POLITICA_ (39 articoli)

  • The imitation game è il film su Alan Turing che appassiona e commuove ancora oggi

    The imitation game è il film su Alan Turing che appassiona e commuove ancora oggi

    Alan Turing tenta di decifrare il funzionamento della macchina crittografica tedesca Enigma, con l’aiuto di un team di altri matematici. “The Imitation Game” è un film del 2014 che racconta la storia di Alan Turing, un matematico britannico che ha svolto un ruolo fondamentale nella decrittazione del codice Enigma tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

    In breve. La vera storia (sia pur romanzata, per certi tratti) del crittografo e matematico Alan Turing, considerato il padre putativo dell’informatica, e le cui speculazioni avvenieristiche sulla omonima “macchina” sopravvivono ancora oggi alla prova del tempo. Grazie al suo lavoro, il dispositivo elettromeccanico Enigma usato dai nazisti venne decifrato, impedendo di fatto il prolungamento della seconda guerra mondiale. Quale grottesco paradosso e tragico contrappasso, Turing venne condannato per omosessualità dal proprio governo, finendo suicida i propri giorni.

    Alan Turing, classe 1912, considerato uno dei padri dell’informatica nonchè matematico e crittografo tra i più celebri di ogni tempo: grazie ai suoi studi pioneristici sulla decifratura della macchina Enigma (un dispositivo elettromeccanico usato dai nazisti per trasmettere e ricevere messaggi) fu possibile anticipare la chiusura della seconda guerra mondiale. Non solo: la sua macchina di Turing, uno splendido quanto inossidabile modello teorico di dispositivo informatico, un archetipo su cui si può risolvere un problema di decisione di Hilbert e su cui, alla lunga, hanno finito per basarsi gli algoritmi che tutti conosciamo ed utilizziamo.

    All’epoca in cui è ambientato il film (che è un biopic in cui meno la metà degli avvenimenti – precisamente il 42,3% – è realmente accaduto, come studiato accuratamente dal sito informationisbeatiful.net), la parola ‘computer’ era un aggettivo riferibile ad una persona, non un dispositivo univoco come sarebbe avvenuto soltanto anni dopo. Alan Turing viene mostrato come personalità complessa e sensibile, appassionato del proprio lavoro oltre che runner ostinato (fatto storicamente accreditato, tanto che riuscì a correre una maratona nel 1946 in sole 2 ore, 46 minuti e 3 secondi). L’interpretazione del protagonista (Benedict Cumberbatch) fu talmente intensa, del resto, nel riprodurre una realtà storica in cui lo scienziato venne prima incensato e poi condannato per omosessualità e probabilmente indotto al suicidio, che l’attore che lo interpretò ammise, a fine delle riprese, di aver avuto una sorta di burnout. Peraltro le responsabilità politiche dell’epoca furono considerevoli nei termini di questa assurda condanna, che portò ad una riabilitazione e una grazia postuma solo nel 2013 non prima di averne ufficializzato la natura omofobica.

    L’unica persona che dovrebbe perdonare qualcuno è proprio Turing. Spero che il film possa portare alla luce quanto straordinario sia stato come persona, e quanto sia stato spaventosamente trattato dal governo dell’epoca. È stata una pagina vergognosa della nostra storia (Benedict Cumberbatch)

    The imitation game è diretto da una regia solida ed efficace (il norvegese Morten Tyldum), ruotando sul ruolo del protagonista mentre lavora in team (molto prima, in effetti, che farlo diventasse una moda effimera da startupper) alla ricerca delle chiavi crittografiche di Enigma, ricerca che lo scienziato cerca di automatizzare. Il limite del film è ovviamente nei suoi aspetti romanzati, che sembrano voler iper-personalizzare la vicenda umana mettendo in quasi in secondo piano l’ingiustizia politica e sociale nonchè le responsabilità del governo dell’epoca. Farne un film politico, del resto, sarebbe stato meno emozionale e quasi fuori tempo massimo, data la riabilitazione del personaggio Turing in tempi recenti, sia pur dopo molti anni dal tragico accaduto. Il Turing di Cumberbatch è l’archetipo del genio discreto, incompreso e valorizzato solo dai posteri, ai quali tocca l’ardua sentenza di giudicarne i meriti, nello specifico mediante un biopic sceneggiato sulla base del libro di Andrew Hodges Alan Turing, storia di un enigma.

