FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • The Poughkeepsie Tapes: l’horror virale per eccellenza

    The Poughkeepsie Tapes: l’horror virale per eccellenza

    Durante un’ispezione nella cittadina di Poughkeepsie, la polizia ritrova una quantità impressionante di videocassette girate dal serial killer Edward Carver. La storia viene raccontata mediante la proposizione di alcuni di quei nastri, caratterizzati dalle più feroci efferatezze.

    In sintesi. Guilty pleasure di quelli sopra la media, sia per il realismo delle immagini che per il tipo di storia. Al netto delle riprese in VHS il cui effetto sembra ottenuto in post-produzione, e che possono non piacere a tutti, rimane tra i migliori finti-documentari horror mai realizzati.

    The Poughkeepsie Tapes sarebbe uno shockumentary-mockumentary come tanti, se non fosse per alcune caratteristiche che lo rendono unico, in effetti. Il primo motivo di interesse riguarda la caratterizzazione del killer. In primis possiede determinate parafilìe: da un filmato vediamo che è un looner o feticista dei palloncini, per cui lo scoppio del pallone rappresenta l’estasi dell’orgasmo, ma anche quella della morte. Da un altro filmato viene esplicitata una forma di sadismo del genere master-slave. Il personaggio di Ed viene ritratto nel suo beffardo essere anti-sociale, tanto abile tecnicamente quanto spietato come killer. Come nel cult Henry – Pioggia di sangue è affetto da turbe violente di natura socio-psicologica, ed il film presenta la visione dei suoi delitti dalle VHS trovate dalla polizia, alternata dalle interviste a chi si era occupato del caso. Ed è imprendibile, almeno in apparenza, tanto che la sua storia viene anche sfruttata per lanciare un messaggio contro le conclusioni facili indotte dalla pena di morte (un’altra persona scambiata per lui). Niente male, insomma, per un sotto-genere di horror che, in altri casi (Snuff 102, ad esempio), è più incentrato sulla pornografia delle immagini che sulla sostanza, e che – in questa sede – si richiama a vari film analoghi in cui la storia viene fatta credere come realmente accaduta.

    La sopraffazione di Ed riguarda, come suggerito dalla voce narrante, un trauma – o una serie di traumi regressi – in ambito relazionale, che l’uomo compensa nel modo più violento, infierendo sulle vittime e “specchiandosi” nei video che gira come protagonista assoluto, feroce quanto tormentato. Tale caratterizzazione è non soltanto ben definita, ma anche estremamente teatralizzata, come è possibile vedere mentre si riprende, durante alcune torture, nei panni del Medico della peste. Un personaggio della Commedia dell’Arte spaventoso e dal caratteristico “becco”, il che sembra lenire il suo senso di colpa ed aiutarlo e vestire dei panni adeguati rispetto a come potrebbe essere nella realtà. In altri casi comparirà con una tuta anti-contaminazione ed una maschera antigas, anche qui probabilmente a simboleggiare il suo sdoppiamento di personalità. Oltre ad essere un abile manipolatore (cosa evidenziata dalla sindrome di Stoccolma di cui sarà affetta una delle vittime) rimane anonimo, uno della folla, ed è questo che lo rende in definitiva perfettamente inquietante.

    In secondo luogo, Ed è anche un abile regista (di riflesso lo è anche Dowdle, ovviamente), in grado di posizionare la telecamera che usa per filmare i delitti in più modalità: in soggettiva tipo Halloween, ma anche mediante singolari angolature sfalsate, che conferiscono un certo senso di inquietudine e fanno sembrare il tutto uno snuff vero. Nulla a che vedere con film analoghi come The Blair Witch Project, comunque, in cui la scelta di non mostrare la strega finiva per sembrare più di comodo che stilistica, senza contare il sottotesto che – se nel succitato era praticamente assente – qui è fortemente radicato nella realtà degli Stati Uniti, paese in cui le storie di serial killer sono iper-amplificate dai media e tanto frequenti da aver scatenato vere e proprie psicosi.

    The Poughkeepsie Tapes è anche privo della componente di ostentata amatorialità che accomuna (purtroppo) i prodotti di questo tipo, essendo diretto e sintetico nel suggerire sviluppi e sotto-trame nella storia: ad esempio il killer che si finge solidale con la madre di una delle vittime, riprendendo la scena e filmando la reazione della donna mentre capisce, lentamente, chi abbia davanti. L’orrore del film, peraltro, è spesso di natura simbolica quanto gore: l’inserimento della testa dell’uomo nel cadavere della donna mediante taglio cesareo suggerisce un qualcosa di esoterico, ad esempio – ma questo non viene nè ostentato nè mostrato più dello stretto necessario, evidenziando una buona capacità di sintesi da parte del regista Dowdle (autore anche dello script). Una dote vera e propria, oserei scrivere, per un sotto-genere che andava di moda anni fa come torture porn (in cui l’agonia delle vittime viene ripresa in camera fissa ed in modo lungo, insistito e spesso ostentato), inaugurato nel mainstream da film come Hostel e reso celebre da svariati (quanto, a volte, inutili e fini a se stessi) epigoni.

