PASSEGGIATE MENTALI_ (90 articoli)

  • Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Retrospettiva autobiografica di Lothar Schramm, un tassista ed insospettabile serial killer che sta morendo: mediante una serie di flashback vediamo la sua vita e le sue allucinazioni ossessive.

    In breve. Un altro tassello di horror del regista Buttgereit, solo apparentemente più “amichevole” nel formato (rispetto ad altre digressioni filosofico-esistenziali di altri film); nonostante questo, il film è una autentica mazzata in quanto a ferocia ed effetti espliciti.

    Appare difficile dare un giudizio certo su questo Schramm, uno dei film più lineari di Buttgereit ma, al tempo stesso, tutt’altro che appetibili nella forma, quasi sempre esplicita e priva di allusioni: la storia di Lothar si prefigura quasi come una favola nera, con un uomo timido e impacciato segretamente innamorato della vicina che fa la prostituta. Utilizzando un sapiente uso della telecamera ed effetti speciali forse un po’ datati ma, al tempo stesso, decisamente realistici e disgustosi, Schramm esplicita la filosofia esistenzialista del regista, tanto da far sembrare ogni nudità corporea corrispondente ad un’ossessione o perversità, capace di travolgere il protagonista in un vortice di orrore. Alla base di tutto, una frustrazione latente ed un senso di forte inadeguatezza per il mondo reale (“Sono seduto in classe, l’insegnante sta camminando su e giù mentre detta qualcosa. Improvvisamente realizzo che sono completamente nudo. Mi guardo intorno molto intimorito che qualcuno possa averlo visto, quindi lentamente, con attenzione faccio scivolare la mia mano fra le mie cosce ma non c’era niente, assolutamente niente“).

    Girato in 16mm per imprimere un maggiore realismo, il formato diventa anche una scusa per mostrare le peggiori efferatezze senza pietà, comprese sequenze di masochismo davvero estreme e difficilmente visibili in qualsiasi altro horror (quella sul pene, soprattutto, visibile in primo piano perchè lo stile di Buttgereit questo impone). Numerosi i riferimenti ad altri serial killer, su tutti il Lipstick Killer (il killer del rossetto) e qualche riferimento a Jeffrey Dahmer, morto un anno dopo l’uscita del film. Se il primo è noto soprattutto per via della sua ossessione feticista per la collezione di oggetti personali delle sue vittime, quasi sempre di sesso femminile, il secondo lo fu per gli atti di particolare ferocia sulle proprie vittime, aspetto da cui Schramm non è certamente esente. Tuttavia è evidente come Buttgereit abbia sviluppato indipendentemente i caratteri del suo personaggio, facendolo vivere di vita propria e di una certa imprevedibilità.

    La patologia da cui è affetto Schramm è un disturbo antisociale di personalità, caratterizzato da un disprezzo patologico per le regole e le leggi della società, dall’incapacità di assumersi responsabilità e dall’indifferenza e dalla mancanza di senso di colpa nei confronti degli altri, pur soffrendo di base un forte senso di solitudine (che potrebbe un po’ essere la chiave di lettura globale del film). Una forma di schizofrenia che affligge il protagonista, quindi, che appare come vittima e carnefice fin dall’inizio: sappiamo che sta per morire, la sua morte sarà completamente accidentale e quello che vediamo è solo un flashback del suo passato, di come è arrivato lì. Al tempo stesso, il secondo vero personaggio della storia, la prostituta vicina di casa – che sembra più compatirlo e sfruttarlo che esserne realmente attratta, fa emergere tutte le sue debolezze in modo esplicito, ed è questo che causa prima la sua reazione in un climax di ferocia (dall’usare una bambola gonfiabile ad auto-mutilarsi) che poi culmina in ennesimi omicidi.

    Schramm in tal senso è un film decisamente esplicito e davvero per stomaci forti, non annoia e non rischia in nessun caso – se non altro – di lasciare indifferente lo spettatore.

  • Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Beverly e Elliot Mantle (Jeremy Irons) sono due gemelli che condividono, oltre ad un’insana passione per la chirurgia, letteralmente tutti gli aspetti della propria vita, compresi quelli legati al sesso; il film racconta il processo di distacco da parte di uno dei due e la rovina che travolgerà entrambi…

    In due parole. Cronenberg mette in cascina l’horror puro per concentrarsi sugli aspetti più oscuri della personalità, in particolare sul senso di solitudine (mostrato come meccanismo fondamentalmente auto-indotto) e sulla dipendenza interpersonale che sfocia, come da copione, in tragedia. Il tutto con la freddezza e la determinazione di un chirurgo di fronte ad un tavolo operatorio.

    “Il dolore provoca distorsione del carattere… semplicemente, non è necessario”

    Ispirandosi alla storia vera dei gemelli Marcus (1975), David Cronenberg sviluppa il tema del doppio innestando nell’intreccio svariati dettagli medico-ginecologici. Essi simboleggiano, con più forza rispetto al passato, le mutazioni della personalità degli individui, e fanno assumere all’interiorità delle persone una valenza letteralmente organica. La ricerca del grande regista canadese prosegue così nelle consuete direzioni, ed il romanzo “Gemelli” di Wood e Geasland offre un’opportunità  ulteriore per approfondire le più amate tematiche: la mutazione della carne che si riflette sulla personalità, il desiderio e la paura della maternità oltre, ovviamente, all’incubo della separazione di ciò che ha vissuto sempre in simbiosi. Nonostante la storia dei due protagonisti – un Jeremy Irons indimenticabile – proceda inizialmente di pari passo, uno dei due fratelli (quello “buono”, Beverly) svilupperà progressivamente una forma di schizofrenia che si ripercuoterà anche sull’altro.

    Questo distacco viene simboleggiato in modo eccellente dalla scena dell’incubo di Beverly, che vede Claire – la donna che hanno condiviso a sua insaputa – strappare il cordone ombelicale che li unisce con un morso (auto-citazione di Brood). Il film si incentra di fatto sulla definizione di tre personaggi: Beverly, fragile e sensibile, Elliot, cinico e calcolatore e Claire, donna “mutante” poichè dall’utero triforcuto (la quale diventerà presto causa della forte depressione del primo). L’unica debolezza di Elliot è proprio legata al destino del fratello, il quale si mostra talmente convinto e fedele alla propria scienza (La mosca) da idolatrare la tecnologia (Videodrome) e realizzare degli strumenti chirurgici ex-novo, che si possano adattare per l’appunto ai corpi di mutanti.

    Il tutto fino alla poetica, paurosa e romantica scena finale, nella quale il processo di simbiosi finalmente si materializza. Uno dei Cronenberg meno scontati, più lunghi e più complessi in assoluto, non tutto il pubblico riuscirà a seguire ogni dettaglio, ma ne vale davvero la pena.

  • Stalker è il film di Tarkovsky più accessibile

    Stalker è il film di Tarkovsky più accessibile

    In un futuro prossimo gli Stalker (misteriosi individui conoscitori di un luogo tra il mito e la realtà noto come “Zona”) si offrono come guide per condurre le persone in una stanza: tale stanza, da quello che si sa, è in grado di soddisfare i desideri più segreti delle persone che ci vanno.

    In breve. La fantascienza – del tutto priva di effetti speciali, qui profondamente atipica e concettuale –  di Tarkovsky trova in Stalker una delle migliori espressioni mai realizzate. Il risultato è un film d’autore dall’incedere lento e coinvolgente, ricco di spunti riflessivi e sociologici sulla natura umana.

