FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Inseparabili di David Cronenberg affronta il tema del doppio e della scissione

    Beverly e Elliot Mantle (Jeremy Irons) sono due gemelli che condividono, oltre ad un’insana passione per la chirurgia, letteralmente tutti gli aspetti della propria vita, compresi quelli legati al sesso; il film racconta il processo di distacco da parte di uno dei due e la rovina che travolgerà entrambi…

    In due parole. Cronenberg mette in cascina l’horror puro per concentrarsi sugli aspetti più oscuri della personalità, in particolare sul senso di solitudine (mostrato come meccanismo fondamentalmente auto-indotto) e sulla dipendenza interpersonale che sfocia, come da copione, in tragedia. Il tutto con la freddezza e la determinazione di un chirurgo di fronte ad un tavolo operatorio.

    “Il dolore provoca distorsione del carattere… semplicemente, non è necessario”

    Ispirandosi alla storia vera dei gemelli Marcus (1975), David Cronenberg sviluppa il tema del doppio innestando nell’intreccio svariati dettagli medico-ginecologici. Essi simboleggiano, con più forza rispetto al passato, le mutazioni della personalità degli individui, e fanno assumere all’interiorità delle persone una valenza letteralmente organica. La ricerca del grande regista canadese prosegue così nelle consuete direzioni, ed il romanzo “Gemelli” di Wood e Geasland offre un’opportunità  ulteriore per approfondire le più amate tematiche: la mutazione della carne che si riflette sulla personalità, il desiderio e la paura della maternità oltre, ovviamente, all’incubo della separazione di ciò che ha vissuto sempre in simbiosi. Nonostante la storia dei due protagonisti – un Jeremy Irons indimenticabile – proceda inizialmente di pari passo, uno dei due fratelli (quello “buono”, Beverly) svilupperà progressivamente una forma di schizofrenia che si ripercuoterà anche sull’altro.

    Questo distacco viene simboleggiato in modo eccellente dalla scena dell’incubo di Beverly, che vede Claire – la donna che hanno condiviso a sua insaputa – strappare il cordone ombelicale che li unisce con un morso (auto-citazione di Brood). Il film si incentra di fatto sulla definizione di tre personaggi: Beverly, fragile e sensibile, Elliot, cinico e calcolatore e Claire, donna “mutante” poichè dall’utero triforcuto (la quale diventerà presto causa della forte depressione del primo). L’unica debolezza di Elliot è proprio legata al destino del fratello, il quale si mostra talmente convinto e fedele alla propria scienza (La mosca) da idolatrare la tecnologia (Videodrome) e realizzare degli strumenti chirurgici ex-novo, che si possano adattare per l’appunto ai corpi di mutanti.

    Il tutto fino alla poetica, paurosa e romantica scena finale, nella quale il processo di simbiosi finalmente si materializza. Uno dei Cronenberg meno scontati, più lunghi e più complessi in assoluto, non tutto il pubblico riuscirà a seguire ogni dettaglio, ma ne vale davvero la pena.

  • Videodrome: il film forse più profetico (e politico) di David Cronenberg

    Da sempre attento alle evoluzioni delle nuove tecnologie, agli effetti della macchina sull’uomo e sul suo comportamento sociale, in molti suoi film David Cronenberg ha analizzato (secondo i canoni dell’estetica cyber-punk, per quello che riguarda la prima produzione) il rapporto tra scienza e umanità.

    Un rapporto ancora oggi attualissimo, è destinato a modificare i nostri modelli di comportamento, sopprimendo ogni istinto primordiale a vantaggio di un’esistenza regolamentata da tempi di produzione, scadenziari elettronici, in definitiva: un copione prestabilito. Ed il punto cruciale sta proprio in questo: il regista si guarda bene dal demonizzare la tecnologia, piuttosto mostra di volerla conoscere a fondo, mentre l’incubo di un condizionamento totale nell’agire quotidiano aleggia su di lui. E, alla lunga, dal 1983 (anno di uscita del film) su di noi.

    Io penso che noi crediamo che la nostra vita sia fisicamente relativamente stabile, ma non lo è. Il nostro corpo è un uragano: muta costantemente, è solo un’illusione che si tratti dello stesso corpo da un momento all’altro. Per questo diventa ancora più urgente la questione dell’identità. (D. Cronenberg, intervista con Enrico Ghezzi, 1988)

    Se c’è una cosa che è vitale in Cronenberg, del resto, e che testimonia il suo non-essere tecnofobo, è l’atteggiamento è l’ossessione per il corpo umano. Sullo schermo, mentre il film va avanti, vediamo un orrore certamente schizofrenico ed allucinatorio, ma al tempo stesso tangibile, intrinseco nella carne umana. Un orrore che potrebbe stare a metà tra la della rivolta dei cadaveri di Romero e la fusione uomo-macchina di Tetsuo. Videodrome rappresenta probabilmente la massima espressione della poetica del regista canadese.