    The Poughkeepsie Tapes rimane avvolto da una coltre di mistero che persiste fino ad oggi, dato che (secondo IMDB) non è mai stato fornito alcun chiarimento ufficiale sul film; una cosa che, in questi casi, è uno standard ai confini del buffonesco, con il regista o qualcuno della produzione che, prima o poi, fa un’intervista e/o rilascia una dichiarazione della serie: “ehi, era solo un film, non era uno snuff movie“. Ad oggi potrebbe essere creduto, ovviamente a torto, uno snuff con reali omicidi al suo interno; ma basta dire che si tratta di un buon prodotto low budget, e tanto basta. Il personaggio dell’inquietante killer è interpretato, per la cronaca, da Ben Messmer, che lo rende teatrale, molto credibile e particolarmente spaventoso, soprattutto perchè non ha nulla di artefatto e sembra seriamente affetto dalle peggiori turbe psichiche.

    Un film del genere, passato in sordina all’epoca e mai distribuito nelle sale italiane (ha avuto più di un problema di distribuzione, e solo da qualche anno esiste in DVD), non può ragionevolmente rientrare tra i film consigliati, ma può essere visto per provare sensazioni diverse dal solito, ed affacciarsi fuori dal mainstream verso i meandri dell’horror realistico: in fondo potrebbe essere un buon inizio.

  • Der Todesking è l’horror underground definitivo

    Agli occhi di una bambina (che lo disegna nella prima e nell’ultima scena del film) non sarà altro che uno scheletro un po’ naive, con una semplice corona in testa, dal quale sembra non debba esserci nulla da temere. I vari suicidi sembrano causati dalla lettura della lettera della setta (il vecchio sito di Exxagon riportava il contenuto esatto, che ho ricopiato di seguito), ma questa in fondo è solo una spiegazione razionale (o quasi) di una catena di suicidi-omicidi che mostrano la pochezza della natura umana: fragile, contraddittoria, e come se non bastasse spesso anche violenta.

    In breve: uno dei capolavori di Buttgereit, il re del cinema orrorifico tedesco low-cost.Concettualmente studiatissimo, macabro, estremamente violento e senza tregua. Data la tematica trattata (7 modi per suicidarsi), alcune scene molto forti e lo stile “amatoriale” (molto, molto realistico) puo’ risultare decisamente inadatto ai più sensibili. Gli altri, forti e cinici, si accomodino pure a visionare.

    Il cadavere in putrefazione in vista nel film ha fatto scatenare interpretazioni di ogni genere, anche se quello che rimane è la cruda, realistica e se vogliamo agnostica verità: la morte non è altro che la decomposizione di un cadavere, cosa che spesso funerali pomposi e bare benchiuse ci fanno dimenticare. I vermi che divorano il cadavere sono ancora più disgustosi perchè sono affiancati a gesti banali e comuni nella vita di ogni giorno, come scrivere una lettera, mangiare cioccolatini, vedere un film, fare un bagno, spiare i vicini dalla finestra o sfogarsi con un conoscente.

    Ingannata dalla vita, questa creatura cerca di dare un ultimo segnale, di darealla sua vita un significato postumo con la sua morte. La frustrazionedella sua stessa esistenza e la negligenza di una società spietatamente progressista si manifesta in questo atto universale di vendetta. Il suicida sembra puntare a tutti quelli che l’hanno sempre ignorato. Per una volta LUI fa la storia, è alle luci della ribalta, e finalmentele persone sono interessate alla sua vita. Fugge da una vita “morta” verso una morte “viva”, sapendo che, per lo meno per qualche giorno, avrà quasi l’intera attenzione del pubblico. Questoassurdo desiderio… è probabilmente molto più autentico e genuino di tutta la sua virtuale non-esistenza precedente. Egli, “assassino-di-massa-senza-movente”, è il martire del Post-modernismo (tratto dal video-testamento di sabato)

    Se non avete visto questo film, spero che queste righe possano stimolarvi a farlo: vi avviso comunque che non è  assolutamente un’opera per tutti, ed ha la capacità di lasciare profondamente scossi, se non si guarda con cinismo. Si tratta di un film molto bello, che riesce a dare profondità ad una marea di argomenti (e a tratti quasi a commuovere), a patto di NON avere come pubblico persone troppo sensibili o impressionabili, gente che vuole essere allegra a tutti  i costi, aspiranti suicidi reali ed i famigerati tizi che credono nella “iella”.

    Lunedì: un impiegato, prima di licenziarsi definitivamente dal lavoro, scrive una lettera. Tornato a casa, primi piani su una palla di vetro con  un pesce rosso all’interno.: l’uomo (che viene impietosamente paragonato ad un animale acquatico intrappolato in una vasca, ovvero casa sua) mangia una scatoletta, fa un bel bagno  caldo e si ingozza di medicinali fino a morire annegato.

    Martedì: un ragazzo noleggia il film nazisploitation “Vera – Todesangel der Gestapo” presso la videoteca “Videodrom” (dove peraltro c’è “Nekromantik” in bella vista!). Jorgi Butti & Francesco Tortellini sono i beffardi  (!) pseudonimi dei registi del  (falso)film, che rappresenta varie atrocità naziste tra cui l’evirazione di un prigioniero (che, casomai interessasse qualcuno, avviene con una cesoia non troppo affilata e viene mostrata in primo piano!). Nel frattempo rientra la fidanzata del nostro cinefilo, il quale non trova di meglio da fare che sopprimerla con un colpo di pistola in testa, ed incorniciare la macchia di sangue sul muro. Per qualche motivo la scena è stata vista in un televisore (il regista gioca un po’ col meta-cinema, e gli riesce anche bene) di un appartamento in disordine, con un gatto nero che divora delle briciole sul letto mentre un uomo (non inquadrato) si è appena impiccato.