    Non era agevole realizzare un film del genere senza romanzare le relazioni tra i personaggi, e molto di questo feeling umanizzato passa dal personaggio di Joan Elisabeth Lowther Clarke, personaggio realmente esistito e crittografa che sostiene il protagonista nei momenti più bui (interpretata da Keira Knightley). Dopo il successo dell’operazione Enigma, dopo aver superato mille diffidenze sulla propria scienza e coscienza, dopo essere stato eletto membro della Royal Society, avviene il breakdown: nel 1952 Turing viene additato dalle autorità come criminale, per via della propria omosessualità e nell’estremo paradosso di aver lottato contro i nazisti, ritrovandosi sulla gogna di un tribunale quasi equivalente a quello tedesco dell’epoca. Stando alla ricostruzione ufficiale, Turing morì nel proprio letto a soli 41 anni ingerendo una mela al cianuro, per quanto all’epoca il suicidio non venne neanche ufficialmente riconosciuto dalle autorità. Il suo modello di macchina di Turing ed il suo articolo pioneristico Computer machinery and intelligence del 1954 sono, ancora oggi, modelli riveriti e rispettati dai fatti per quello che riguarda la scienza informatica come la conosciamo e la utilizziamo ai giorni nostri.

    Il film The imitation game , uscito nel 2014, è disponibile in streaming gratuito su RaiPlay fino a fine 2021, e viene periodicamente trasmesso in TV.

    Di che parla il film?

    “The Imitation Game” è un film del 2014 diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. Il film si concentra sulla vita di Alan Turing, un matematico britannico noto per il suo contributo fondamentale alla decrittazione del codice Enigma durante la Seconda Guerra Mondiale. Il titolo del film, “The Imitation Game” (in italiano, “Il gioco dell’imitazione”), si riferisce al concetto centrale del film: la ricerca di Turing per creare una macchina che possa imitare il pensiero umano, una macchina che alla fine è diventata il precursore dei computer moderni.

    Il film esplora anche la difficile vita personale di Turing, incluso il suo status di omosessuale in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito. La sua storia è quindi un racconto sia di genio matematico che di lotta contro la discriminazione e l’intolleranza. L’opera è stata ben accolto dalla critica ed è stato candidato a diversi premi, vincendo l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 2015. Benedict Cumberbatch ha interpretato il ruolo di Alan Turing, e il suo lavoro è stato più volte elogiato per la sua interpretazione del personaggio.

    Ecco una panoramica della trama, del cast, di alcune curiosità e della produzione del film:

    Trama: Il film è incentrato sulla vita di Alan Turing, interpretato da Benedict Cumberbatch, dalla sua infanzia fino alla sua carriera adulta. La narrazione salta avanti e indietro nel tempo, mostrando i momenti chiave della sua vita. Gran parte della trama si concentra sulla sua esperienza lavorativa durante la guerra, quando è stato incaricato di decifrare il codice Enigma, una macchina crittografica tedesca considerata inarrivabile. Turing si unisce a un gruppo di matematici e crittografi a Bletchley Park, inclusa Joan Clarke (interpretata da Keira Knightley), per lavorare al progetto.

    Mentre lavorano contro il tempo e l’ostilità dei superiori militari, Turing e il suo team cercano di risolvere l’Enigma. Nel frattempo, il film esplora anche il passato di Turing, inclusa la sua difficile infanzia e il suo rapporto con la sua sessualità, che in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito, ha avuto gravi conseguenze sulla sua vita.

    Cast principale:

    • Benedict Cumberbatch come Alan Turing
    • Keira Knightley come Joan Clarke
    • Matthew Goode come Hugh Alexander
    • Rory Kinnear come detective Nock
    • Charles Dance come comandante Denniston
    • Mark Strong come Stewart Menzies

    Curiosità:

    • Il film è basato sulla biografia di Alan Turing, “Alan Turing: The Enigma” scritta da Andrew Hodges.
    • Benedict Cumberbatch ha ricevuto una nomination all’Oscar per la sua interpretazione di Alan Turing.
    • Il titolo “The Imitation Game” si riferisce al concetto centrale del film: la creazione di una macchina che può imitare il pensiero umano.
    • Alan Turing è considerato uno dei padri fondatori dell’informatica e della scienza dei computer, e la sua macchina Turing è un precursore dei computer moderni.
    • Il film esplora il trattamento ingiusto e discriminatorio che Turing ha subito a causa della sua omosessualità, e ha contribuito a sollevare l’attenzione sull’ingiustizia subita da Turing e da altri a causa delle leggi contro l’omosessualità nel Regno Unito.

    Produzione: Il film è stato diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. È stato girato principalmente nel Regno Unito, tra cui Bletchley Park, il luogo storico in cui Turing e il suo team lavoravano per decifrare l’Enigma. “The Imitation Game” ha ricevuto recensioni positive da parte della critica ed è stato un successo al botteghino. Ha anche vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

  • La proprietà non è più un furto: il film più sperimentale di Elio Petri

    Il 19 ottobre 1973 uscì un articolo su La Stampa dal titolo inequivocabile: Sequestrato a Genova la ‘proprietà’ di Petri, con riferimento al film di Petri che era uscito nelle sale appena 16 giorni prima. Le accuse erano di oltraggio al pudore: produzione e regia rifiutarono di apportare tagli ai contenuti della pellicola, per cui lo stesso uscì uncut vietato a minori di 18 anni, un divieto che oggi probabilmente si capisce poco e che lo declassa, molto ingiustamente, ad un film pornografico qualsiasi. Per inciso, a Berlino nello stesso il film venne premiato (Official Selection del Berlin Film Festival), e si tratta di un film rimasto nella memoria sia per il ruolo di molti caratteristi che, soprattutto,  per via dell’apparato ideologico che viene messo in discussione.

