POLITICA_ (39 articoli)

  • Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Un gruppo di militari italiani durante la seconda guerra mondiale finisce in un’isola greca, e decide di rimanerci per diversi anni, perdendo ogni contatto con il mondo esterno. Nel frattempo la guerra finisce e il gruppo viene a saperlo solo a cose fatte: non tutti, a quel punto, decideranno di tornare, e chi tornerà non rimarrà pienamente soddisfatto.

    Parlare oggi di un film del genere, uscito nel 1991 e ambientato in piena seconda guerra mondiale – un periodo storico con cui l’Italia non è riuscita a pacificarsi nemmeno oggi, dato che rappresenta una delle memorie storiche più divisive di sempre – è un’operazione tutt’altro che banale. Ne possiamo cedere alla malsana tentazione di considerare Mediterraneo un film romantico o una commedia come tante, a dispetto di alcune locandine che all’epoca forse suggerivano questo, quantomeno a livello iconografico. Certo, l’aspetto relazionale è al centro della trama, e la regia è abile a delinare fin da subito una serie di rapporti e relazioni tra commilitoni puramente umane, in tensione al punto giusto e mai macchiettistiche. Ma il punto del film è la fuga di qualcuno da qualcosa, ed è il tema che attraversa l’intera pellicola.

    Per quanto possa sembrare secondario, in effetti, ciò che fonda Mediterraneo è il saggio Elogio della fuga scritto dal medico e filosofo Henri Laborit, sulle parole del quale si apre il film: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare“. È questo il tema portante del film, e la narrazione vuole sembrare puramente metaforica in tal senso, senza peraltro sforare nel didascalico. Il riferimento è a tutti gli aspetti essenziali della vita umana, che vanno dalla ricerca dell’amore al lavoro che siamo costretti a svolgere per sopravvivere, per i quali la fuga – intesa come necessità di cambiamento – è spesso l’unica via d’uscita possibile.

    I soldati protagonisti non sembrano credere pienamente in ciò che fanno, e progressivamente smantellano le proprie certezze alla ricerca della propria identità di fondo: cosa che alcuni non troveranno mai, o continueranno a cercare, mentre il mondo continuerà a girare a modo proprio e nostro malgrado. Sembra anche interessante notare come si tratti dell’ennesimo film ambientato in un isola deserta, un po’ come travolti da un insolito destino in grande, con la comunanza narrativa di protagonisti che prima sembrano essere nel panico all’idea di restare su un’isola che sembra ostile e scollegata dalla civiltà, salvo poi prenderci gusto e cambiare opinione. In un certo senso Mediterraneo è anche un saggio sul cambiamento d’opinione, sulla modifica di una prospettiva solida o cristallizzata, ed è un film che sa affrontare la tematica del cambiamento politico-sociale con una lucidità che pochi altri possono vantare. Molte sequenze sono peraltro potentissime evocativamente: basti citare quella in cui i militari incontrano lo spacciatore di oppio, lasciandosi andare a considerazioni beffarde contro il regime fascista, facendosi rubare le armi poco dopo, per poi arrivare a concludere che il mondo sarebbe migliore se si trovasse dell’oppio al posto degli arsenali da un giorno all’altro. Siamo nel pieno degli anni Novanta, del resto appena un anno dopo l’uscita di Mediterraneo avremmo scoperto Tangentopoli – neanche il tempo di riprendere fiato dal tragico periodo terroristico. Quello di Salvatores non è un film spezzettabile o “memetico” (visionarlo a spezzoni, come proposte da alcune pagine social di cinema, rischia di essere particolarmente inefficace): va visto dall’inizio alla fine, rinviando ogni considerazione all’ultima, tragica eppure bellissima conclusione del film. E se vi state chiedendo come si inseriscono l’amore in tutto questo e subito detto: l’amore è l’emblema del desiderio, per soddisfare il desiderio bisogna bisogna seguire le linee di fuga, o forse quelli che Deleuze e Guattari chiamavano flussi. Ci attiviamo in base a ciò che viviamo, siamo creature interiormente “situazioniste” e siamo in grado di ricostruire l’esistenza anche da un piccolo villaggio abbandonato, emblema di un paradiso terrestre (oggi devastato dal turismo, sembra suggerire quel meraviglioso finale). Sono insomma i flussi del cambiamento e delle nostre esistenze ad essere in gioco: fanno parte anch’essi della politica (e dello sconforto che ingenera periodicamente), e ci costringono a deviare dai percorsi safe proprio perchè, come suggeriva Laborit, la fuga è anche sinonimo di coraggio.