    La tecnologia, simbolo stereotipato del progresso e dell’evoluzione umana, arriva a fondersi nella pelle, diventa tutt’uno con l’intero uomo e le sue illusorie certezze di conoscenza assoluta. Il direttore della stazione televisiva Canale 83 (Max Renn, aka James Woods) è un uomo cinico e convinto di sapere dove sta andando. Le sue certezze, le sue convinzioni, il suo stesso scetticismo verso il tubo catodico (afferma più volte di non credere a ciò che vede sullo schermo) viene smontato dal peggiore degli incubi. In esso non esiste più umanità, non esiste alcun contatto fisico e corporale, esiste soltanto una realtà virtuale che ci lobotomizza e ci riduce a numeri per il grande schermo.

    Quello spettacolo di morte, quello “snuff” realizzato con pochissimi mezzi, quella rappresentazione pura di violenza non è altro che una metafora della sua stessa vita. Pessimisticamente, della vita di un numero crescente di noi. La stessa sessualità, prima vissuta da Max con gelida indifferenza, diventa uno strumento di dipendenza e di morte progressiva, scandita dall’illuminazione di un tubo catodico.

    Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion)

    Il professor O’ Blivion (nomen omen dichiaratamente riferito alla condizione di essere completamente dimenticato, ovvero spersonalizzato) dichiara apertamente, a circa metà del film, il manifesto di Videodrome: il potere di controllo delle menti si esplica nel momento in cui la televisione impone la propria realtà. Se il tubo catodico mostra violenza, non fa che pubblicizzare un lato oscuro dell’animo umano, ovvero quello puramente distruttivo represso da un’apparente civilizzazione. Per cui non è colpa della televisione se viviamo nella violenza: semmai è un mezzo che mostra e ci ricorda le nostre ossessioni primordiali. Con risultati spesso devastanti.

    Ultimo punto fondamentale è il disorientamento in cui vive il protagonista dopo la prima visione dello snuff-movie: la portata delle immagini è talmente pesante che invece di esserne turbato e cercare qualcosa di edulcorato, si abbandona a fantasie erotiche sado-masochistiche, immagina di fare sesso nella stanza delle torture appena vista, ivi sogna di somministrare dolore fisico alla propria compagna. Più semplicemente, non riesce più a distinguere il sogno dalla realtà, il pensiero dall’azione. E poi, di quale realtà si parla se non quella percepita dai sensi? Quella realtà tremendamente soggettiva che egli riconosce fin troppo bene, ma che (tragicamente) non sempre gli altri sembrano disposti a comprendere. Da qui nasce un paradosso che vede da una parte l’alienazione totale dell’individuo, che vive isolato e, per riprendere un’immagine cara ad una certa sci-fi, con dei televisori al posto della testa.

    Nell’epoca del Grande Fratello, scimmiottato periodicamente in terrificanti programmi televisivi in cui “persino” dei personaggi di spettacolo mostrano la propria corporeità, la poetica di Cronenberg suona ancora attuale. La stessa idea di socialità, di sessualità, il modello comportamente imposto alla massa è oggi scandito dalla televisione e dalle mostruosità che rivela giorno dopo giorno. E si tratta di uno spettacolo che dovrebbe essere vicino alla vita di tutti noi, in cui ognuno di noi dovrebbe (secondo la volontà dei produttori) riconoscersi. Un modello di omologazione culturale che distrugge mentalmente ogni individuo e soffoca la sua stessa sessualità in agglomerati illusori di pixel.

    Avviso: da qui in poi contiene parti rivelatrici (o spoiler) del film.

    Cronenberg è stato ospite al Festival di Roma (ottobre 2008), dichiarando:

    noi esseri umani siamo solo animali che si immaginano e hanno il desiderio di diventare diversi da quello che sono. Per far sì che ciò si realizzi ricorriamo alla religione, alla cultura. Mi interessa moltissimo questa forma di trascendenza, questo desiderio dell’essere umano di andare al di là di se stesso. Pur non programmandolo, finisco per parlarne in tutti i miei film“.