    Stalker parte dalla spedizione di tre personaggi mai chiamati coi loro nomi (il Professore, lo Scrittore e lo Stalker), che si lasciano trasportare in un singolare viaggio alla ricerca della Zona: un territorio dai tratti misteriosi, in grado di soddisfare i desideri più profondi di chiunque riesca ad arrivarci. Non sembra difficile, in questo, rilevare una metafora dell’esistenza e della sua piena realizzazione, al di là delle numerose speculazioni in merito (molto fantasiose e di cui diffidare a prescindere, secondo me). Del resto lo stesso regista si è pronunciato chiaramente in merito e basta anche una ricerca veloce sul web per convincersene (ma anche dal libro del regista Scolpire il tempo: “La Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero“). Sembra insomma che il messaggio da cogliere per lo spettatore sia legato alla mutevolezza dell’esistenza ed al suo saperne cogliere gli aspetti davvero importanti, specialmente nei momenti di profonda crisi (che in effetti accomunano la totalità dei personaggi presentati): per dirla con le parole del film, “rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza“.

    Nella Zona, significativamente – anche se non sarà facile per chiunque cogliere questo aspetto – sembra non esserci letteralmente nulla (gli americani avrebbero infarcito la narrazione quantomeno di un goblin o di un Predator qualsiasi): qui invece, coerentemente con un film più auto-riflessivo che altro, cambiano soltanto i colori, i quali mutano dal grigiore della “zona seppia” rappresentata come punto di partenza delle vicende ad un vivido colore. Eppure, in conclusione del film, i tre viaggiatori sembrano vittime di un radicalemte ripensamento, e decidono di tornare sui propri passi – questo in aperta contraddizione con quanto si fossero ripromessi dall’inizio. Il senso vero di lavori del genere è che devono essere visti almeno una volta nella vita, in quanto lavori seminali del genere oppure anche solo perchè hanno finito per dare nuovo senso al cinema d’autore.

    Stalker (in russo Сталкер) mostra la figura di un’enigmatica figura di stalker (Aleksandr Kaidanovsky) che conduce uno Scrittore alcolizzato e depresso (Anatoli Solonitsyn) a trovare nuova ispirazione ed un Professore (Nikolai Grinko) a fare finalmente la ricerca definitiva per poter vincere il premio Nobel.  La Zona, in questo, rappresenta l’obiettivo che accomuna le ansie e le paure dei tre personaggi, tanto più che già nelle prime battute Stalker dice chiaramente alla moglie di stare fuggendo da una prigione (quella esistenziale). Il viaggio è lungo, e due ore e mezza sono abbastanza per proporre allo spettatore vari spunti di discussione sull’esistenza, a volte affidati ad una voce fuori campo, altri ai profondi dialoghi tra i tre personaggi.

    Stalker è anche il film lento per eccellenza: basti pensare che non c’è alcun dialogo nei primi 9 minuti e mezzo di film. L’uso della parola stalker (da tradurre nel senso di inseguitore) è tratto dal romanzo a cui si è ispirato il regista (Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugatski), a cui il regista si è ispirato per concepire il proprio film. Nel libro il termine stalker era utilizzato come nomignolo per indicare uomini impegnati nelle attività illegali di procurare e contrabbandare manufatti alieni fuori dalla Zona, senso che sembra essere rimasto sostanzialmente identico nel film.

    Al netto delle innate lungaggini stilistiche di Tarkovsky, con un certo insistere sui paesaggi e sull’ambientazione generale (cosa che, in verità, non stanca neanche troppo), Stalker è un film semplicemente perfetto: prima di tutto nella sua curatissima fotografia, e nella scelta di virare su due tonalità di colore distinte per ogni parte del film (seppia nella parte iniziale, colore pieno per la Zona).