    Mercoledì: una donna cammina tristemente sotto la pioggia, tormentata da ricordi  non precisati che lascia cadere da una lettera in una pozza d’acqua . Uno sconosciuto seduto su una panchina le racconta dei problemi  sessuali con la moglie, in un lungo sfogo  di frustrazione mai sopita. Il problema sembra peraltro toccare più lui che la consorte, in quanto colpito nel suo orgoglio maschile che degenera previdibilmente in sopraffazione violenta (“non potevo più sopportare la sua gentilezza“). Il marito personifica, in un monologo delirante, le aspirazioni subdole di un certo maschio-medio che, portando la moglie al museo ed “in un ristorante costosissimo“, insomma rispettando lo stereotipo del “bravo marito gentile“, pretende di avere una macchina da sesso al proprio servizio. Le sue aspettative l’hanno condotto all’omicidio della consorte (per sua stessa ammissione mediante decapitazione): a questo punto la mora vista all’inizio spara al violento, il colpo non è in canna, quest’ultimo prende la pistola, carica il colpo e si suicida (non inquadrato). Da notare l’effetto rallentamento utilizzato dal regista nel momento più intenso del racconto, al fine di distorcere la voce del protagonista, manipolare le immagini in modo “cinematografico di vecchio stampo” ed eliminare, soprattutto, il riferimento-audio all’arma utilizzata.

    Giovedì: viene mostrato un ponte mentre passano in sovraimpressione nomi di persone, età e professioni a formare un’anagrafica di suicidi. Quello che colpisce è la gamma di professioni mostrate (apprendista, attore, casalinga, pensionato, …) e delle età (da 17 a 71 anni), quasi a voler dimostrare che nessuno di noi è immortale. Il sonoro è un macabro naturale proveniente dal posto, nel quale si sentono correre le macchine sull’asfalto e nient’altro rende più sostenibile la visione. Semplice, geniale e raggelante. Ancora di più se si considera l’ironia – abbastanza macabra – celata dietro l’episodio: i nomi sono delle storpiature demenziali come Bettina “Pfister” (“scoreggia”). Suicida per un orribile cognome mai voluto: non è ancora peggio?

    Venerdì: si passa a mostrare l’appartamento di una signora di età avanzata, la quale spia con interesse una giovane coppia che abita di fronte. Ancora una volta la solitudine è causa di depressione e di morte: in preda ad una sorta di frustrazione, la signora prova a telefonare nell’appartamento, e non ricevendo risposta inizia a leggere la lettera di una setta che ha appena ricevuto. Successivamente beve da una bottiglietta, mangia qualche cioccolatino e si addormenta, sognando di vedere i propri genitori fare sesso. Al risveglio l’occhio dell’inquadratura ritorna sulla finestra della coppia, che viene poi inquadrata a letto, dove entrambi i ragazzi sono morti dopo essere stati probabilmente seviziati. Non è chiaro il collegamento, ma sembra che l’omicidio l’abbia commessa l’anziana signora.

    Sabato: dopo una dichiarazione delirante lasciata su una bobina – come una sorta di video-testamento – una ragazza indossa una specie di imbragatura con una cinepresa sulla spalla, in modo da poter riprendere in soggettiva l’omicidio che sta per commettere. Recatasi in un cinema dove si sta svolgendo un concerto rock (il gruppo si chiama “Overture Socialdeath”), spara l’uomo all’ingresso, il cantante del gruppo e ripetutamente il pubblico. La scena viene inquadrata prima in soggettiva, poi dal fondo del cinema: primo piano sulla ragazza, e fine dell’episodio.

    Domenica: torniamo in un appartamento nel quale un ragazzo si è appena svegliato.  Dopo aver fissato il vuoto, inizia a piangere senza dare spiegazioni ed a contorcersi nel proprio letto con le mani sulla testa.  Avvolto nella disperazione più cupa, la sua soluzione sarà di iniziare sbattere la testa al muro con violenza. Dopo un’ulteriore angosciante attesa di colpi ripetuti, gli ultimi urti lo portano alla morte.

    Quasi a volerci rassicurare (come se fosse possibile!), nella scena finale viene mostrata la bambina della scena iniziale che proclama con innocenza: “questo è il re della morte, che fa desiderare alle persone la morte”, mentre mostra il disegno che ha appena fatto. Successivamente foto del re della morte in bianco & nero, con teschio in mano e bambino seduto ai suoi piedi: fine del film. I titoli di coda – spoiler alert, ma in questo caso credo non abbia troppo senso avvisare, tanto risulta sovvertita la narrazione – mostrano foto di bambini (probabilmente i vari protagonisti degli episodi da giovani), quasi a lasciare un monito. Un messaggio: non perdere mai l’innocenza del tutto, al fine di non affogare nella melma ipocrita delle relazioni umane degli adulti che il pubblico ha avuto modo di vedere nel film: depressi, chiusi in se stessi, potenziali-stupratori, invidiosi, omicidi, pervertiti e quant’altro. Quantomeno, questa è l’interpretazione che mi sento di dare dopo averlo visto tre (!) volte: spero che non sia troppo diversa dalla realtà.

    La mia traduzione del pezzo succitato è riportata di seguito, assieme al brano originale, per cui ho cercato di rispettare lo stile di scrittura abbastanza asciutto (quanto inquietante).

