle implicazioni filosofiche: cosa significa essere umani? Fino a dove può spingersi la scienza senza perdere di vista l’etica?

    Estetica e regia di Yorgos Lanthimos

    Lanthimos porta sullo schermo un mondo visivamente sorprendente, unendo atmosfere vittoriane a dettagli steampunk. I colori saturi e le scenografie oniriche contribuiscono a creare un’esperienza cinematografica unica. Emma Stone offre un’interpretazione magnetica, incarnando la dualità di Bella: innocenza e saggezza, fragilità e forza.


    Perché vedere Povere Creature!?

    Povere Creature! è più di un semplice film o romanzo: è una riflessione profonda sull’umanità, la libertà e il progresso. Che siate attratti dalla narrazione surreale, dalle tematiche filosofiche o dall’estetica unica, quest’opera offre spunti per riflettere e discutere. In definitiva il film ci invita probabilmente a esplorare cosa significa essere vivi, imparando a conoscere il mondo e noi stessi, un passo alla volta.

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  • L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov

    L’uomo con la macchina da presa” (film del 1929), diretto da Dziga Vertov, è un’opera fondamentale del cinema sperimentale sovietico e un esempio emblematico del movimento “cine-occhio” (kinoglaz). Il film è noto per l’uso innovativo di tecniche cinematografiche, tra cui: un montaggio rapido e dinamico, con circa 1.775 inquadrature diverse, un ritmo quattro volte più veloce rispetto ai film dell’epoca; effetti speciali come sovrimpressioni, stop-motion e angolazioni inedite fino ad allora; assenza di didascalie, andando contro le convenzioni implicite del cinema muto. Queste scelte stilistiche mirano a esplorare le potenzialità del mezzo cinematografico, liberandolo dalle influenze teatrali e letterarie.

    Il film rappresenta l’apice della carriera di Vertov, un’opera tecnicamente all’avanguardia che ancora oggi colpisce per originalità e vivacità. Il film è riconosciuto come un caposaldo della cinematografia mondiale, grazie alle capacità tecniche e artistiche di Vertov e di suo fratello, Mikhail Kaufman, operatore e protagonista del film.

    Vertov si opponeva al cinema che addormenta le coscienze, preferendo cogliere la vita “al volo”, nella sua quotidianità, senza messa in scena teatrale. Teorico convinto del “cine-occhio”, sosteneva la superiorità del documentario sul cinema di finzione, ritenendo quest’ultimo inadatto a formare una società comunista. Il film esprime la sua convinzione che la cinepresa possa rivelare verità nascoste, superando i limiti dell’occhio umano (Cinescuola).

    Il film segue una giornata tipo di un cineoperatore che riprende scene di vita quotidiana nelle città sovietiche, mostrando il lavoro nelle fabbriche, i trasporti pubblici, momenti di svago e attività sportive. La narrazione è priva di una trama tradizionale; invece, offre un mosaico visivo che celebra la modernità e il ritmo della vita urbana sovietica. Il cineoperatore stesso diventa oggetto dell’indagine dell’occhio scrutatore, in un gioco di meta-cinema che coinvolge lo spettatore.

    L’opera finisce per esaltare il progresso tecnologico e la modernità, riflettendo la visione futuribile di Vertov, che vedeva nel cinema uno strumento per mettere in contatto i proletari di tutto il mondo.

  • Control: il film di Anton Corbjin su Ian Curtis

    Control è un biopic musicale, girato almeno un decennio prima che partisse il trend dei tempi più recenti (Lord of chaos, The dirt, Bohemian Rhapsody), in cui il titolo fa riferimento a She’s lost control, il brano dei Joy Division con cui Ian Curtis racconta della crisi epilettica di una sua conoscente, prefigurando il male esistenziale che lo avrebbe attanagliato di lì a breve.