    Film simbolico e di concetto, La proprietà non è più un furto non è considerato il miglior film in assoluto di Elio Petri, per quanto sia sicuramente uno dei lavori più complessi ed interessanti mai realizzato dal regista. Molti concetti e stilemi registici derivano direttamente da Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, anche se il focus è in questo caso incentrato su tipi umani o sociali, non tanto su personaggi politici come nel film appena citato. È una storia di ossessione, avidità, persecuzione e sublimazione di questi stessi sentimenti, in cui quello che inquieta è duplice: ciò che vediamo fare ai personaggi, ma anche ciò che gli stessi “confessano”, meta-cinematograficamente, agli spettatori. Il cinema di Petri rimane comunque archetipico, ovvero gioca la propria essenza sulla caratterizzazione di esseri umani, quasi tutti avidi o spregevoli: l’idea è quella di favorire l’immedesimazione per poi accentuare il distanziamento da parte del pubblico, probabilmente. Sfruttando la fotografia oscura e teatraleggiante di Luigi Kuveiller, la trovata più clamorosa della sceneggiatura è quella di intervallare la storia con dei monologhi dei vari protagonisti, che commentano ciò che fanno invitando il pubblico, nel frattempo, a farsi due domande.

    L’intreccio è molto semplice e racconta di un giovane impiegato in banca (Flavio Bucci), affetto da una singolare (ed estremamente simbolica) allergia da contatto alle banconote. L’uomo è anche affetto inoltre da una patologia nevrotica, tanto da essere ossessionato da un cliente della sua stessa banca, un macellaio (Ugo Tognazzi), che ogni giorno deposita svariati milioni in contanti. Un giorno il protagonista assiste ad una rapina e, da allora, si licenzia, e sviluppa una sorta di avversione al denaro ancora più marcata: al tempo stesso, diventa morbosamente incuriosito dal furto, oltre che dalle modalità poco trasparenti utilizzate dal macellaio per guadagnare, che infatti inizia a perseguitare. Il suo monologo iniziale è emblematico in tal senso, e si rivolge – come i monologhi di tutti gli altri personaggi – direttamente al pubblico del cinema: e il punto chiave è proprio legato alla ricerca spasmodica del denaro, in una lotta interiore che non può che provocare insoddisfazione e frustrazione perenne.

    Io, ragionier Total, non sono diverso da voi, né voi siete diversi da me; siamo uguali nei bisogni, diseguali nel loro soddisfacimento. Io so che non potrò mai avere nulla più di quanto oggi ho, fino alla morte. Ma nessuno di voi potrà avere nulla più di quanto ha. Certamente molti di voi avranno più di me, come tanti hanno meno. E nella lotta legale o illegale per ottenere ciò che non abbiamo molti si ammalano di mali vergognosi.

    La “trilogia della nevrosi” di Elio Petri include questo titolo, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso. Al netto della lunghezza e della diluizione della trama (circa due ore di film), l’intreccio riesce comunque ad accattivare perchè vediamo Total, anonimo impiegato in cui è facile immedesimarsi, interessarsi progressivamente al mondo del furto, fino a rubare alcuni documenti alla polizia pur di trovare i recapiti di uno dei ladri più ricercati della città, ed imparare qualcosa da lui. L’uomo si autodefinisce marxista-mandrakista, che è una classificazione geniale quanto grottesca, forse poco percepita dalla critica dell’epoca: è un marxista letterale, nel senso di amante dell’esproprio proletario, ma è anche un mandrakista perchè vorrebbe saper emulare le magagne che hanno portato il macellaio (ed altri personaggi come lui) ad arricchirsi indebitamente. Le sue tendenze, pertanto, sono doppiamente tragiche perchè doppiamente anti-sociali, ed è questa l’idea del film che Petri intendeva, molto probabilmente, anche quando diceva che questo film fosse incentrato sulla nascita della disperazione in seno alla sinistra. La proprietà non è più un furto racconta provocatoriamente la crisi di una società in cui, di fatto, il capitalismo stava prendendo il sopravvento e, già all’epoca, si avvertiva che certi discorsi orientati sul sociale sarebbero stati declassificati e sviliti dall’andazzo generale di una società corrotta all’osso.