    PERDIAMO LA VITA CON GIOIA (Lautréamont). Questa è una catena di Sant’Antonio (chain-letter nell’originale, ndt). E questo è un messaggio. E questa è la parola finale, per finire una lunga lotta. Quando riceverai questa lettera, SAREMO MORTI. E vogliamo che tu, dopo aver inviato più copie possibili ai “non ancora morti”, TI SBARAZZI DELLA TUA VITA senza esitazione. Secondo la nostra percezione: MUOIO, QUINDI SONO!! La vita è illusione e diventa ridicola e priva di significato una volta che la affrontiamo. L’unica sicurezza che è in grado di offrire è LA MORTE. Miriamo tutti A LUI, siamo promessi A LUI e prima ci sono solo agonia ed assurdità. L’uomo viene al mondo da solo, e resta solo. La sua vita è una lotta senza fine su di lui, una lotta contro questo antico desiderio, l’impulso più dolce, che ci tiene TUTTI nelle sue mani: THANATOS, il desiderio di morire. Tutto ciò che vi chiediamo è di seguire questo desiderio. È quasi ora … La vita è un anacronismo. In sei giorni, dio ha creato il cielo e la terra. Il settimo giorno si è suicidato … LASCIATECI MORIRE Il vangelo secondo “La fratellanza del settimo giorno”. (Originale: WE LOSE OUR LIFE WITH JOY (Lautréamont). This is a chain-letter. And it is a message. And it is the final word, to end a very long struggle. When you get this letter, WE ARE DEAD. And we want you, after you have sent as much copies as possible to the “not-yet-dead”, TO TAKE YOUR OWN LIFE without hesitation. According to our realization: I DIE, THEREFORE I AM!!. Life is an illusion and become ridiculous meaningless once we face it. The one security life has to offer is DEATH. We aim towards HIM, we are promised to HIM and before there’s just agony and absurdity. Man comes alone and remains alone. His life is an endless fight put upon him, a struggle against this ancient desire, the sweetest urge, that holds ALL of us in its hands: THANATOS, the longing for death. All we demand of you is to follow this longing. It’s about time… Life is an anachronism. In six days, god created heaven and earth. On the seventh day he killed himself… LET US DIE The gospel according to “The Brotherhood of the Seventh Day”.)

  • Nightmare – Dal profondo della notte è l’atto di nascita del mostro di Elm Street

    Un gruppo di adolescenti americani scopre di avere un sogno ricorrente in comune: un uomo che li perseguita e che sembra in grado di trasformare ogni incubi in realtà.

    In breve. Uno degli horror storicamente più importanti per atmosfera, storia, interpretazioni e “morale”. Standing ovation per la regia.

    Commentare un film del genere a (più di) quaranta anni dalla sua uscita (1984) è un’impresa che richiede, come primo passo, la piena comprensione filologica del contesto in cui nasce: diversamente si rischia di ritenere che Fred Krueger sia nato come un villain da fumetto. La regia di Craven veniva dall’esperienza precedente (1982) di aver diretto la versione cinematografica di Swamp Thing (fumetto della DC Comics) il quale, guarda caso che (forse) non è un caso, parlava di un personaggio assassinato che torna in vita da una palude. La filmografia del regista che diventerà di culto per questo film è fino ad allora molto tormentata: ci sono due grandi successi exploitation: Le colline hanno gli occhi e L’ultima casa a sinistra, autentici saggi di pessimismo sociologico, almeno un film per adulti e qualche altro titolo poco noto o mal distribuito. Partire dalla cronaca che ispirò la scrittura del soggetto è forse il modo migliore per introdurci in una saga che la cultura pop ha declinato – forse erroneamente – più come un’icona fumettistica che come un simbolo di un orrore profondo, inesprimibile, atavico. In effetti Nightmare – come Venerdì 13 – è più noto come saga che come film originale, e questo naturalmente deriva dall’averlo reso un brand: ma sarebbe un delitto non sottolineare i meriti di questo cult del genere, invecchiato benissimo e ancora oggi spaventoso e sorprendente.

    Una citatissima cronaca di fine anni Settanta raccontava di un gruppo di rifugiati cambogiani della tribu Hmong: sfuggiti alle persecuzioni di Pol Pot, si erano nascosti negli Stati Uniti. Molti di loro soffrivano di frequenti incubi, al punto di rifiutarsi di addormentarsi, pur di non farne. Fu ritenuto opportuno curare la loro insonnia con dei medicinali, e l’unico risultato che si ottenne fu farli dormire brevemente, farli risvegliare urlando e – a quanto sappiamo – morire sul colpo poco dopo. Ad essere vittime di questo singolare caso che Wes Craven sicuramente conosceva (e che stimolò la sua fantasia) fu il caso di un ragazzino scomparso senza una causa clinica evidente. Moltissime creepypasta e leggende urbane, del resto, hanno a che fare sia con un uomo misterioso che aggredisce le proprie vittime, approfittando (spesso e volentieri) della loro curiosità, sia con dipartite più o meno bizzarre, accidentali o casuali.

    «One, two, Freddy’s coming for you,
    three, four, better lock your door,
    five, six, grab your crucifix,
    seven, eight, gonna stay up late,
    nine, ten, never sleep again!»