    A questo punto l’analisi del film potrebbe proseguire dal finale, che ci sentiamo liberi di spoilerare dopo tutti questi anni (chiunque non abbia mai visto Mediterraneo dovrebbe farlo prima di continuare a leggere, in teoria): partiamo dalle parole pronunciate dal personaggio interpretato da Diego Abatantuono (il sergente Lo Russo) il quale, ormai vecchio e disilluso, scopriamo aver abbandonato l’Italia in cui desiderava ardentemente rientrare, il tutto perchè “non me l’hanno fatta cambiare“. Quasi come il soldato sopravvissuto di Nato il quattro luglio, Lo Russo diventa l’emblema di ciò che in Italia non cambia, del favoritismo cristallizzato e del conservatorismo sopravvissuto a due guerre. Perchè nulla non può cambiare, sembra suggerire una sconsolata narrazione, e perchè già nel dopoguerra si era deciso di annettere l’Italia ad una esclusiva e auto-referenziale comfort zone. Ed è riavvolgendo a ritroso il film che ci rendiamo conto in maniera limpida del senso della storia, delle scelte che sono state fatte dai soldati italiani finiti per caso su un’isola (quella di Megisti, nella realtà): dopo aver perso i contatti con il centro di comando, e superato il panico iniziale, si adeguano allo stile di vita posto. Non solo: scoprono usi e tradizioni del posto, fanno nuove amicizie, fanno nascere amori e relazioni che li segneranno.

    Ma i loro sforzi sembrano vanificati dal mondo in cui viviamo, da un lato simboleggiata della morte improvvisa inaspettata dell’ex prostituta che si era sposata con uno di loro (come a dire: nulla dura quanto vorremmo), dall’altro con un’Italia che secondo il regista non cambia non cambierà mai, e che Lo Russo – inizialmente ombroso e ligio al dovere, poi progressivamente più “libertario” – rappresenta come metafora vivente a pieno titolo. Si tratta anche una delle interpretazioni di Diego Abatantuono più lontane dagli stereotipi dei personaggi a cui siamo abituati, e che conferisce un’ulteriore nota di merito ad un lavoro che, per inciso, è stato tratto dal romanzo Sagapò di Renzo Biasion.

    Salvatores è un regista attivo e prolifico anche oggi, peraltro. E tutte le volte che diciamo che il cinema italiano è morto, a questo punto, ci facciamo forse trascinare da un’enfasi astratta, continuiamo a predicare nel deserto che il vero cinema è finito e che ormai vanno di moda solo le commedie. Probabilmente solo quest’ultimo aspetto è vero, ma è anche possibile che si tratti di un riflesso di noi stessi, di ciò che noi vogliamo vedere. Vediamo commedie perchè vogliamo farlo! Del resto, le alternative non mancano.

    Nessuno ci impone di vedere commedie romantiche ad ogni costi, eppure sembra che ogni volta nelle discussioni non si parli d’altro, o peggio ancora, non si voglia parlare d’altro. Questo probabilmente era vero anche nel 1991, anno in cui Salvatores finisce di girare Mediterraneo e lo distribuisce nei cinema (verrà trasmesso in TV alla fine dell’anno successivo), per cui facciamo i conti con questo effetto collaterale ma guardiamo la sostanza, che ci suggerisce che Mediterraneo non è “il” capolavoro ma è sicuramente un gran film. E ciò che rende Mediterraneo una piccola gemm è proprio questo suo porsi in maniera antagonista, come critica sostanziale al mondo in cui viviamo, quasi in senso primitivista, sottendendo che la politica non è un’astrazione, fa parte della vita di ognuno di noi, o se preferite: chi non fa politica, alla fine, semplicemente la subisce.

    L’analisi del film sarebbe incompleta se non citassimo la critica sullo stereotipo sugli “italiani, brava gente” che il film sembra (forse inconsciamente) promulgare: i soldati sono infatti insolitamente buoni, non hanno parvenza da militari indottrinati al fascismmo e, anzi, in molte fasi il film strizza l’occhio allo spettatore puntando sull’empatizzazione – rischiando, secondo alcuni, di sminuire la tragica realtà della Seconda Guerra Mondiale. Da qui a parlare di revisionismo probabilmente ce ne passa, anche solo per la scena dell’oppio di cui dicevamo. L’accusa di revisionismo, in sostanza, è quantomeno rivedibile, anche perchè i presupposti del film suggeriscono che i soldati siano stati abbandonati dall’inizio e che credano molto poco in ciò che fanno (Ci stavano mandando in missione a Megisti, un’isola sperduta nell’Egeo. La più piccola, la più lontana. Importanza strategica: zero. Era una missione OC, di osservazione e collegamento. Eravamo stati incaricati di prendere l’isola e segnalare eventuali avvistamenti. Mi avevano dato un gruppo di uomini presi qua e là. Superstiti di battaglie perse, vagabondi di reggimenti sciolti, un plotone di coscritti, come me, che erano sopravvissuti fino a quel momento per puro caso.“). Senza dimenticare che il tenente si augura di non dover sparare in arrivo nell’isola, ciò dovrebbe ricordare che Mediterraneo non è un film propriamente di guerra, ma ricorda più una via di mezzo tra i toni di Train de vie e (viene in mente) Underground di Emir Kusturica (anche in quel caso si tratta di un gruppo di persone che si isolano durante una guerra, e non vengono a sapere per tempo della sua conclusione). Senza contare la figura quasi mitologica di Corrado, disertore dichiarato (Claudio Bisio), che si allontanerà in barca seguendo, anche qui, il flusso del desiderio che lo caratterizza dall’inizio, e del quale non conosceremo nè l’esito del viaggio nè se sia ancora vivo in seguito. Sembra insomma che, come si diceva all’inizio, il film sia più filosofico che materialistico, e che offra un solido patto regista-spettatore da rispettare.