    Total è il simbolo degli oppressi, gli stessi oppressi che avrebbero voluto espropriare i beni ai padroni che li sfruttano, ma è mosso da un’invidia sociale che non lo rende affatto scontato o didascalico, come protagonista: come sempre nelle sceneggiature di Petri, infatti, non esistono buoni e cattivi in modo netto, ed i personaggi apparentemente più epici diventano inesorabilmente anti-eroi. Total, peraltro, non è ossessionato dal denaro in quanto tale: è turbato dal non avere il possesso dello stesso, dal non essere un capitalista, dal non avere una donna “acquistabile” che a sua volta possa sfruttarlo. La negazione ossessiva del piacere, ed il conseguente innegabile feticismo del suo personaggio, peraltro, è sviluppato molto chiaramente durante il primo furto che effettua nella casa del macellaio: lo vediamo portare via esclusivamente gioielli, lasciare il denaro e, soprattutto, constatare che tutte le volte che possiede un contatto con Anita non la possiede mai carnalmente, bensì la sublima per poi disprezzarla (la sequenza in cui la costringe a stare nuda a letto, immobile, per poi mandarla via). C’è molta psicologia non ovvia nel suo comportamento, a mio avviso, e qui Petri ha sfruttato complesse simbologie grottesche che si potrebbero paragonare allo stile usato, ad esempio, dal surrealismo di Lynch negli anni a venire, e probabilmente era anche normale che non tutti le apprezzassero. Di fatto, è anche uno dei film più sperimentali mai girati dal regista, ed è questo ad impreziosirlo e a spingermi ad una sostanziale rivalutazione, proprio perchè si tratta di un film che si presta a svariate letture, e non necessariamente di natura politica, in fin dei conti.

    È singolare, a mio avviso, che questo film sia considerato dalla critica il più debole della trilogia, anche perchè le scelte stilistiche di affidarsi a monologhi (che, come una commedia grottesca dell’arte, si rivolgono spesso e volentieri al pubblico) sono sempre funzionali e mai didascaliche. Come al solito, inoltre, la scelta degli interpreti non è casuale, ed è estremamente incisiva: Ugo Tognazzi (cinico ed egoista, per quanto il ruolo del suo personaggio fosse stato probabilmente pensato per Gian Maria Volontè, il quale per dissidi con Petri non collaborò a questo film), Flavio Bucci (abile nel caratterizzare un insospettabile “ladro in erba” ossessionato feticisticamente dal marxismo e dal furto in quanto tale), Daria Nicolodi (nell’insolito, per lei, ruolo di femme fatale, superficiale quanto subdola), Orazio Orlando (che interpreta un brigadiere giustamente sospettoso, dai modi rudi quanto impotente nel risolvere le ingiustizie). Ne esce fuori un quadretto desolante della società italiana, in cui questi personaggi interagiscono tra loro in un gioco di convenienze, opportunismo e feticismo degno di un mondo sempre più alla deriva, sul quale Petri si mostra ancora una volta molto pessimista.

    Nonostante questo, e nonostante una complessità sociale tutt’altro che banale in ballo, il film generalmente non piacque. Probabilmente la critica non riuscì ad accettare il ruolo del malvagio co-protagonista affidato a Tognazzi (che generalmente era associato a ruoli comici), non accettò il personaggio di Anita (che è l’emblema della donna che si fa comprare o sfruttare sessualmente, paragonandosi ad una macchina nelle mani di operaio: una metafora che oggi, forse, è meno incisiva di quanto non fosse all’epoca, ma – contestualizzando all’epoca ai noti problemi di sfruttamento, danni fisici e psicologici ed alienazione degli operai – Petri colpì profondamente nel segno), non accettò probabilmente l’impostazione da teatro dell’assurdo che Petri conferisce al film, soprattutto nell’enigmatica frase finale del padre di Total, che alla fine compare su un’altalena pronunciando la frase

    Mio figlio era come un padre per me.

    Questa globale non accettazione, di fatto, è la stessa che frustra Total nella sua ricerca spasmodica del materiale, nel suo desiderio perennemente frustrato; ed è proprio qui, forse, che emerge la grandezza dell’opera. Il film è disponibile gratuitamente in streaming su RaiPlay oltre che su Prime Video.

  • Il moralista: Alberto Sordi è l’irreprensibile Agostino

    Alberto Sordi interpreta un irreprensibile (solo in apparenza) segretario dell’Ufficio Internazionale della Moralità, un puritano ed intransigente personaggio che fa chiudere locali, censura pubblicità e non transige sul proprio dovere di censore.

    Affidato all’intepretazione del colossale trio Vittorio De Sica, Franca Valeri e Alberto Sordi nei panni dell’apparentemente irreprensibile moralista, si tratta di una commedia sostanzialmente gradevole, giocata sui toni di attrazione-repulsione dal variegato ed estensivo – per così dire – mondo del vizio. Chiunque provi a convincere o corrompere il protagonista, di fatto, finisce per prendere simboliche sportellate in faccia, finchè la figlia del presidente a cui Agostino è sottoposto, con il suo comportamento più disinvolto, finirà per far svelare vari, imprevedibili altarini.