    Le sue parole contengono, a mio avviso, molte verità su Videodrome. La fragilità di Max Reinn appare nella sua completezza: cinico e spietato all’inizio, fragile e insicuro della sua realtà a causa di un segnale televisivo che lo aggredisce mentalmente. Tale “aggressione mentale” intesa come manipolazione è anche alla base di uno dei primi lavori del regista, Scanners.

    Il discorso su Videodrome visto in precedenza merita così di essere continuato. Perchè credo che sia necessario premettere, oltre che puntualizzare (per chi non avesse mai visto l’opera), cosa non è Videodrome. Questo film non è semplice exploitation per attrarre pubblico morboso e curioso, nè si limita ad usare lo splatter (presente per la verità in piccole dosi) come forma artistica che mostra

    la debolezza del corpo umano soprattutto in un momento storico, gli anni ottanta, in cui la perfezione fisica e l’edonismo erano considerati simboli di scalata sociale” (R. Nepoti, Lo splatter (il montaggio) e l’imago del corpo in frammenti).

    Videodrome non si limita a mostrare la debolezza di chi ricorre alla violenza estrema per soddisfare le proprie inibizioni e frustrazioni. Anche se il discorso, come già ne “Il demone sotto la pelle“, è di natura sessuale e tocca un tabù di oggi, peraltro, come la sessuofobìa. Per quanto verità inconfessabile, infatti, tantissima gente è attratta e spaventata dal sesso, per via della paura dell’altro, dell’incertezza, del timore di rimanerne feriti o coinvolti in un’altalena emotiva che diventa logorante per alcuni di noi. Viene in mente il feticcio ballardiano del successivo film Crash, in cui sono le automobili (simbolo della rivoluzione industriale) a diventare l’unico mezzo per eccitarsi.

    Videodrome del resto vuole mettere in crisi il modello comunicativo imposto dai mass-media, mette a nudo i pericoli insiti nell’utilizzo del tubo catodico che rischia di diventare una vera e propria arma di manipolazione di massa. Un rischio che potrebbe (teoricamente) essere evitato affidandoci ad un senso critico che deriva direttamente dai nostri organi, ma che il cupo pessimismo del regista rende utopico. Il tutto, pero’, senza degenerare in una paranoia immotivata verso la tecnologia.

    Cronenberg sa bene di cosa parla nei suoi film: ed è grande la sua capacità di inventare “tecnologia che si ibrida” col corpo umano in modo tanto credibile da spaventare di per sè senza mostrare nient’altro. Questo grazie al suo piglio diretto, sistematico nella sua follìa, ma soprattutto razionalista, correttamente informato su tubo catodico, emissione di segnali audio/video e, in futuro, pod da collegare direttamente al cervello (“eXistenZ“).

    Max Renn non diventa altro che un videoregistratore programmabile, che viene letteralmente inseminato da Videodrome attraverso l’orefizio vaginale del suo ventre e programmato come “video-parola fatta carne”. Nel finale proclama con freddezza “gloria e vita alla nuova carne” e si suicida dopo aver visto sè stesso farlo in TV: un’atto di emulazione che ricorda il paradosso di O’Blivion citato all’inizio: la televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione.

  • Demoni: uno dei migliori horror italiani anni 80

    Un gruppo di persone viene invitata in un cinema dall’aria inquietante per quella che sembra, a tutti gli effetti, una prima visione in esclusiva; molto presto si accorgeranno che la realtà è alquanto sconcertante…

    In breve. B-movie italiano impregnato di anni 80 (capigliature ed abiti inclusi), che da’ un senso alla locuzione “horror puro” anche perchè la trama finisce per essere meno di un accessorio. Di culto per gli effetti speciali sublimi di Stivaletti e per il nome alla regia (Lamberto è il figlio di Mario Bava). Il soggetto di Sacchetti, lo sceneggiatore de “L’aldilà...” di Fulci, non risalta più di tanto agli occhi dello spettatore: una storia inizialmente promettente che poi si coniuga in semplici demoni dai dentacci aguzzi, sangue, splatter, azione e forse venti minuti netti di dialoghi. Ci piace lo stesso.