    Non bisogna dimenticare che la direttiva principale ed il nucleo tematico del film è incentrato sulla fuga, sull’allontanamento volontario dalla comfort zone, utilizzando il linguaggio autentico e privo di fronzoli del cinema nostrano, quello più vicino al cinema verità, quello che rappresenta eroi ben lontani dall’ideale e, in modo forse paradossale, umanamente anti-eroici. Le storie dei soldati sono vicine a quelle che ognuno di noi, nella vita, potrebbe essersi trovato a vivere. Ed è questo che rende totalmente di culto questo film di Salvatores, e mai abbastanza visto e lodato.

  • Salon Kitty: il film erotico più politico che ci sia

    Kitty Schmidt, tenutaria di un bordello berlinese, in occasione dell’inizio della guerra viene costretta dal Reich ad assumere un gruppo di prostitute di fede nazista. L’idea è quella di compromettere i clienti che lo frequentano (ufficiali delle SS) spiandone di nascosto i comportamenti e le affermazioni.

    In breve. Tinto Brass gira un film politico-satirico, anche a costo di attenuare un po’ la componente erotica e quasi nella tradizione di Aristofane: il sesso per mettere in ridicolo (e combattere) il nazismo. Ne risulta un capolavoro assoluto del genere.

    Prima del controverso Caligola, Brass si occupa lucidamente del Potere e delle sue declinazioni, mostrandole come pure perversioni ai danni dei più deboli. Mostrando un Salon Kitty realmente esistito, la storia si sviluppa secondo canoni estetici felliniani, e mostra un’atmosfera festosa, eccessiva, decadente, in cui ogni ufficiale finisce per lasciarsi andare di fronte a fascino delle prostitute, peraltro molto curate dal punto di vista delle movenze e dei costumi.

    Dopo aver consumato sesso in qualsiasi forma e variante immaginabile (viene anche mostrato un ufficiale che si traveste da donna ed un altro che utilizza un pane a forma di fallo), le parole iniziano a pesare sempre di più: le prostitute (in realtà donne selezionate dalle SS su base nazionalistica) raccolgono informazioni sui clienti, stendono rapporti dettagliati ed il regime punisce chiunque venga considerato potenziale disertore, o non abbastanza fedele alla patria. Gli intenti satirici sono lampanti: mostrando il lato sessuale e fisico degli ufficiali (che normalmente vedremmo uccidere e dare ordini in divisa), Brass li riporta (come da tradizione del genere satirico) ad una dimensione umana, tangibile, ed usa questo strumento per mostrarne il degrado.

    La vera storia di ciò che accadeva al Salon Kitty sembra risalire al diario dell’ufficiale Walter Schellenberg (Il labirinto), pubblicato nel 1956, ed al quale seguì un’estensione della storia a cura di Peter Norden nel libro Madam Kitty (1973). Il fatto che il bordello fosse utilizzato come misura di spionaggio per svelare l’identità di ufficiali infedeli al regime, peraltro, è un fatto realmente accaduto nella Germania di quegli anni. Durante la guerra il bordello venne molto frequentato dai nazisti, per poi essere definitivamente abbattuto da un attacco inglese nel 1942. La Schmidt, proprietaria del luogo, non svelò mai l’identità di nessuno dei suoi datori di lavoro, fino alla sua morte (1954).

    Diversamente da altri film di Brass, in cui la componente erotica è schiacciante (tanto da sembrare forzata, in certe circostanze), in questo film è presente quanto misurata: non mancano scene di sesso ed i soliti nudi frontali, ovviamente, oltre alla predilizione del regista per i fondoschiena femminili a regola d’arte, e la rappresentazione di perversioni di ogni genere, sempre funzionali a mettere in ridicolo le smanie di potere di certuni. Kitty Kellermann (alter ego della reale Kitty Schmidt), protagonista della storia nonostante il suo professarsi apolitica, sarà il punto focale per risolvere la trama assieme alla prostituta e passionale Margherita (Teresa Ann Savoy), innamorata di un ufficiale vittima del tranello architettato dal regime. Se quest’ultima love story assume connotati digressivi, non lo fa con particolare insistenza – per cui resta funzionale a giustificarne la scelta.