    Quando si addormentò, i suoi genitori si erano forse illusi che il problema fosse risolto. Poi sentirono delle urla nel cuore della notte e lo trovarono morto. Morto nel mezzo di un incubo” – raccontava Craven in un’intervista. La storia del piccolo rifugiato dal genocidio, terrorizzato dal dormire per paura di essere attaccato nei sogni e di non svegliarsi mai più, fu la molla che fece inventare Fred Krueger, vittima a sua volta di abusi da piccolo e diventato un mostro vendicativo che si muove dentro gli incubi.

    Nell’atmosfera familiare in cui si ambienta il film la storia di Freddy sembra stonare malamente: solo i ragazzi si accorgono della sua presenza, facendo tutti lo stesso sogno con il medesimo “uomo nero” a tormentarli. Quelli che sembrano comuni incubi che lasciano scossi per qualche minuto per poi dileguarsi diventano casi di omicidio: alcuni ragazzi muoiono nel sono nei modi più cruenti, e uno di loro viene anche accusato dell’omicidio della fidanzata. Sarà Nancy, la giovane figlia dello sceriffo, a sfidare apertamente il mostro, mentre i genitori mostrano di nascondere qualcosa (sono stati loro a uccidere Freddy, si scoprirà). Il tema della giustizia sommaria è ampiamente trattato in questo Nightmare come già avvenuto, del resto, in altri celebri film del regista, e in un caso avevamo assistito a dei genitori che si imbattono casualmente negli assassini dei figli. In questo caso la logica è invertita, perchè sono i genitori ad aver ceduto alla vendetta: Fred era stato condannato per aver molestato e ucciso dei bambini, ma è uscito dal carcere per un errore burocratico. A quel punto i genitori della città hanno stabilito di ucciderlo dando fuoco alla fabbrica in cui si trovava, per poi seppellire il gesto nel proprio inconscio e dimenticarlo.

    È frequentissimo, infatti, che la madre di Nancy inviti la figlia sempre più irrequieta a riposare, a nascondersi nell’oblio del sonno a dimenticare tutto, come se questo potesse cancellare quanto avvenuto ed evitare che possa rivoltarsi contro. Nightmare non è, a questo punto, solo una di saga del villain crudele che colpisce in modo seriale e senza limiti: è la materializzazione del senso di colpa di una generazione di genitori che non solo si sono fatti giustizia da soli, ma rifiutano di dare spiegazioni ai figli anche quando ci vanno di mezzo le loro vite.

    Basandosi su quella storia in bilico tra cronaca e urban legend, Wes Craven costruisce una saga horror tra le più famose e citate al mondo – oggetto in questo primo capitolo di un remake di qualche anno, di tutt’altro sapore e fattura –  e consegnando al pubblico una storia dai tratti epici o addirittura mitologici: un assassino che opera tra sogno e realtà, in grado di fuoriuscire dagli incubi delle sue vittime e diventare carne e ossa. Un qualcosa che solo la cultura classica di Craven (che nel film cita anche Shakespeare, ad un certo punto) poteva concepire, aspetto che rende l’idea dell’originalità del film già di per sè.

    In questo primo Nightmare i personaggi si muovono tra incubo e realtà, e questo confine viene apertamente valicato dal mostro che, ad un certo punto, sembra essere entrato nel nostro mondo. Cosa di cui lo spettatore non è mai sicuro, in effetti: come tradizione amava girare in quegli anni, non si fa capire allo spettatore dove cominci l’incubo e dove finisca la realtà, conferendo così molto hype alla storia e rendendola affascinante. Tale caratteristica rende spaventoso un film che, senza questo accorgimento, poteva essere uno dei tanti slasher ottantiani (prodotti spesso senza infamia e senza lode). Nightmare è un rarissimo slasher sovrannaturale come pochi ne sono stati girati: un’ombra impalbabile, un uomo nero che sbuca da ogni angolo e terrorizza per vendetta i figli di chi l’ha ucciso. È uno dei leitmotiv più celebri dell’arte, quello delle colpe dei padri che ricadono sui figli, e non sorprende che sia arrivato anche in film non propriamente horror come Il sacrificio del cervo sacro. Quel senso di colpa, forse, non si è mai estinto sul serio.

    Con la partecipazione di John Saxon (Donald Thompson), dell’icona del cinema horror Heather Langenkamp (la giovane Nancy) e la comparsa di Johnny Deep appena ventenne (Glen), Freddy (ovviamente Robert Englund) tormenta i sogni dei figli di coloro che lo hanno ucciso, attivando una singolare vendetta varcando le porte del sonno, senza perdere mai quel suo tocco di humor nero che lo rendono “più villain” di qualsiasi altro. Da un lato, infatti, le gag di Freddy servono ad accentuare la sua componente malvagia e aumentare il distacco dallo spettatore, dall’altro è piuttosto chiaro che questo personaggio simboleggi, più di qualsiasi altro, il senso di colpa collettivo che grava sull’umanità, colpevole di ergersi al di sopra degli altri, giudicandoli e spesso addirittura eliminandoli sulla base di un giudizio inappellabile. Ovviamente nessuno riuscirà mai a simpatizzare per un villain del genere – eccezion fatta, naturalmente, per i cinefili di vecchia scuola – o potrà mai essere colto dal dubbio che Freddy paghi per una colpa che non ha mai commesso. Non è questo il punto e probabilmente non vale la pena discuterne: eppure l’essenza di Freddy come personaggio rimane stregonesca, tant’è che viene mandato al rogo e poi torna in vita (in forma di demone) per farla pagare all’umanità.