    Peraltro la Zona sembra che sia stata ambientata in una zona contaminata da un incidente nucleare nella metà degli anni ’50, motivo per cui almeno tre persone dello staff sul posto perderanno la vita anni dopo (tra cui la seconda moglie del regista, xxx). Lo schema narrativo è talmente libero, in questa fase, che risulta anche difficile proporre vere e proprie interpretazioni, e addirittura sembra un azzardo provare a scriverci qualcosa di sensato – anche per via di molti riferimenti mistici a San Pietro ed agli ebrei. Di sicuro la struttura narrativa non sembra dissimile dal celebre cult Il mago di Oz (1939), nel quale assistiamo (anche in quel caso) ad un viaggio che condurrà i protagonisti a cercare un posto in cui realizzare i propri desideri. Che ciò avvenga sul serio o meno, del resto, in Stalker non sembra essere detto con chiarezza; e non sembra neanche sensato cercare una spiegazione logica o razionale, dato che il regista stesso ha invitato a vederlo con lo spirito di un viaggiatore che si rechi in posti mai visti prima (My ideal viewer watches a movie like a traveler observes the country he is visiting).

    Stalker è da qualche tempo disponibile gratuitamente sul web (audio originale russo sottotitolato) grazie all’iniziativa di OpenCulture.

     

  • Flesh of the void: l’horror criptico di James Quinn

    Flesh of the void: l’horror criptico di James Quinn

    Girato interamente in Super 8 e 16mm, Flesh of the void è un horror sperimentale austriaco diretto dall’esordiente James Quinn, classe 1995 nonchè founder della Sodom & Chimera Productions, specializzata (secondo la bio ufficiale su IMDB) in film diretti quanto oscuri, con l’obiettivo di creare un forte impatto emotivo. In altri termini Quinn sembra ispirarsi alla tradizione della shoxploitation e dei finti snuff modello August Underground, abbastanza noti a chiunque conosca il cinema anni novanta e prima di questo film, probabilmente, relegati quasi nel dimenticatoio.

    Quinn dirige Flesh of the void seguendo i dettami dell’arthouse, impreziosendo la propria scelta artistica sfruttando l’ormai introvabile pellicola Kodachrome, ad esempio, e ufficializzando solo i nickname degli attori coinvolti. Espediente peraltro determinato più dal desiderio di misticheggiare e far parlare di sè che da un’effettiva necessità, dato che quasi tutti i personaggi sono diversamente mascherati (maschere antigas, bianche teatrali e, seguendo la tradizione di Leatherface e di Ed Gein, in pelle umana). Gran parte dell’opera è composta da oscure riprese paesaggistiche in cui si alternano, a seconda dei momenti, situazioni degenerate che hanno a che fare con la morte e con il sesso (a volte con entrambe, incluso un crocifisso usato da una donna per scopi ludici e un pene, visibilmente di gomma, inquadrato a lungo e in primo piano anche qui per atti onanistici).

    Chiamatelo arthouse, o se preferite con espressioni elitarie quanto ridicole tipo film artistico (come se i film mainstream non siano, in qualche caso, artistici) oppure, peggio ancora, film d’autore (come se gli altri registi non possano essere autori): sta di fatto che l’horror e lo sperimentalismo confermano ancora una volta un rapporto ambivalente, decisamente perverso, nel senso di proteso alla crudeltà ad ogni costo. Non solo: con in più la pretesa, ancora più radicale, di dire qualcosa. E non è per nulla facile farlo, vale la pena di scriverlo a chiare lettere.

    Non serve essere per forza David Lynch – e non bisogna necessariamente creare il nuovo Eraserhead, il rispetto è quasi sempre dovuto a chiunque provi a fare cinema anche con pochi mezzi – ma sarebbe anche ora di sgombrare il campo dalla mistificazione per cui l’horror sperimentale sia un genere da intellettuali (è troppo provocatorio per esserlo sul serio, anzi a ben vedere è spesso anti-intellettuale per sua natura, un po’ come avveniva col primo heavy metal, ovviamente prima che diventasse un vezzo da musicisti snob). Un rapporto decisamente infido, insomma, e questo anche – forse soprattutto – per chi scrive di questi film, perennemente in balìa di tendenze estremistiche che vanno da “è una stronzata” a “è un capolavoro“, senza vie di mezzo.