    Salon Kitty, se non è il miglior film di Brass, è sicuramente uno di quelli che ha conferità dignità al genere erotico, forse il più maltrattato in assoluto dopo l’horror, al quale nulla puoi chiedere se non di riscaldarti un po’ la serata (in fondo questo puoi chiederlo anche ad un buon horror, ma questa è un’altra storia). Brass dimostra semplicemente che, se hai qualcosa da dire e possiedi i mezzi per girare, il film è fatto e anche i soliti moralisti dovranno, per una volta, rassegnarsi all’idea. Tra le curiosità del film, un gran numero di riprese in presenza di specchi, il che richiede una certa perizia registica che valse a Brass, secondo IMDB, il nomignolo di “re degli specchi“.

    Salon Kitty, dove vederlo?

    Il film è disponibile in noleggio online su Apple iTunes.

  • Porco rosso: il saggio antifascista di Miyazaki

    1930: Marco è un veterano della prima guerra mondiale che è diventato un cacciatore di taglie nonchè un maiale antropomorfo.

    In breve. Film di animazione giapponese dai toni tendenzialmente leggeri, quanto impegnativi e politici da altri. Concepito sulla falsariga di un manga scritto dallo stesso regista, assume un tono serioso da un lato e scanzonato dall’altro.

    Scritto e diretto dal co-founder dello Studio Ghibli Hayao Miyazaki, Porco Rosso esce nel 1992 come prodotto di intrattenimento puro, dai tratti leggeri e disimpegnati e, come raccontato da Gualtiero Cannarsi che ne ha curato uno specifico doppiaggio italiano (uscito come Il maiale rosso, anno 2010, Festival del Cinema di Roma), “un film leggero per uomini d’affari stremati da lavoro, ipossia cerebrale e jet-lag“. La sobrietà tematica di Porco rosso, a ben vedere, è relativa: il protagonista, nello svolgersi della storia, è diventato un maiale antropomorfo (che è un dettaglio quasi dato per scontato, tanto più che non viene esplicitamente detto come ciò sia avvenuto, anzi il suo racconto è per certi versi vago e rimane tendenzialmente poco impresso nella memoria). Ma è soprattutto un bersaglio del regime fascista.

    La storia è ambientata in Italia nel Ventennio: Marco (nella storia, in molti casi, più semplicemente “Porco“) è considerato un sovversivo pericoloso, un maiale in ogni senso, il che assume una parvenza di vera e propria metafora (un porco rosso, peraltro, quindi tendenzialmente comunista). Viene anche invitato a rientrare nell’esercito e ad abbandonare la propria attività di cacciatore di taglie dell’aria, cosa che rifiuta: questo perchè piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale. Nella sequenza surreale e commovente in cui assistiamo alla storia della sua trasformazione, non capiamo effettivamente da cosa sia dipesa: verrebbe da pensare ad un sortilegio, ma per certi versi (come suggerito dalla scheda del film sulla rivista online AsiaMedia) sembra essere dovuta soprattutto al senso di colpa e di sfiducia, nell’essere l’unico sopravvissuto ad un attacco aereo che ha ucciso tutti i suoi compagni di volo.

    L’aspetto sentimentale, poi, occupa – con un stile essenziale e garbato costruito più su pudiche allusioni, mai troppo esplicite – buona parte della storia: Porco si barcamena tra almeno due relazioni amorose, di cui una totalmente idealistica con la nipote diciassettenne dell’uomo che ha ricostruito il suo aereo (Fio) che ha anche deciso di accompagnarlo in missione, e l’altra altrettanto vaga con Gina, cantante e proprietaria di un locale molto frequentato dai “pirati dell’aria”. Nella storia c’è giusto il tempo di costruire un antagonista, Curtis, un americano presuntuoso e donnaiolo che sfida Porco in una battaglia aerea, con la promessa di sposare Fio se dovesse averla vinta.

    Al di là dell’aspetto politico – aspetto da non sottovalutare – Porco Rosso è un omaggio alla passione di Miyazaki per la storia dell’aeronautica, tanto che lo stesso nome Ghibli fa riferimento al bimotore del Caproni Ca.309 prodotto realmente negli anni ’30 dalla Caproni Aeronautica Bergamasca, e molti piloti citati sono realmente esistiti (Francesco Baracca, Adriano Visconti, Arturo Ferrarin). Inizialmente era stato concepito come film-tributo di circa 40 minuti per conto della Japan Airlines, e poi l’idea venne espansa e divenne un vero e proprio lungometraggio. In seguito, il regista lo definì semplicemente foolish: una piccola follia, pensata come mashup tra il mondo delle fiabe classiche e quello, dai contorni più vaghi, di quelle per adulti. Questo dovrebbe autorizzarsi a non urlare troppo facilmente al capolavoro, anche in considerazioni di alcuni rallentamenti narrativi che sembrano, per certi versi, allungare il brodo più del dovuto.