    Giorgio Bianchi dirige un film molto semplice e diretto nel suo concepimento, ma che non risulta neanche troppo datato – nonostante sia del 1959. Scomoda peraltro un tema molto attuale e controverso fino ai giorni nostri, che è relativo ai paradossi della censura di ogni ordine e grado, in cui un’autorità finisce per applicare un criterio arbitrario (quelle censure, viste oggi, fanno ancora più sorridere) per decidere chi debba vedere cosa. Ogni epoca ha avuto i suoi, senza dubbio, ed è magistrale in tale senso – ad esempio – la parodizzazione dello strip tease, formalmente combattuto da Agostino, il quale poi prova ad esibirsi in una sua (improbabile) riproduzione dal vivo. Per poi, naturalmente, andare a vedersene uno, alternando espressioni di biasimo e di godimento semplicemente da manuale.

    Se svetta per eccellenza l’interpretazione di Sordi, irresistibile nei suoi sguardi giudicanti, il resto della commedia si caratterizza con siparietti consecutivi di ogni genere, che sono commedia pura e cristallina, quasi tutti di natura elegante quanto allusiva – oltre che giocati sul tema evergreen contrasto tra le vecchie e le nuove generazioni. Alla base dell’avversione di Agostino, peraltro, vi è uno specifico trauma che non è mai stato superato, e che rende la trama ancora più divertente quanto, per certi versi, prevedibile. L’unico problema del film è che, di fatto, sembra tirato un po’ troppo per le lunghe: non sarà un capolavoro ma, visto oggi, è sicuramente da riscoprire.

    Che faccio, chiamo ‘e guardie?

  • Nonostante le apparenze e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne: il Fulci satirico anni 70

    Feroce commedia satirica del regista romano, che narra la storia di un politico italiano piuttosto famoso, vicinissimo alla presidenza della repubblica, follemente erotomane ma apparentemente irreprensibile. Chi vi ricorda? Sia chiaro che ogni riferimento è puramente casuale, come viene specificato poco dopo la comparsa del titolo chilometrico. Al di là di alcuni dettagli, qualcuno parlerebbe seriamente di un’incredibile coincidenza, o di una pazzesca profezia, su un certo andazzo della politica italiana odierna.

    In breve. Uno spaccato sarcastico del Parlamento all’italiana, visto dall’occhio del regista forse più anarchico del cinema di genere nostrano. Con le dovute proporzioni e precisazioni, è una versione grottesca e scollacciata  del celebre “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto“, priva ovviamente di attori del calibro di Volontè. Il messaggio sociale è fin troppo chiaro, bisogna fare tabula rasa e rifondare la politica: non c’è la poetica sottile di Petri, ma colpisce nel modo giusto ugualmente, tanto che venne sequestrato per oscenità e censurato.

    Il Fulci più (anti)politico di sempre inserisce Lando Buzzanca come protagonista, e secondo alcuni vorrebbe riferirsi all’allora presidente Emilio Colombo, esponente della DC. Sceneggiato da Ottavio Jemma assieme al regista, narra la storia di tale Giacinto Puppis, un economista cresciuto con educazione rigidamente cattolica, apparentemente casto e religioso, erotomane incallito. Girando per le strade di Roma è attratto morbosamente dai fondoschiena femminili, vede donne nude in ogni dove, ha continui sogni di natura sessuale,  ed arriva a far fare una figuraccia alla nazione per via di un video in cui sono stati ripresi i suoi palpeggiamenti ai danni della presidente di uno stato estero.

    Puppis presto viene ricattato, e si scoprirà che è solamente un burattino: mentre il buon amico padre Luciòn cerca in ogni modo di farlo guarire dai suoi raptus erotici, il cardinale Maravidi spinge perchè diventi Presidente della Repubblica, e la chiesa possa così influenzarne l’operato. Per ritrovare se stesso il frate lo porta in convento, sotto le cure di un monaco tedesco e di alcune giovani suore, ma l’unico risultato sarà che, in una notte di passione, finirà a letto con quasi ognuna di loro. Imperdibili i siparietti del candidato rivale Torsello, le battute miratissime e fieramente anti-politiche, le spassose allucinazioni erotiche di Puppis (girate con stile quasi felliniano) e la chicca finale: il cardinale che parla in siciliano come se fosse “Il Padrino“, mentre i boss si rivolgono a lui come dei semplici picciotti.