    Utilizzando una colonna sonora (decisamente intrigante) di natura dark ambient e con numerosi spunti industrial, Flesh of the void è un catalogo di efferatezze quasi sempre sessuali, più o meno allusive o esplicite, senza soluzione di continuità (il film non ha trama, o alla meglio la stessa è affidata ad un insondabile flusso di coscienza), intervallate da inquietanti monologhi fuori campo, che sembrerebbero provenire da un “orco” alla ricerca di bambini da cui rapire (oppure, se preferite, la voce distorta di una donna che ha appena smarrito il figlio). Una prima metafora che potrebbe essere interessante e riguardare la Morte, che ghermisce senza distinzione di età. Poco dopo, pero’, si va oltre e quasi ci si dimentica del topic mortifero, concentrandosi su sentimento anti-religioso, efferati killer e incomprensibili danze in un bosco da parte di una misteriosa figura femminile.

    Oscuri rituali esoterici o satanici, figure che indossano maschere rituali, carcasse di animali inquadrate meticolosamente, atti sessuali espliciti (anale, masturbazione, fellatio), loschi individui incappucciati coinvolti in rituali (?), imprecisabili micro-narrazioni che si consumano nel tempo di qualche minuto e di cui, con l’incedere della pellicola, è sempre più difficile trovare un senso. Ostinarsi a trovarne uno, in questi casi, è la cosa peggiore che si possa fare, per cui tanto vale farsi investire dalla suggestione e accettarla: senza contare che il pluricitato parallelismo con Begotten è accettabile, forse, in misura minore di quanto non dica l’intuito (il lavoro di Mehrige aveva un messaggio ambientalista sia pur criptico, Flesh of the void è un film comunque diverso, più introiettato nella testa di chi l’ha concepito).

    Senza contare che ci sono stati film più simili come Der todesking, il che è intrigante come parallelismo ma rischia di lasciare il tempo che trova: sono lavori figli di un’epoca diversa, tempi in cui fare film del genere era considerato tutt’altro che artistico, nel senso dell’arthouse che intendiamo oggi. Tempi in cui la povertà delle immagini era figlia di mezzi tecnici amatoriali, mentre qui – se da un lato sappiamo che il film è stato auto-prodotto senza finanziamenti – non è chiaro se si tratti di un manifesto programmatico (si pensi a August Underground, tanto per citarlo) oppure una mera provocazione punk.

    I tempi sono cambiati e non è più tempo, forse, di fare l’ennesimo Nekromantik: bisogna fare i conti con una sostanziale inversione di sensibilità, con il fatto che ci si scandalizza sempre meno per tutto, che il peccato è sempre più ordinary administration, che internet partorisce i mostri dello snuff (per inciso: mostrare una fellatio forzata in un clima mortifero è shockante, ma lo è molto meno a causa del dilagare di infinite, impensabili parafilie ricercabili con un click). Senza contare il fatto che – lo scriviamo senza ostilità artistica verso alcuno, s’intende – difficilmente si diventa “registi di culto” a comando, tantomeno infarcendo un film criptico di velleità artistiche originali quanto, alla prova dei fatti, poco comprensibili oggettivamente. Facendo finta di non vedere, tra l’altro, che anche le scene più esplicite viste in questo film ricordano più un videoclip uncensored che un vero e proprio lungometraggio, alla lunga, e questo non depone in favore di un giudizio positivo. Che poi, delle due l’una: o film del genere sono una inevitabile saga (concettuale, filosofica e/o narrativa) di vari cult inguardabili, osceni o incompiuti che siano – per cui sempre ne verranno fatti, e pace – oppure non ha mai avuto senso fare film del genere, con buona pace dei fan o di certa critica, alla fantozziana ricerca dell’immarcescibile bello che nessuno aveva notato.