    Tenendo conto della genesi della storia e della sua derivazione, la valutazione rimane positiva per quanto, ovviamente, probabilmente non dotata del pregevole dono della sintesi. Questo per quanto siano obiettivamente divertenti – essendo un film di intrattenimento puro per circa metà della sua portata – le allusioni, i siparietti e gli stereotipi bonari sugli italiani: i pirati dell’aria più tonti che cattivi, le donne giovani quasi sempre incantevoli (Gina, ad esempio, evoca nelle fattezze la femme fatale modello Fujiko Mine di Monkey Punch), le anziane sempre cordiali, le bambine frivole e pestifere, lo stesso Porco che rappresenta l’italiano ironico, beffardo e anarcoide (e naturalmente donnaiolo).

  • The imitation game è il film su Alan Turing che appassiona e commuove ancora oggi

    Alan Turing tenta di decifrare il funzionamento della macchina crittografica tedesca Enigma, con l’aiuto di un team di altri matematici. “The Imitation Game” è un film del 2014 che racconta la storia di Alan Turing, un matematico britannico che ha svolto un ruolo fondamentale nella decrittazione del codice Enigma tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

    In breve. La vera storia (sia pur romanzata, per certi tratti) del crittografo e matematico Alan Turing, considerato il padre putativo dell’informatica, e le cui speculazioni avvenieristiche sulla omonima “macchina” sopravvivono ancora oggi alla prova del tempo. Grazie al suo lavoro, il dispositivo elettromeccanico Enigma usato dai nazisti venne decifrato, impedendo di fatto il prolungamento della seconda guerra mondiale. Quale grottesco paradosso e tragico contrappasso, Turing venne condannato per omosessualità dal proprio governo, finendo suicida i propri giorni.

    Alan Turing, classe 1912, considerato uno dei padri dell’informatica nonchè matematico e crittografo tra i più celebri di ogni tempo: grazie ai suoi studi pioneristici sulla decifratura della macchina Enigma (un dispositivo elettromeccanico usato dai nazisti per trasmettere e ricevere messaggi) fu possibile anticipare la chiusura della seconda guerra mondiale. Non solo: la sua macchina di Turing, uno splendido quanto inossidabile modello teorico di dispositivo informatico, un archetipo su cui si può risolvere un problema di decisione di Hilbert e su cui, alla lunga, hanno finito per basarsi gli algoritmi che tutti conosciamo ed utilizziamo.

    All’epoca in cui è ambientato il film (che è un biopic in cui meno la metà degli avvenimenti – precisamente il 42,3% – è realmente accaduto, come studiato accuratamente dal sito informationisbeatiful.net), la parola ‘computer’ era un aggettivo riferibile ad una persona, non un dispositivo univoco come sarebbe avvenuto soltanto anni dopo. Alan Turing viene mostrato come personalità complessa e sensibile, appassionato del proprio lavoro oltre che runner ostinato (fatto storicamente accreditato, tanto che riuscì a correre una maratona nel 1946 in sole 2 ore, 46 minuti e 3 secondi). L’interpretazione del protagonista (Benedict Cumberbatch) fu talmente intensa, del resto, nel riprodurre una realtà storica in cui lo scienziato venne prima incensato e poi condannato per omosessualità e probabilmente indotto al suicidio, che l’attore che lo interpretò ammise, a fine delle riprese, di aver avuto una sorta di burnout. Peraltro le responsabilità politiche dell’epoca furono considerevoli nei termini di questa assurda condanna, che portò ad una riabilitazione e una grazia postuma solo nel 2013 non prima di averne ufficializzato la natura omofobica.

    L’unica persona che dovrebbe perdonare qualcuno è proprio Turing. Spero che il film possa portare alla luce quanto straordinario sia stato come persona, e quanto sia stato spaventosamente trattato dal governo dell’epoca. È stata una pagina vergognosa della nostra storia (Benedict Cumberbatch)

    The imitation game è diretto da una regia solida ed efficace (il norvegese Morten Tyldum), ruotando sul ruolo del protagonista mentre lavora in team (molto prima, in effetti, che farlo diventasse una moda effimera da startupper) alla ricerca delle chiavi crittografiche di Enigma, ricerca che lo scienziato cerca di automatizzare. Il limite del film è ovviamente nei suoi aspetti romanzati, che sembrano voler iper-personalizzare la vicenda umana mettendo in quasi in secondo piano l’ingiustizia politica e sociale nonchè le responsabilità del governo dell’epoca. Farne un film politico, del resto, sarebbe stato meno emozionale e quasi fuori tempo massimo, data la riabilitazione del personaggio Turing in tempi recenti, sia pur dopo molti anni dal tragico accaduto. Il Turing di Cumberbatch è l’archetipo del genio discreto, incompreso e valorizzato solo dai posteri, ai quali tocca l’ardua sentenza di giudicarne i meriti, nello specifico mediante un biopic sceneggiato sulla base del libro di Andrew Hodges Alan Turing, storia di un enigma.