    Demoni è stato da tempo elevato ad una dimensione cultistica che non ammette discussione, e non sarò certo io a smentire questa tendenza o a proporre improbabili riscoperte dell’acqua calda o, peggio, stroncature sostanzialmente immeritate. Con questo film Bava, in stretta collaborazione con Dario Argento, ha riportato la dimensione dell’horror ad una misura talmente pura da sembrare… teorica. Questo ovviamente non significa che si lavori sull’introspezione nè null’altro di simile, quanto il fatto che i personaggi siano quasi tutti degli autentici burattini nelle mani dei protagonisti del titolo. Demoni: sono maligni e fanno male, e tanto basta a fare il film. L’horror perde temporaneamente quasi tutte i suoi simbolismi, i suoi messaggi ed il suo potere sovversivo per tornare alla dimensione originaria, fatta di semplicità: allo scopo (che oggi appare poco scontato, a ben vedere) di fare paura allo spettatore quando forse era ancora possibile farlo. La cosa interessante di questo primo “Demoni“, di fatto, risiede esattamente nella sua trama scarnissima, tanto da far sembrare che Bava non vedesse l’ora di riprendere piaghe purulente, vomito verde ed aggressioni demoniache. Questo elemento di fatto rende il film non esattamente un esempio di horror intellettuale come piace a certa critica, mentre l’elemento di puro intrattenimento fa esattamente il suo sporco lavoro (spaventare il pubblico, ripetiamo), e questo sia con qualche espediente meta-cinematografico (il film è ambientato in un cinema dove proiettano un horror) che ricorrendo al elementi spesso piuttosto paradossali (le strade senza uscita o il mitico elicottero che precipita nella sala, il quale omaggia Zombi di Romero forse solo involontariamente). Pubblico horror aggredito dai demoni dei suoi film preferiti, dunque: roba che ha ispirato anche altri film, per la verità, senza contare che oggi il meta-cinema è diventato quasi un vezzo radical chic a cui hanno ricorso cani e porci. All’epoca, pero’, doveva essere probabilmente poco scontato farlo in un contesto del genere, e di ciò bisogna dare un merito enorme a chi ha realizzato l’opera intera. Nonostante un cast di attori che lascia un po’ a desiderare e dei dialoghi che definire “riempitivi” è decisamente troppo, “Demoni” di Lamberto Bava si avvale di una regia piuttosto eloquente, che non lascia nulla all’immaginazione e che ha fatto letteralmente scatenare Sergio Stivaletti. La colonna sonora, poi, è un orgoglioso inno ottantiano all’headbanging più selvaggio, costituito dai riffoni dei Saxon (Everybody up), degli Accept (Fast as a shark) e moltissimi altri, senza dimenticare il contributo di Claudio Simonetti dei Goblin. Di fatto, pero’, il ritmo tende un po’ a calare nella fase mediana del film – più o meno da quanto appaiono i punk (!) sulla scena – e presenta un gran guignol che, personalmente, ho trovato vagamente monotono in alcuni passaggi. Ciò non toglie che questo film sia emblematico di come anche in Italia si sapessero produrre splatter-horror ben fatti e a loro modo “artigianali”, senza contare che l’idea stessa del racconto appare piuttosto originale per l’epoca, e questo non può che essere un vanto assoluto. Quando da oggi in poi sentirete qualcuno lamentarsi che in Italia non si fanno più i cari vecchi horror di una volta (ed è un luogo comune agghiacciante e falsissimo, per la cronaca), in molti casi ci si riferisce a questo.

  • Pro-Life: l’horror etico sull’aborto di J. Carpenter, anno 2006

    Una ragazza fugge nel bosco, e viene accolta da due medici che lavorano in una clinica. La ragazza è incinta, e la sua pancia continua a crescere. Determinato a “salvare” la figlia incinta da una clinica per aborti, un fanatico religioso ei suoi figli pianificano un violento assalto. I medici sospettano che la sua gravidanza potrebbe non essere qualcosa di questo mondo.

    Diretto da John Carpenter e scritto da Mick Garris, Drew McWeeny, Rebecca Swan, Pro-Life è un mediometraggio horror del 2006 della serie Masters of horror, e si pregia delle musiche del figlio del regista (Cody Carpenter). Pro-Life associa l’immaginario horror tipicamente ottanta-novantiano ad una tematica etica considerevole, quella dell’aborto e delle sue implicazioni. Ciò basterebbe a rendere Pro-Life un film attuale, attualissimo, come va di moda nel revival moderno ed in considerazione della recente, molto controversa, cancellazione del diritto da parte della Corte Suprema giusto negli USA.

    Il film è di quasi venti anni fa, e potrebbe far pensare ad un gioiello premonitore di tendenze inquietanti o di eventi globali spaventosi, un po’ come potrebbe esserlo l’epidemia che apre Todo Modo (Elio Petri, 1976) o le tendenze voyeuristiche di Videodrome, oggi normalizzate dal cybersex e dalle videoconferenze dilaganti. Certo Pro-Life è un film politico a tutti gli effetti, e su questo va considerato come l’etichetta sia del tutto legittima e anzi, per certi versi, doverosa.