    Control è un biopic sui Joy Division ma è soprattutto incentrato sulla figura di Curtis, figura di culto della scena dark e anima tormentata per eccellenza: diviso tra mille contraddizioni, dedito con abnegazione alla band che amava, colto, amante del  cinema e del punk, lacerato tra due amori che sembrano egualmente impossibili. Ne viene fuori un ritratto da anti-eroe sublime quanto sofferto. Un personaggio nel quale, soprattutto da fan della band, sarà impossibile non identificarsi,  e che trasmette un convulso flusso di coscienza (affidato al suo personaggio che, in molti casi, scrive i propri pensieri), intervallato tra stati depressivi ed epilettici che lo accompagnarono per tutta la vita. La perdita del controllo sarà anche ciò che ne determinerà la prematura scomparsa, per suicidio, a soli ventitrè anni. Secondo il film Curtis concluse la propria esistenza guardando La ballata di Stroszek di Werner Herzog e ascoltando l’album The Idiot di Iggy Pop.

    Concepito inizialmente come una trama da sviluppare in flashback, si stabilì  durante le riprese di seguire linearmente la vita del cantante dei Joy Division, dalle origini fino alla caduta. Scelta saggia, perchè in questa veste il film assume quasi il tono di un documentario romanzato, senza cedere alla tentazione di introdurre elementi falsificati o teatraleggianti tipici di certi biopic, così come dettagli autoindulgenti o trasgressione fine a se stessa. Una scelta saggia, che restituisce l’immagine di uno degi musicisti più influenti di tutti i tempi – che avrebbe meritato più spazio e copertura mediatica fin dall’inizio (e lo scriviamo convintamente e senza retorica). Un film che ci lascia con una sequenza da brividi, quella finale, che racconta la fine della vita di Curtis con la stessa grazia, disperazione ed introversione che lo caratterizzarono (oltre che sulle note della splendida Atmosphere).

    Control è il sorprendente debutto alla regia di Anton Corbjin, fotografo e regista olandese divenuto celebre per questo film e molto noto, peraltro, come regista di videoclip (Metallica, Nirvana, Depeche Mode tra gli altri). Girato inizialmente a colori e poi virato sul bianco e nero per conferirgli un tono più cupo, che il regista paragonò a quello ottenibile con il Super-8 in 35mm. Riley, scelto come protagonista nei panni di Ian Curtis, non era nuovo alle esperienze prettamente musicali, essendo stato leader dei 10.000 Things (con cui pubblicò anche un album, etichetta Polydor, nel 2005). Stando all’attrice che interpreta la moglie di Curtis (Samantha Morton), per fare questo film il regista si indebitò fino all’osso, arrivando a mettere in pegno la propria casa. Scommessa vinta, a quanto sembra,dato che il film incassò 8.9 milioni di dollari al botteghino.

    La poesia che viene recitata nel film prima del primo live dei Joy Division, per la cronaca, è di John Cooper Clarke, poeta inglese molto connesso con la scena punk dell’epoca. Per interpretare la parte del chitarrista della band Bernard Sumner, inoltre, James Anthony Pearson imparò realmente a suonare la chitarra in circa due mesi.

    Il film è interessante per lo sviluppo lineare, mai inutilmente appesantito a livello narrativo (e anzi condito da una vaga forma di humour sarcastico, quanto imprevedibile, in alcuni passaggi), e per la scelta di ricostruire episodi realmente avvenuti nella biografia della band: la prima apparizione con Tony Wilson, ad esempio, nel programma Granada Reports, che viene riprodotta piuttosto fedelmente rispetto all’originale, per quanto il brano eseguito nel programma sia Transmission mentre quello suonato nel film sia, invece, Shadowplay.

    Grande importanza è giustamente relegata, inoltre, alla figura di Annik Honoré, la giornalista belga in relazione sentimentale con Curtis, storicamente molto legata alla sua fama e scomparsa nel 2014. Il brano Love Will Tear Us Apart nel film, peraltro, viene associato al dolore di Curtis perchè sente di non amare più la moglie, ma sembra è altrettanto plausibile che sia stata ispirata alla Honorè.

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