    Non era agevole realizzare un film del genere senza romanzare le relazioni tra i personaggi, e molto di questo feeling umanizzato passa dal personaggio di Joan Elisabeth Lowther Clarke, personaggio realmente esistito e crittografa che sostiene il protagonista nei momenti più bui (interpretata da Keira Knightley). Dopo il successo dell’operazione Enigma, dopo aver superato mille diffidenze sulla propria scienza e coscienza, dopo essere stato eletto membro della Royal Society, avviene il breakdown: nel 1952 Turing viene additato dalle autorità come criminale, per via della propria omosessualità e nell’estremo paradosso di aver lottato contro i nazisti, ritrovandosi sulla gogna di un tribunale quasi equivalente a quello tedesco dell’epoca. Stando alla ricostruzione ufficiale, Turing morì nel proprio letto a soli 41 anni ingerendo una mela al cianuro, per quanto all’epoca il suicidio non venne neanche ufficialmente riconosciuto dalle autorità. Il suo modello di macchina di Turing ed il suo articolo pioneristico Computer machinery and intelligence del 1954 sono, ancora oggi, modelli riveriti e rispettati dai fatti per quello che riguarda la scienza informatica come la conosciamo e la utilizziamo ai giorni nostri.

    Il film The imitation game , uscito nel 2014, è disponibile in streaming gratuito su RaiPlay fino a fine 2021, e viene periodicamente trasmesso in TV.

    Di che parla il film?

    “The Imitation Game” è un film del 2014 diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. Il film si concentra sulla vita di Alan Turing, un matematico britannico noto per il suo contributo fondamentale alla decrittazione del codice Enigma durante la Seconda Guerra Mondiale. Il titolo del film, “The Imitation Game” (in italiano, “Il gioco dell’imitazione”), si riferisce al concetto centrale del film: la ricerca di Turing per creare una macchina che possa imitare il pensiero umano, una macchina che alla fine è diventata il precursore dei computer moderni.

    Il film esplora anche la difficile vita personale di Turing, incluso il suo status di omosessuale in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito. La sua storia è quindi un racconto sia di genio matematico che di lotta contro la discriminazione e l’intolleranza. L’opera è stata ben accolto dalla critica ed è stato candidato a diversi premi, vincendo l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 2015. Benedict Cumberbatch ha interpretato il ruolo di Alan Turing, e il suo lavoro è stato più volte elogiato per la sua interpretazione del personaggio.

    Ecco una panoramica della trama, del cast, di alcune curiosità e della produzione del film:

    Trama: Il film è incentrato sulla vita di Alan Turing, interpretato da Benedict Cumberbatch, dalla sua infanzia fino alla sua carriera adulta. La narrazione salta avanti e indietro nel tempo, mostrando i momenti chiave della sua vita. Gran parte della trama si concentra sulla sua esperienza lavorativa durante la guerra, quando è stato incaricato di decifrare il codice Enigma, una macchina crittografica tedesca considerata inarrivabile. Turing si unisce a un gruppo di matematici e crittografi a Bletchley Park, inclusa Joan Clarke (interpretata da Keira Knightley), per lavorare al progetto.

    Mentre lavorano contro il tempo e l’ostilità dei superiori militari, Turing e il suo team cercano di risolvere l’Enigma. Nel frattempo, il film esplora anche il passato di Turing, inclusa la sua difficile infanzia e il suo rapporto con la sua sessualità, che in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito, ha avuto gravi conseguenze sulla sua vita.

    Cast principale:

    • Benedict Cumberbatch come Alan Turing
    • Keira Knightley come Joan Clarke
    • Matthew Goode come Hugh Alexander
    • Rory Kinnear come detective Nock
    • Charles Dance come comandante Denniston
    • Mark Strong come Stewart Menzies

    Curiosità:

    • Il film è basato sulla biografia di Alan Turing, “Alan Turing: The Enigma” scritta da Andrew Hodges.
    • Benedict Cumberbatch ha ricevuto una nomination all’Oscar per la sua interpretazione di Alan Turing.
    • Il titolo “The Imitation Game” si riferisce al concetto centrale del film: la creazione di una macchina che può imitare il pensiero umano.
    • Alan Turing è considerato uno dei padri fondatori dell’informatica e della scienza dei computer, e la sua macchina Turing è un precursore dei computer moderni.
    • Il film esplora il trattamento ingiusto e discriminatorio che Turing ha subito a causa della sua omosessualità, e ha contribuito a sollevare l’attenzione sull’ingiustizia subita da Turing e da altri a causa delle leggi contro l’omosessualità nel Regno Unito.