    Flesh of the Void immagina, a detta della sinossi ufficiale, cosa sia davvero la morte casomai, in un certo senso, non si rivelasse il pacifico spegnersi di una vita: in tal caso sarebbe giusto quella carovana di orrore e incubi concentrici, incentrati su tutte le cose più sgradevoli che possano venirvi in mente, riassunte in circa un’ora buona di riprese. Un presupposto ad oggi, peraltro, parzialmente falsato dai tempi in cui viviamo, che vedono minacce di morte più condizionanti (dal terrorismo dei primi anni 2000 fino alla pandemia), per cui uno potrebbe anche domandarsi, lecitamente, di cosa si stia davvero parlando in lavori del genere, dato che manca il sottotesto per definizione. Vale anche la pena di ricordare che gran parte del focus narrativo dell’opera è incentrato su varie forme di parafilia, che vanno dall’esibizionismo all’autoerotismo voyeur e pedofilo (la critica al mondo della chiesa sembra sostanziale) fino al vero e proprio stupro, con particolare attenzione ai rapporti fetish omosessuali e all’onnipresenza del pene (e del dito mozzato) quale simbolo fallico degradato. Strano che la critica non si sia ancora inventata etichette come explicit porn horror, per quanto ovviamente le etichette siano anch’esse ridicole e riduttive in ogni caso.

    Un film comunque premiato in vari festival del genere, destinato agli estimatori del sottogenere e praticamente a nessun altro, dandosi la possibilità di guardarlo (cosa a cui non siamo perfettamente riusciti, per la verità) senza pensare di stare assistendo ad un gigantesco videoclip black metal.

    Flesh of the void è stato disponibile a noleggio e per l’acquisto su Vimeo, con altri tre corti sperimentali in omaggio: Free the crow (simbolico quanto difficilotto da capire), The beauty of which that is fucking ugly (evidentemente sarcastico: un monologo poco comprensibile, paesaggi industriali che culminano su un immancabile uomo incappucciato che si masturba) e Conjure, forse il migliore dei tre, dato che sembra voler omaggiare giusto Nekromantik. Ad oggi, il film non sembra purtroppo reperibile da alcun canale ufficiale (agg. al 13 luglio 2022)

  • H2Odio: è il caso di dire acqua in bocca

    H2Odio: è il caso di dire acqua in bocca

    H2Odio di Alex Infascelli non è un film perfetto: anzi, tutt’altro. Le pecche ci sono e sono evidenti, a cominciare dalla recitazione, che non riesce a sostenere il ritmo di una sceneggiatura ambiziosa che richiede il giusto impegno, visti i temi che il lungometraggio affronta.

    Il regista di Mi chiamo Francesco Totti, prima di dedicarsi al sempiterno e immortale mito di Roma (città e team calcistico), nel film del 2006 si concentra su un delirante universo tutto al femminile, in un metaforico e gigantesco, ma allo stesso tempo claustrofobico, teatro dove vengono messi in scena i più oscuri e spaventosi turbamenti dell’animo umano. Siamo di fronte a una pellicola che, se affrontata in tempi più maturi, avrebbe potuto certamente competere con capisaldi del cinema horror e thriller contemporaneo. Ma non piangiamo sul latte (o meglio, sull’acqua – capirete presto perché) versato e parliamo, invece, di ciò che di bello c’è in H2Odio.

    Il film si concentra sull’originale quanto pericoloso progetto di un gruppo di amiche: quello di affrontare un periodo di digiuno per depurare corpo e mente, nonché dimagrire, nutrendosi soltanto di acqua. Per farlo si recano su un’isoletta dove sorge la casa di infanzia di Olivia, la più motivata delle ragazze, di cui abbracciamo fin dai primi minuti il punto di vista, poiché regia e sceneggiatura ci fanno immergere nel suo racconto tramite la stesura di un diario indirizzato alla sorella gemella Helena; le altre amiche, invece, ben presto ne hanno abbastanza del digiuno e iniziano a mangiare di nascosto alcuni snack che hanno portato con sé da casa. Non sanno però che questo gesto scatenerà una reazione a catena senza esclusione di colpi.