    Questo primo episodio è un film incalzante, spaventoso e con numerose scene cult: l’artiglio che esce fuori dalla vasca da bagno durante il bagno di Nancy, ad esempio, oppure il povero Glen che viene “risucchiato” nel proprio letto. Tutte scene non semplicemente “di cassetta”, ma cariche di valenza simbolica, con riferimenti alla scoperta della sessualità, al passaggio traumatico all’età adulta e al classico evergreen degli adulti che non ascoltano i ragazzi (ogni segnalazione della presenza di Freddy viene regolarmente bollata come una stupidaggine, o viene comunque minimizzata dai genitori). In questo senso Nightmare esprime la propria grandiosità come una critica sferzante a certa genitorialità, ai figli fatti per onorare le aspettative sociali, ai figli da esporre come trofei senza mai badare alla loro vita, ai loro problemi, ai loro incubi. E viene il forte sospetto che Freddy esprima esattamente questo tipo di orrore, a livello quantomeno inconscio, anche in considerazione del fatto che si tratta di un film moderno, veloce, atmosferico e senza fronzoli, per il quale il tempo non sembra essere trascorso.

    Il fatto che sia stato ripreso nel 2010 nel remake di Samuel Bayer – il regista di Transformers, ad esempio – suggerisce ovviamente che, nell’industria cinematografica moderna, le idee scarseggino da un po’: per certi versi rifare “Nightmare – Dal profondo della notte” oggi è come chiedere a una persona di ringiovanire di quaranta anni, aspettandosi che lo faccia all’istante ed indignandosi se non riuscisse. Il film di Bayer non è male, a ben vedere, ma non riesce a ricalcare l’ombra autentica di questo originale, che è pur sempre un horror ispirato ad un fatto di cronaca e che ha fatto scalpore all’epoca, come farebbe oggi qualsiasi film si ispirasse a un fatto di sangue avvenuto in Italia, immaginando che l’assassino sia prima linciato dalla folla e torni a vendicarsi dei giornalisti che scrivevano titoli clickbait. Un’idea articolata del genere, probabilmente, poteva funzionare solo nei vecchi anni Ottanta, dove l’horror viveva una delle sue ennesime crisi creative e per rilanciarlo ogni regista era spesso costretto a ricorrere al surreale.

    In fondo lo spessore di Nightmare conferito da Wes Craven in questo primo episodio, che aveva fatto scomodare più di un critico a riguardo, era annesso allo scherno sarcastico delle sue vittime, con il quale esacerbava la propria immoralità. Sebbene i temi principali del film siano la perdita dell’innocenza e la mancanza di comunicazione tra generazioni, Freddy diviene  simbolo di un Male che, come spesso in Craven, finisce per ritorcersi contro giovani sprovveduti, mentre gli adulti stanno semplicemente a guardare.

    Nel nostro paese esistono due versioni del film: una più corta di circa con il taglio delle scene più violente, e la “Director’s Cut” integrale che comprende varie scene censurate, inserite nella versione digitale, dove si nota che alcune parti non sono state nemmeno doppiate in italiano (sono in lingua originale). Per quanto riguarda la questione del finale, esiste una notissima “happy end” razionale che suggerisce si sia trattato di un semplice incubo, e due versioni “pessimistiche” in cui Freddy sbuca fuori in due modi imprevedibili (tutto questo materiale è disponibile nel DVD come “alternate endings“).

    Per chi volesse tuffarsi nella croni-storia del personaggio, trovate su questo sito le recensioni di tutti i film “ufficiali” della saga (ad esclusione dei vari spin-off): Nightmare – Dal profondo della notte, Nightmare – La rivincita, Nightmare – I guerrieri del sogno, Nightmare – Il non risveglio, Nightmare 5 – Il Mito, Nightmare La fine.

  • Pontypool: quando l’horror si mette in cattedra e fa accademia

    Grant Mazzy è uno speaker radiofonico quasi a fine carriera, che conduce il suo programma assieme all’ansiosa produttrice e ad una giovane regista. Durante la diretta arrivano notizie inquietanti: sembra che Pontypool, la città in cui è ambientata la storia, sia stata contagiata da una misteriosa epidemia…

    In breve. Unico nel suo genere quanto vagamente didascalico, certo non un capolavoro: sembra di assistere al primo horror puramente “di parola” della storia. Poco dopo, la storia degenera nel classico accerchiamento da zombi. Non è scontato, a mio avviso, comprendere il focus della trama, e questo non giova alla qualità globale della pellicola. Certamente un film da non sottovalutare, per quanto destinato – nel suo essere fieramente indie – alla nicchia di spettatori più propensa all’orrore puramente metaforico.

    L’interno di una stazione radio è l’insolita ambientazione scelta per questo horror low-budget tratto dal libro “Pontypool Changes Everything” di Tony Burgess, da cui la BBC ha anche tratto – in modo piuttosto scontato, direi – un dramma radiofonico di circa un’ora. Il regista McDonald propone quindi una storia del terrore decisamente anticonvenzionale, basata parecchio sulla parola (e solo in parte sulle immagini), che porta al parossismo il tutto esprimendo l’idea che la lingua inglese sia stata infettata da una specie di meme virale, il quale spingerebbe le persone a diventare zombi assassini (questa, almeno, sembra essere l’interpretazione più plausibile). Per quanto sembri un’idea stramboide – ed in certa misura lo è – merita una standing ovation l’essersi distaccati, quantomeno, dalle consuete cause scatenanti del contagio (alieni, meteoriti, esperimenti militari, cause ignote). Molto meno esaltante la dinamica del film stesso, che tende secondo me a far perdere di vista il focus dell’intreccio costringendo lo spettatore a darsi un paio di scosse, nel terrore di essersi perso qualche dettaglio importante. In due parole: non è troppo chiara la causa del contagio.