    Produzione: Il film è stato diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. È stato girato principalmente nel Regno Unito, tra cui Bletchley Park, il luogo storico in cui Turing e il suo team lavoravano per decifrare l’Enigma. “The Imitation Game” ha ricevuto recensioni positive da parte della critica ed è stato un successo al botteghino. Ha anche vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

  • La proprietà non è più un furto: il film più sperimentale di Elio Petri

    Il 19 ottobre 1973 uscì un articolo su La Stampa dal titolo inequivocabile: Sequestrato a Genova la ‘proprietà’ di Petri, con riferimento al film di Petri che era uscito nelle sale appena 16 giorni prima. Le accuse erano di oltraggio al pudore: produzione e regia rifiutarono di apportare tagli ai contenuti della pellicola, per cui lo stesso uscì uncut vietato a minori di 18 anni, un divieto che oggi probabilmente si capisce poco e che lo declassa, molto ingiustamente, ad un film pornografico qualsiasi. Per inciso, a Berlino nello stesso il film venne premiato (Official Selection del Berlin Film Festival), e si tratta di un film rimasto nella memoria sia per il ruolo di molti caratteristi che, soprattutto,  per via dell’apparato ideologico che viene messo in discussione.

    Film simbolico e di concetto, La proprietà non è più un furto non è considerato il miglior film in assoluto di Elio Petri, per quanto sia sicuramente uno dei lavori più complessi ed interessanti mai realizzato dal regista. Molti concetti e stilemi registici derivano direttamente da Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, anche se il focus è in questo caso incentrato su tipi umani o sociali, non tanto su personaggi politici come nel film appena citato. È una storia di ossessione, avidità, persecuzione e sublimazione di questi stessi sentimenti, in cui quello che inquieta è duplice: ciò che vediamo fare ai personaggi, ma anche ciò che gli stessi “confessano”, meta-cinematograficamente, agli spettatori. Il cinema di Petri rimane comunque archetipico, ovvero gioca la propria essenza sulla caratterizzazione di esseri umani, quasi tutti avidi o spregevoli: l’idea è quella di favorire l’immedesimazione per poi accentuare il distanziamento da parte del pubblico, probabilmente. Sfruttando la fotografia oscura e teatraleggiante di Luigi Kuveiller, la trovata più clamorosa della sceneggiatura è quella di intervallare la storia con dei monologhi dei vari protagonisti, che commentano ciò che fanno invitando il pubblico, nel frattempo, a farsi due domande.

    L’intreccio è molto semplice e racconta di un giovane impiegato in banca (Flavio Bucci), affetto da una singolare (ed estremamente simbolica) allergia da contatto alle banconote. L’uomo è anche affetto inoltre da una patologia nevrotica, tanto da essere ossessionato da un cliente della sua stessa banca, un macellaio (Ugo Tognazzi), che ogni giorno deposita svariati milioni in contanti. Un giorno il protagonista assiste ad una rapina e, da allora, si licenzia, e sviluppa una sorta di avversione al denaro ancora più marcata: al tempo stesso, diventa morbosamente incuriosito dal furto, oltre che dalle modalità poco trasparenti utilizzate dal macellaio per guadagnare, che infatti inizia a perseguitare. Il suo monologo iniziale è emblematico in tal senso, e si rivolge – come i monologhi di tutti gli altri personaggi – direttamente al pubblico del cinema: e il punto chiave è proprio legato alla ricerca spasmodica del denaro, in una lotta interiore che non può che provocare insoddisfazione e frustrazione perenne.

    Io, ragionier Total, non sono diverso da voi, né voi siete diversi da me; siamo uguali nei bisogni, diseguali nel loro soddisfacimento. Io so che non potrò mai avere nulla più di quanto oggi ho, fino alla morte. Ma nessuno di voi potrà avere nulla più di quanto ha. Certamente molti di voi avranno più di me, come tanti hanno meno. E nella lotta legale o illegale per ottenere ciò che non abbiamo molti si ammalano di mali vergognosi.

    La “trilogia della nevrosi” di Elio Petri include questo titolo, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso. Al netto della lunghezza e della diluizione della trama (circa due ore di film), l’intreccio riesce comunque ad accattivare perchè vediamo Total, anonimo impiegato in cui è facile immedesimarsi, interessarsi progressivamente al mondo del furto, fino a rubare alcuni documenti alla polizia pur di trovare i recapiti di uno dei ladri più ricercati della città, ed imparare qualcosa da lui. L’uomo si autodefinisce marxista-mandrakista, che è una classificazione geniale quanto grottesca, forse poco percepita dalla critica dell’epoca: è un marxista letterale, nel senso di amante dell’esproprio proletario, ma è anche un mandrakista perchè vorrebbe saper emulare le magagne che hanno portato il macellaio (ed altri personaggi come lui) ad arricchirsi indebitamente. Le sue tendenze, pertanto, sono doppiamente tragiche perchè doppiamente anti-sociali, ed è questa l’idea del film che Petri intendeva, molto probabilmente, anche quando diceva che questo film fosse incentrato sulla nascita della disperazione in seno alla sinistra. La proprietà non è più un furto racconta provocatoriamente la crisi di una società in cui, di fatto, il capitalismo stava prendendo il sopravvento e, già all’epoca, si avvertiva che certi discorsi orientati sul sociale sarebbero stati declassificati e sviliti dall’andazzo generale di una società corrotta all’osso.