    Forse il film calca troppo la mano sull’aspetto da puro b-movie, con tutte le esagerazioni del caso, ma complessivamente il messaggio sovversivo resta intatto. Un Fulci anarcoide, che si fida poco della politica e ancor meno del Vaticano, rappresentato come una forza collusa e tendente all’eversione per sua stessa natura. A fare scandalo non furono, in effetti, le scene erotiche accennate o le grazie della Antonelli in vista parziale, quanto l’idea che alcune rappresentazioni fossero destabilizzanti per l’immagine della DC dell’epoca (e, a quanto pare, vennero rimosse del tutto pur rimanendo nella sceneggiatura).

    Da vedere, anche solo per ridere di gusto e cogliere alcuni inquientanti parallelismi con la storia recente.

  • Essi vivono: tra materialismo, fanta-politica e complottismo

    L’operaio John Nada trova casualmente degli strani occhiali da sole, che gli fanno vedere le cose come non le aveva mai viste prima.

    In breve. Un cult di fantascienza del sottogenere fanta-politico, ad oggi più discusso che visto. Imperdibile.

    Durante una delle primissime proiezioni di Essi vivono, Carpenter fu colpito dalla reazione di un ragazzino americano che ero uscito dalla sala deluso e disorientato. Come se il film non fosse ciò che si aspettava, come se l’avesse colpito e irritato. Cresciuto probabilmente con film tipo Rambo, non è difficile immaginare questo giovane anni 80 pienodi  aspettative autoreferenziali ed entusiastiche (IMDB riporta aspettative jingoistic e rah-rah, a riguardo: ovvero con la convinzione che il tuo paese sia sempre il migliore, e con atteggiamento entusiastico a prescindere). Convinzioni che sbattono brutalmente sull’impianto rivoluzionario, disilluso e nichilistico del film, erede sostanziale della fantascienza modello L’invasione degli ultracorpi. Un film che costò 4 milioni di dollari dell’epoca, e che esordì al primo posto al botteghino.

    Essi vivono è un cult di fantascienza più di concetto che di narrazione, basato su un dualismo tipico del genere: la realtà è ciò che è, oppure ciò che sembra? Viviamo all’interno di un mondo in cui è possibile intervenire e migliorare gli aspetti delle cose, oppure si tratta di un gigantesco videogame in cui stiamo facendo divertire un Grande Altro, che gode nel darci imposizioni assurde? Esiste o no, alla fine, una possibilità di riscatto?

    Un tema certamente non nuovo per il genere, che il nostro Carpenter dirige in modo rivoluzionario, mostrando l’America delle apparenze, della ricchezza, dell’eterna giovinezza, contrapponendola a quella povera e sfruttata del popolo degli emarginati, realizzando così dei capolavori di culto della sua cinematografia. Un film che si ispira al misconosciuto racconto breve “Eight O’Clock in the Morning“, di Ray Nelson, classe 1931 e scomparso nel 2022. La trama del racconto originale rimane ambigua: da un lato sembra che il protagonista abbia realmente scoperto un segreto raggelante, e che il mondo si sia disvelato come puro inganno, dall’altro (come di consueto) il lettore è lasciato al dubbio: il protagonista forse si sentiva circondato da alieni per via di uno stato paranoico prolungato o esasperante. Carpenter del resto dirige in modo autenticamente socialista, dato che prende dalla strada numerosi senza tetto e gli assegna parti minori, fornendo loro cibo e stipendio per il periodo della produzione. La tagline comparsa sulla locandine era esplicita: Li vedi per strada. Li vedi in TV. Potresti anche votarne uno, questo autunno. Pensi che siano persone come te. Ti sbagli. Mortalmente. La chiave di lettura più diffusa è ovviamente in chiave marxista, per quanto il film si sia prestato a vari tipi di cooptazioni che risulterebbero, alla lunga, più forzature che altro.

    La chiave di lettura attuale di Essi vivono potrebbe anche essere diversa da quella del 1988, anno in cui uscì: le scelte di Carpenter furono politiche, facevano parte di un contesto con pretese sociologiche, per cui la regia voleva criticare il capitalismo americano usando personaggi allegorici. Gli alieni sono tra noi, il capitale ci controlla, il capitale decide come vivere, impone lo status quo, instaura alleanze e relazioni sociali, fa guadagnare e perdere posti di lavoro. Oltre all’attacco in chiave anti-capitalistica che lo rende un film sostanzialmente impegnato (e ciò ha delle conseguenze notevoli, perchè tutti, da destra a sinistra, hanno usato questo film per fargli dire cose che non sempre aveva detto), non manca il riferimento all’ennesima apocalittica epidemia di violenza urbana, ed alla pessimistica sociologia che sarà poi ampliata nel capolavoro “Il seme della follia“, di cui l’opera potrebbe considerarsi in parte anticipatrice.