    Assolutamente claustrofobica, poi, e piuttosto azzeccata, la scelta di destinare l’ambientazione dell’intero film all’interno della radio, con echi ovvi sia a moltissimi classici zombi movie del passato (La notte dei morti viventi, Zombi), sia al finale di uno dei lavori più sfortunati di Fulci (Zombi 3). Non mi sento quindi di affermare che il messaggio passi chiaramente, e questo per ragioni di sceneggiatura ampiamente discutibili: sia perchè la trama sembra preoccuparsi – più che dare plausibilità alla causa del caos che attanaglia Pontypool – di forzare la mano sullo scienziato che spiega tutto (?), oltre che su uno dei flirt più melensi ed improbabili dell’universo conosciuto. E poi mi spingo oltre: è abbastanza assurdo che uno spettatore medio debba, per godersi il film appieno, leggere i vari “spiegoni” che sono diffusi sul web a riguardo. Il mio ovviamente è un parere personalissimo, può darsi che la sua visione si riveli molto più gradevole per la maggioranza di voi, ed io – per quanto abbia cannibalizzato negli anni pellicole decisamente più contorte, stramboidi e surreali di questa – ho trovato “Pontypool” riuscito solo in parte, immerso com’è nel cercare di fare sociologia del linguaggio “de noantri“, e troppo poco concentrato a produrre un buon horror.

    Da un lato viene ripresa a piene mani, sia dal punto di vista visivo che concettuale, lo zombi romeriano come sinonimo di personalità conformista, ottusamente coinvolta nel ripetere parole come un mantra, e naturale sinonimo di disumanità, cannibalismo e omologazione. Niente male, comunque, per quanto ciò sia parecchio distante dai gusti di quel pubblico horror che predilige l’azione sulla riflessione meta-cinematografica e/o sociale (c’è modo e modo). Si insiste anche, sottilmente, su un ulteriore concetto – quello sì, sanamente radical chic: quello del doversi distaccare dal conformismo della comunicazione verbale per sopravvivere, in particolare da quello dei mass media e, più in generale, delle parole che non significano più nulla, e che si riducono ad un mero ripetersi di idiomi senza significato che ci rendono … morti viventi (maddai). Solo cambiando la semantica, sembra suggerire il regista, ovvero stravolgendo la parola più terrificante che possa esistere (kill) e trasformandola in tutt’altro (kiss), si può riprodurre un barlume di speranza, per quanto questa trovata sia stereotipicamente hippie e (probabilmente) forzata.

    Come se non bastasse, per il regista non si tratta di zombi, bensì di conversationalists – ovvero persone che – avendo saturato il proprio linguaggio – sono involuti allo stato di belve, e desiderano solo strappare la lingua a morsi di qualcun altro. A fine visione del film, può essere richiesta una breve relazione su quanto visto da parte degli spettatori…

  • Oltre il guado: folklore e horror del film di Bianchini

    Un etologo sta seguendo alcune tracce nelle foreste sperdute tra Fruili e Slovenia, monitorando gli animali che attraversano la zona. Una telecamera montata sul corpo di una volpe gli mostra una località sconosciuta, apparentemente abbandonato, giusto oltre il fiume…

    In breve. Notevole horror italiano che non ha nulla da invidiare alle produzioni più blasonate e citate. Bianchini è un talento del genere e rielabora a modo proprio, con grande stile, archetipi lovecraftiani e fulciani. Da non perdere.

    Oltre il guado di Lorenzo Bianchini potrebbe rientrare in quei film che, pur non potendo piacere a chiunque – perchè nessun film ci riesce, in fondo – riescono lo stesso a far parlare di sè. E questo avviene per meriti veri: perchè, diversamente da troppe produzioni indie (troppe delle quali tendono ad essere iconiche quanto stucchevoli, quando non puramente masturbatorie) si esprime finalmente in un linguaggio robusto, propinando una storia accattivante ed una fotografia nitida. Nonostante qualcuno sia stato tentato ad accostarlo allo pseudo-snuff della strega di Blair, infatti, Across the river va molto oltre; addirittura, in certi passaggi mostra indirettamente cosa sarebbe potuto essere il discusso film di fine anni 90 di Myrick e Sanchez, uno dei primi casi di pellicola promossa grazie al viral marketing e alle fake news sul web.

    Se è vero che da tempo l’horror ha trovato una nuova dimensione nei deliri new horror di Laugier, Roth e Gens, in grado (con gradazioni diversissime) di modernizzare ed innovare il genere, al tempo stesso bisogna constatare che l’altra tendenza, parallela, è quella dell’essenzialità esistenzialista e paranoica degli horror scarni, impalpabili e diretti come Buried, Haze e naturalmente questo. Probabilmente, uno dei migliori del suo sotto-genere, almeno tra quelli usciti negli ultimi anni.