    Total è il simbolo degli oppressi, gli stessi oppressi che avrebbero voluto espropriare i beni ai padroni che li sfruttano, ma è mosso da un’invidia sociale che non lo rende affatto scontato o didascalico, come protagonista: come sempre nelle sceneggiature di Petri, infatti, non esistono buoni e cattivi in modo netto, ed i personaggi apparentemente più epici diventano inesorabilmente anti-eroi. Total, peraltro, non è ossessionato dal denaro in quanto tale: è turbato dal non avere il possesso dello stesso, dal non essere un capitalista, dal non avere una donna “acquistabile” che a sua volta possa sfruttarlo. La negazione ossessiva del piacere, ed il conseguente innegabile feticismo del suo personaggio, peraltro, è sviluppato molto chiaramente durante il primo furto che effettua nella casa del macellaio: lo vediamo portare via esclusivamente gioielli, lasciare il denaro e, soprattutto, constatare che tutte le volte che possiede un contatto con Anita non la possiede mai carnalmente, bensì la sublima per poi disprezzarla (la sequenza in cui la costringe a stare nuda a letto, immobile, per poi mandarla via). C’è molta psicologia non ovvia nel suo comportamento, a mio avviso, e qui Petri ha sfruttato complesse simbologie grottesche che si potrebbero paragonare allo stile usato, ad esempio, dal surrealismo di Lynch negli anni a venire, e probabilmente era anche normale che non tutti le apprezzassero. Di fatto, è anche uno dei film più sperimentali mai girati dal regista, ed è questo ad impreziosirlo e a spingermi ad una sostanziale rivalutazione, proprio perchè si tratta di un film che si presta a svariate letture, e non necessariamente di natura politica, in fin dei conti.

    È singolare, a mio avviso, che questo film sia considerato dalla critica il più debole della trilogia, anche perchè le scelte stilistiche di affidarsi a monologhi (che, come una commedia grottesca dell’arte, si rivolgono spesso e volentieri al pubblico) sono sempre funzionali e mai didascaliche. Come al solito, inoltre, la scelta degli interpreti non è casuale, ed è estremamente incisiva: Ugo Tognazzi (cinico ed egoista, per quanto il ruolo del suo personaggio fosse stato probabilmente pensato per Gian Maria Volontè, il quale per dissidi con Petri non collaborò a questo film), Flavio Bucci (abile nel caratterizzare un insospettabile “ladro in erba” ossessionato feticisticamente dal marxismo e dal furto in quanto tale), Daria Nicolodi (nell’insolito, per lei, ruolo di femme fatale, superficiale quanto subdola), Orazio Orlando (che interpreta un brigadiere giustamente sospettoso, dai modi rudi quanto impotente nel risolvere le ingiustizie). Ne esce fuori un quadretto desolante della società italiana, in cui questi personaggi interagiscono tra loro in un gioco di convenienze, opportunismo e feticismo degno di un mondo sempre più alla deriva, sul quale Petri si mostra ancora una volta molto pessimista.

    Nonostante questo, e nonostante una complessità sociale tutt’altro che banale in ballo, il film generalmente non piacque. Probabilmente la critica non riuscì ad accettare il ruolo del malvagio co-protagonista affidato a Tognazzi (che generalmente era associato a ruoli comici), non accettò il personaggio di Anita (che è l’emblema della donna che si fa comprare o sfruttare sessualmente, paragonandosi ad una macchina nelle mani di operaio: una metafora che oggi, forse, è meno incisiva di quanto non fosse all’epoca, ma – contestualizzando all’epoca ai noti problemi di sfruttamento, danni fisici e psicologici ed alienazione degli operai – Petri colpì profondamente nel segno), non accettò probabilmente l’impostazione da teatro dell’assurdo che Petri conferisce al film, soprattutto nell’enigmatica frase finale del padre di Total, che alla fine compare su un’altalena pronunciando la frase

    Mio figlio era come un padre per me.

    Questa globale non accettazione, di fatto, è la stessa che frustra Total nella sua ricerca spasmodica del materiale, nel suo desiderio perennemente frustrato; ed è proprio qui, forse, che emerge la grandezza dell’opera. Il film è disponibile gratuitamente in streaming su RaiPlay oltre che su Prime Video.

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