    Al tempo stesso vanno riconosciuti i limiti della pellicola nonostante la regia sia pregevole: lo script sembra un po’ fallace, il demone sovrannaturale che esce fuori dal pavimento dell’ospedale durante l’assalto degli integralisti armati fino ai denti fa più sorridere che altro, mentre il film si presta più a battutine irritanti che a riflessioni sostanziali. Sia chiaro, se non altro, che le posizioni del regista sono tutt’altro che pro-aborto, proprio perchè la mostruosità che fuoriesce ha un valore nichilistico, è la raffigurazione del Moralista supremo e, nel suo modesto voler fare paura, se non altro manda il messaggio in modo chiaro.

    C’è anche da dire che gli horror sull’aborto sono estremamente popolari, per quanto non tutti ce l’abbiano come tema portante ma solo come riferimento etico-sostanziale, ed in genere incentrare l’intero film sul tema sembra un po’ eccessivo. Almeno, lo sembrava fino a prima del 2022, dato che l’attualità racconta della cancellazione di quel diritto e ciò, ovviamente, fa assumere al film quantomeno una collocazione differente.

    C’è la critica anti-anti-abortista. C’è anche, ovviamente, la polemica anti-religiosa. C’è il “mostro”, che a me è piaciuto  per come realizzato, per quanto lo stile fumettistico travalichi – e a volte quasi banalizzi – la sostanza di ciò che si trasmette. Per il resto transeat su una recitazione un po’ piatta, forse ulteriormente penalizzata da un doppiaggio italiano non eccelso. Passi che certi personaggi che era meglio lasciarli a casa. Passi una (scialba) citazione di “Distretto 13“. Quasi verrebbe da dire che si debba accettare tutto questo anche solo per la scena finale, in cui si porta alle estreme conseguenze la volontà divina, che viene trasfigurata in senso orrorifico (si perdoni la circonlocuzione, ma era davvero impossibile dirla diversamente senza fare spoiler).

    Sia fatta la tua Volontà, John; ma i film che meritano la visione – in senso politico o artistico  che dir si voglia – rimangono, sinceramente, ben altri. Amen.

  • I vampiri, il primo horror italiano di Freda e Bava

    La polizia indaga su una serie di omicidi di giovani donne, scoprendo una terribile verità legata alla figura di un’affascinante contessa…

    In breve. Il primo horror italiano in assoluto (se si esclude Il mostro di Frankenstein di Eugenio Testa, pellicola muta del 1920 ad oggi persa), incentrato su una serie di omicidi di giovani donne che vengono ritrovate prive di sangue. Gotico, horror e sci-fiction si fondono in uno dei cult assoluti del nostro cinema di genere.

    Noto con svariati titoli (tra cui Evil’s Commandment, Lust of the Vampire, The Devil’s Commandment, The Vampires, Les Vampires), è un film dall’importanza storica basilare per lo sviluppo del genere, soprattutto nell’Italia d’epoca abbastanza avulsa, di per te, a valorizzare storie sanguinose o violente. Freda inventa il proprio horror portando ai produttori un soggetto inciso su un magnetofono, con tanto di rumori sinistri all’interno: la storia, comunque, sembra dovere più di qualcosa a quella sinistra della contessa Erzsébet Báthory. Il film è incentrato sul mito della giovinezza, e sull’autentica ossessione per la bellezza che porta la protagonista a compiere delitti pur di soddisfarla.

    Bava si è occupato, oltre che della doppia regia, degli effetti speciali del film: notevole per l’epoca, ad esempio, la scena dell’invecchiamento precoce della baronessa, utilizzata a più riprese e diventata un leitmotiv dei film vampireschi (ad esempio ricorre in una lunga sequenza di Miriam si sveglia a mezzanotte con David Bowie). La tecnica usata è un ingegnoso gioco di contrasti di luce: l’attrice era truccata con un fondo di cerone blu (invisibile a causa del bianco e nero del film) e delle rughe di colore rosso, sfruttando poi un gioco di lampade colorate per nascondere o esaltarne l’invecchiamento. Una strategia da autentico artigiano dell’orrore che spiegò anche, in seguito, durante un programma televisivo (che trovate su Youtube).

    I Vampiri è carico delle classiche suggestioni del gotico, dai castelli maledetti ai riferimenti alla magia nera, in un agglomerato vintage che risulta forse un po’ datato, ad oggi, ma che resta in grado di mantenere il proprio fascino per i cinefili.

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