    Ma c’è di più: una volta liberato il film delle sue pretese di stampo anarchico e/o marxista, probabilmente con il pretesto del superamento delle stesse, della loro presunta vetustità o magari in nomen dell’attività preferita dal liberismo (fagocitare tutto ciò che gli è estraneo, operando la presunta e grottesca cancel culture che lo stesso usa come argomento dell’uomo di paglia), Essi vivono diventa Il film complottista per eccellenza. Complottista e conservatore, precisamente, in opposizione allo stesso regista che è sempre stato di tutt’altra idea politica. Piaccia o meno, oggi sembra essere così. Basterebbe leggere i commenti Youtube ai suoi vari spezzoni per capacitarsene, tra le ostentate convinzioni di chi li ha scritti e si da’ ragione a vicenda, con la stessa sicumera di un prete che accusa gli uomini di aver trovato un nuovo Dio negli alieni. Non saremmo così sicuri della correttezza della cosa.

    Non per altro, ma sarebbe come pensare che Zombi sia un mero horror voodoo (e non come si dovrebbe, ovvero un horror sociale drammatico, nichilista e struggente). Il puro riduzionismo fa danni, e prima ce ne capacitiamo, meglio è. Il riduzionismo all’osso è tipico del web, del resto, e non potrebbe mai cogliere certe sfumature di Essi vivono, per quanto faccia ancora sorridere i cinefili dell’era internet e produca le convulsioni a complottisti di  ogni ordine e grado, convinti o meno, adepti o occasionali, da tastiera o da divano, di destra e di sinistra – nella pura essenza trasversale o diagonalista che attraversa queste tematiche.

    Sì, perchè se il film Essi vivono voleva essere una critica di sinistra ad un mondo che stava già iniziando ad impazzire a fine anni 80, sarebbe il caso di provare a non perdere di vista questa, come essenza. Altrimenti rischiamo di precipitare in un baratro di inerzia culturale e di paranoia fuori contesto, che serve a pochissimo e che paradossalmente potrebbe produrre sulla realtà lo stesso risultato prefigurato (e temuto) da Carpenter.

    John Nada (interpretato dal wrestler “Roddy Piper” / Roderick Toombs, che realizza un’interpretazione monocorde che risulta efficace, nel contesto) è un uomo della classe operaia: solo e disorientato, si aggira in una metropoli sul finire degli anni 80. Un ruolo che Roddy Piper non faticò ad interpretare, essendo parte del proprio vissuto e che fu in parte esperienza dolorosa quanto rievocativa. John ha appena perso il lavoro a causa delle speculazioni dei broker: durante il suo girovagare senza meta (la città è Los Angeles, la stessa in cui – stando a Friedkin – si può vivere e si può morire) incontra l’ex collega Frank (interpretato da Keith David), il quale ha vissuto una situazione simile alla sua. L’uomo solidarizza e gli propone di farsi ospitare nella sua piccola comunità di periferia, in attesa di tempi migliori. Assunto in seguito come operaio in un cantiere, viene accolto benevolmente, quanto invitato a farsi gli affari propri riguardo ad un misterioso “giro” nonchè alla trasmissione pirata di alcuni comunicati, di natura anti-consumistica, da parte del prete di una chiesa locale.

    Dopo lo sgombero della comunità da parte della polizia, John trova una scatola piena di occhiali da sole (realizzati proprio da quella comunità), e si accorge che gli fanno vedere la realtà per quella che è: al netto delle apparenze festose e rassicuranti, è piena di messaggi subliminali che incitano all’omologazione. Al tempo stesso, la gran parte delle persone più in vista e rispettabili appaiono, attraverso gli occhiali, come una sorta di mostruosi alieni. Gli esseri sembrano essere in combutta per controllare l’umanità, e solo grazie alla presa di coscienza dei due operai si riuscirà a rivelare universalmente la verità in un finale grottesco. Senza dimenticare una ulteriore perla meta-filmica: durante le conformistiche trasmissioni TV finali dei commentatori alieni, un lungo sermone contro sesso e violenza nei media finisce con la frase: “Cineasti come George A. Romero e John Carpenter dovrebbero mostrare un po’ di moderazione“.

    Qualcuno non ha saputo leggere l’ironia finale un po’ demodè, fin troppi ne hanno criticato l’inconsistenza senza scomodarsi neanche di guardarlo con attenzione, molti altri (specialmente il vituperato popolo del web) hanno interpretato letteralmente lo spirito del film, al fine di auto-alimentare fantasie dietrologiche (in quest’ottica questo film proporrebbe una possibilità che poi si ricondurrebbe alle teorie del complotto promosse da David Icke sui rettiliani, ma che in realtà potrebbero anche fare capo all’idea fondante del racconto da cui è tratto, Eight O’Clock in the Morning), qualcun altro ancora nel vederlo ha sbadigliato: “Essi vivono” sarebbe per loro un film trash, scialbo, noioso, vagamente originale quanto irritante nella sua supponenza di voler dire tutto, di voler spiegare il mondo. Del resto solo i film post-apocalittici riescono a spiegare in modo chiaro dove andremo a finire, signora mia.