    La storia di Oltre il guado è quella di un etologo avventuriero, incuriosito dai misteri di un bosco che si scopre contenere un antico paese, abbandonato dal dopoguerra; in questo, Bianchini non risparmia dettagli contestualizzanti, facendo raccontare parallelamente la storia a quelli che sembrerebbero essere due anziani ex abitanti. Al tempo stesso, la narrazione è condotta da elementi minacciosi (la natura ostile – e il fiume, soprattutto) ed altri relativamente rassicuranti (il camper, il computer, il fucile con visore notturno); col tempo, la parte rassicurante della storia si dilegua, sembra quasi farsi consumare dall’insistenza di quella pioggia battente.  E questo crea una tensione palpabile a cui è impossibile dare una spiegazione, e in grado di tenere lo spettatore incollato alla poltrona fino alla fine.

    Il protagonista resta infatti intrappolato nel villaggio, ed il pubblico è costretto ad affiancarlo nel suo spaventoso isolamento. Attenzione poi a pensare al solito b-movie “isolazionista” e girato alla buona: in questo bisogna saper valutare, a mio avviso, lo spirito sincero che muove Bianchini nel voler dirigere Oltre il guardo, un film indipendente assai pregevole. In fondo, chi va al cinema, non dovrebbe neanche sapere se sta vedendo un film dal budget milionario o di pochi euro: il biglietto da pagare, il più delle volte, quello è. Pregevole, folkloristico, pluri-premiato e (per una volta) molto facile da reperire online (c’è su Netflix).

    Se la storia è di per sè basilare, si riesce a svolgere in modo essenziale e particolarissimo, insistendo su elementi ricorrenti quanto suggestivi: elementi semplici, soprattutto, come l’acqua che invade l’ambiente di continuo (per un motivo che si capirà nel finale), e risparmiando i dettagli cruenti e splatter a semplici suggestioni, vaghi rimandi: il tanto che basta. Per il resto, la paura di Oltre il guado è quella di risate isteriche nella notte, isolamento notturno, porte e finestre che sbattono, mancanza progressiva di viveri, presenze che si dissolvono ed oggetti molto utili che scompaiono nel nulla.

    Mi sembra anche difficile cogliere precisi riferimenti ad altri film o cineasti, per quanto riesca ad essere personale questo eccezionale regista che comunque sembra conoscere sia Lovecraft che Lucio Fulci. A mio avviso, il vero merito è quello di aver saputo declinare, con mezzi e modi adeguati ai tempi di oggi, la celebre intervista a Fulci, quella in cui affermava che “l’orrore è pura idea“: in Across the river si sviluppano idee, archetipi della paura di ogni tempo, e sostanziali quanto imprecisabili sono i rimandi a molti generi (su tutti, l’uomo punito per la propria morbosa curiosità, per aver osato profanare segreti che dovevano rimanere tali – di natura chiaramente lovecraftiana, per inciso). Ma quello che spaventa davvero di questo film è l’idea di orrore che ogni spettatore vorrà immaginare dietro quella porta, in fondo alla cantina, dentro il camper del protagonista, forse anche negli sguardi dei due misteriosi personaggi più anziani (i cui discorsi sono in sloveno, e sono sottotitolati – credo volutamente – solo nella seconda parte).

    La visione di questo orrorifico one-man show, incredibilmente accattivante nonostante un soggetto restrittivo (il protagonista parla soltanto quando registra i propri appunti, e pochi altri sono i dialoghi del film), potrà comunque richiamare sia classici come La casa che alcuni episodi di AI confini della realtà, con la differenza che il taglio fumettistico/di intrattenimento dei succitati cede il passo ad un realismo concreto, mai esasperante (per intenderci, niente telecamere traballanti nè violenza gratuita di troppi pseudo-snuff). E se ancora non siete convinti di questa visione, considerate la grandissima qualità e nitidezza delle riprese e della fotografia, sempre pulita e modernamente sinistra. A questa qualità latente, poi, si aggiunga un’ulteriore trovata efficace: ovvero le due disgraziate sorelle che, nonostante si nascondano in vari anfratti, si vedono chiaramente e senza inutili misteri. Credo abbastanza convintamente che tanti altri film, più fiacchi, avrebbero insistito con suggerire la suggestione fino a stufare lo spettatore.

    Il tutto dovrebbe bastare a chiunque per trovare un’ottima scusa per gustarsi questa perla dell’orrore nostrano, passata un po’ sottogamba negli scorsi anni – e finalmente a disposizione del grande pubblico mediante Netflix.

    Curiosità: Oltre il guardo è una storia vera e/o è basato su una leggenda locale?

    Ha risposto il regista da Nocturno.it (riporto uno stralcio):

    La storia delle due gemelle maledette che infestano la zona, invece, ha come spunto una qualche leggenda popolare locale?

    No, però, sai, quando scrivi non inventi nulla di nuovo. Rielabori cose del tuo passato che ti hanno raccontato, che hai sentito, e quindi, involontariamente peschi dalla cultura locale popolare, sempre. Di rimando, c’è comunque quello che hai vissuto nella tua terra.

    Poi il fatto che la storia non dia tutte le risposte…

    Credo che sia questo il bello dell’orrore, che nei film horror non devi spiegare, secondo me, o almeno non in questi. Le gemelle possono anche essere state annegate ma non morte ed essere ancora lì, invecchiate, oppure possono essere dei demoni… mi piace il fatto che ognuno vada alla ricerca di una propria storia, di una propria idea. A me non interessava spiegare, se non introducendo i personaggi dei due anziani, cioè la memoria del vecchio, per dare un po’ di veridicità alle gemelle. Ma poi anche lui ha i ricordi sbiaditi, è tutta una cosa non spiegata che a me piace, e risulta realistico.

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