    Il tema più evidente di H2Odio è senza dubbio il digiuno come atto per migliorare la propria immagine di sé: un argomento di cui a lungo si è dibattuto nei primi anni 2000 – e che ancora oggi tiene spesso banco nei dibattiti di stampo sociologico – senza dubbio delicato e pericoloso se non affrontato con la giusta consapevolezza. Ben presto, come si può ben immaginare, le cose cominciano a precipitare prendendo una piega inquietante: la tanto motivata Olivia, infatti, al tempo stesso è la meno preparata psicologicamente ad affrontare il digiuno. Preda da sempre di traumi e di un segreto che ne condiziona l’esistenza, arriva sempre di più a straniarsi e a rifugiarsi in una extra-dimensione rappresentata proprio da quel diario che scrive per la sorella, con cui si percepisce esservi un rapporto morboso fin dalle prime righe. 

    Questo ci permette di affrontare quello che è in realtà il tema principale di H2Odio: la sindrome del gemello scomparso o evanescente, che consiste nell’assorbimento di un feto da parte dell’altro in una gravidanza inizialmente gemellare; si dice che il gemello assorbito lasci tracce di sé nell’altro, attraverso la comparsa di piccoli elementi organici come capelli, denti od ossa fetali o addirittura tramite una predisposizione caratteriale a presentare tratti più “oscuri”. E proprio tutte queste caratteristiche collimano nel comportamento di Olivia, che scrive a una Helena che, in realtà, non è mai esistita, se non durante il primo trimestre di gravidanza della loro madre, impazzita per la perdita della piccola. Olivia è sempre stata abituata a vivere una doppia vita: da una parte a contatto con il vuoto, con la grande assenza rappresentata dal fantasma della sorella; dall’altra invece, in un’espressione decisamente borderline, con il peso della stessa, tremendamente angustiante. Olivia porta infatti dentro di sé da sempre la sorella mai nata, e con lei il senso di colpa: il digiuno a base d’acqua, elemento notoriamente purificante, serve allo stesso tempo a riempire il vuoto e a depurarla di ogni rimorso.

    Se l’atto di non mangiare appare da fuori come il desiderio di scomparire fisicamente attraverso un dimagrimento sempre più estremo, nel profondo della psicologia di H2Odio viene esasperato al punto da diventare trasparente, proprio come l’acqua utilizzata per nutrirsi e riempirsi. Acqua che, inoltre, ha un profondissimo significato per Olivia, in quanto è una costante che la accompagna dal grembo materno, dove era immersa nel liquido amniotico, fino all’acme del suo delirio in età adulta, in cui si esplica anche il complicatissimo rapporto con la madre. 

    Allo stesso modo della sorella Helena, quindi, anche la madre è una presenza assente nella vita di Olivia, cresciuta con l’angoscia e con il senso di colpa nutrito in continuazione dalla genitrice, che cresce la figlia in un ambiente malsano dove vive indisturbato il fantasma di una bambina che non solo non è mai nata ma che, in effetti, non ha neppure avuto il tempo di formarsi a dovere. Il rapporto tra madre e figlia diventa morboso e ossessivo, fino a risolversi nella pazzia e nell’annichilimento. Avendo bene a mente la tradizione horror e citando a modo suo Carrie – Lo sguardo di Satana, Infascelli ripropone un rapporto madre-figlia tremendamente malsano, che non si risolve solamente in una pioggia di sangue (letteralmente) ma in un epilogo dove nessuno ha scampo, che ricorda un po’ il meccanismo utilizzato da Agatha Christie in Dieci Piccoli Indiani.

    Checché se ne dica, il cinema italiano ha una grande memoria e tradizione cinematografica nel campo dell’orrore: basterebbe soltanto un po’ più di consapevolezza e di autocritica, al fine di migliorare e smussare i propri limiti. Se ciò fosse stato fatto, H2Odio avrebbe potuto essere un film decisamente bello, e non solo interessante dal punto di vista analitico e rappresentativo. Un vero peccato, e – per restare in tema – un vero vuoto.