    “Obbedite. Sposatevi e prolificate. Non pensate in modo indipendente. Spendete. Lasciatevi cullare dal benessere. Guardate la TV. Sottomettetevi. Non fate domande all’autorità. Uccidete la fantasia. “

    Nessuna di queste ipotesi è a nostro avviso totalmente plausibile, nè rigorosa: per capire davvero Essi vivono serve un ritorno alle origini. Si tratta di un horror fantascientifico che si muove sulla falsariga di tutti gli horror di Romero con gli zombi, dove conta più evidenziare il messaggio socio-politico che la sostanza in sè della trama. Fatichiamo a pensare che lo sgombero della comunità non possa avere la stessa valenza del vedere la repressione anarchica della polizia americana all’inizio di Sacco e Vanzetti, ad esempio. Al tempo stesso non possiamo limitarci a ridurre all’uso degli occhiali rivelatori una dualità del tipo simulazione / realtà: il primo messaggio che Carpenter recapita allo spettatore è che per vedere le cose come stanno bisogna dotarsi della volontà di farlo.

    Là fuori, come vediamo nel film (in modo mutuato da L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, a pensarci bene) la maggioranza delle persone non si pone nemmeno il problema di cosa sia reale e cosa no: tutto è reale, semplicemente, si crede a quello che si vede, veggenti e imbonitori televisivi inclusi. Ma vale la pena provare ad estendere il discorso: gran parte del dibattito su Essi vivono parte da mezze verità ed isola alcuni aspetti della trama rispetto ad altri. Va tenuto in conto che si tratta anche di un film che si legge diversamente in base al periodo in cui si vive, che non è la fine degli anni 80 ma è il mondo digitalizzato in cui ci troviamo.

    Essi vivono è assurdamente diventato un meme, vittima di una reinterpretazione digital che lo ha reso un fenomeno complottista quasi alla pari con Operazione Luna. Non sapremo probabilmente mai quanto Carpenter possa essere d’accordo in merito (pensiamo molto poco), e c’è pure un’intervista recente all’Independent a confermarlo, in cui il regista racconta del suo incontro su Twitter con alcuni complottisti americani:

    L’anno scorso – dice Carpenter – ho avuto a che fare con persone che su Twitter dicevano che Essi vivono parlava di come gli ebrei controllano il mondo. Allora sono intervenuto e ho detto ‘no, no, no’, ma non l’hanno accettato. È stato incredibile. È stato come dire: andiamo ragazzi, non esistono i rettiliani. Queste ipotesi di complotto non sono neanche creative. Sono soltanto sciocchezze. Come potete credere a queste stronzate? È questo che non capisco. L’eredità di Trump, forse? Sì, conclude il regista.

    Le intenzioni di Carpenter non potevano neanche essere quelle di diventare un meme postumo, a ragionarci su, ma serve addirittura citarlo per capacitarci di quanto sia impossibile convincere certi adepti del contrario. Comunque (non) si vogliano fornire chiavi di lettura ci resta un film epico: i dialoghi tra “colletti bianchi” con sembianze di alieni, carichi di pathos grottesco e di considerazioni a volte semplicistiche quanto efficaci, o anche solo l’epica scazzottata tra i due protagonisti (ogni autentico cinefilo dell’era internet passerà almeno una giornata a chiedersi perchè sia stata concepita in quel modo). Vale la pena ricordarne i motivi: la sequenza dura esattamente 5 minuti e 20 secondi, e Carpenter la lasciò intatta perchè rimase colpito dal suo realismo, frutto di una preparazione attoriale di circa tre settimane. Ideata, provata e coordinata nel cortile dell’ufficio di produzione del regista, fu la lotta destinata a passare nella storia del cinema:Nada (Roddy Piper) e Frank (Keith David) battagliano perchè il secondo non vuole guardare in faccia la realtà, e i colpi furono tutti autentici (ad esclusione di quelli all’inguine e al viso).

    Essi vivono resta un cult da contestualizzare nell’epoca in cui uscì, guai – a nostro avviso – a mettere in dubbio questo assunto, o peggio ancora piegarlo ad esigenze di fargli dire cose che non ha mai detto. Un film suggestivo e politicamente schierato, tanto da essere citato tutt’oggi (nel bene o nel male) come come uno dei più famosi Carpenter di ogni tempo e luogo: in effetti suona attualissimo nello scenario attuale, in cui vedere un “Qualcuno” dall’alto che ci impone come vivere, cosa comprare, come vestirci e come comportarci suona addirittura scontato.

    “L’unica cosa che conta è diventare famosa… la gente mi guarda e mi adora. Io non invecchio mai, sono diventata immortale…”

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