FOBIE_ (182 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Il demonio: il film anni 60 di Brunello Rondi sulla possessione

    Il demonio: il film anni 60 di Brunello Rondi sulla possessione

    Lucania: Purificazione (nomen omen) è posseduta da un amore non corrisposto per un compaesano, già promesso da tempo ad un’altra donna. I suoi comportamenti troppo passionali la porteranno ad essere vista con diffidenza, fino a subire veri e propri abusi…

    In breve. Un piccolo gioiello del cinema “demoniaco”, ricco di sfumature e dettagli antropologici, arrivato sugli schermi molto prima che il genere prendesse una piega monotematica (e spesso, purtroppo, alla pura ricerca di effettacci). Un film girato con piglio documentaristico, privo di eccessi ed apprezzabilissimo ancora oggi.

    Il demonio è un film del 1963 atipico, oltre che in anticipo sui tempi: è uno dei primissimi esempi di cinema con riferimenti demoniaci espliciti, genere che prese definitivamente piede solo con “L’esorcista” e “The omen“. Vale la pena di ricordare, fin da subito, la notizia di cronaca a cui Friedkin sembra essersi ispirato: un quattordicenne che, si racconta, venne liberato dal demonio mediante un esorcismo (“a 14-year-old Mount Rainier boy has been freed by a Catholic priest of possession by the devil, Catholic sources reported yesterday” raccontava il Washington Post nel 1949).

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    In questo lavoro di Rondi, ambientato nella Lucania più oscura e bigotta che si possa immaginare, emerge la bellezza sfregiata di Purificazione (Purì o Purif, in molte parti del film) contrapposta ai paesani rozzi, quale singolare simbolo dell’emarginazione del diverso. Una donna sola con la colpa di essere innamorata di un uomo già promesso, e di essere processata per questo dalla folla inferocita che mai, del resto, è entrata in empatia con lei.

    A differenza di altri film incentrati sul sovrannaturale, sulla propaganda religiosa o sullo splatter in quanto tale, emerge piuttosto la medesima, potente, critica sociale che potremmo esprimere oggi leggendo l’articolo, un po’ ingenuo, appena citato. Articolo che spiega, tra l’altro, la mia generale diffidenza nei confronti di questo sottogenere di horror, che cade (spesso, non sempre per fortuna) nell’errore di sembrare veicolato a messaggi catechizzanti – per non dire peggio. Errore che, a mio avviso, “Il demonio” non commette affatto, visto che il regista è particolarmente attento a ciò che mostra.

    Se questi presupposti ne fanno un film più “politico” (e più significativo) di altri banali e ripetitivi epigoni del genere, numerosi sono i riferimenti etnologici che lo rendono significativo. La cerimonia per scacciare la pioggia, ad esempio, oppure la celebrazione di un antico matrimonio o, più in generale, un curioso mix di religione e superstizione che il registra mostra nel dettaglio. Il lavoro si basa, del resto, sulle ricerche del professor De Martino dell’Università di Cagliari, e questo elemento di approfondimento vive in misura maggiore di qualsiasi altro horror, tanto da far pensare ad un vero e proprio documentario. Del resto ridurre Il demonio ad un mero lavoro di genere sarebbe pesantemente riduttivo, anche perchè manca la spettacolarizzazione dell’orrore tipica di questi casi.

    L’unica sequenza potentemente demoniaca, del resto, è avanti di oltre dieci anni rispetto a ciò che vedremo in seguito: il tentativo di esorcismo in cui la protagonista cammina con la spider walk resa celebre da Friedkin (ma questo film esce molto prima de “L’esorcista”; parte della scena è questa), senza contare che successivamente inizia a parlare col prete in una lingua ignota. Paradossalmente, se vogliamo, il focus dell’azione è più concentrato sulla rappresentazione del contesto, sulle tradizioni vive, sui popolani dalla gogna facile o sulla famiglia ambigua della protagonista che, di fatto, sull’elemento demoniaco in sè. Il riferimento all’esorcismo (racchiuso in poche, essenziali ed efficacissime sequenze) non serve solo a far spaventare (cosa che, a mio avviso, il citatissimo lavoro di Friedkin prova a fare fino alla nausea): le pratiche anti-demoniache sono rappresentate quasi razionalmente, quale segno di una frustrazione latente e come forma di abusi fisici e mentali, per non parlare del fatto che la protagonista è una donna avvenente (i paesani che la demonizzano sono gli stessi che vorrebbero, spesso, abusare di lei). In uno scenario del genere, pertanto, chiedersi se Purificazione sia realmente posseduta, affetta da una malattia o solo esasperata diventa una questione quasi di poco conto.

    Il saper miscelare più generi di Brunello Rondi (dramma, gotico, documentario) è forse il più consistente punto di forza del film. Possiamo solo immaginare l’ennesima violenza, l’ennesimo misfatto confessato, l’ennesimo stupro commesso ai danni di una protagonista vittima di se stessa, della propria passione e, magari, di qualche disturbo mentale. Di contro, una comunità ottusa che vive di superstizione e culti di facciata, che non capisce e non può, per definizione, capire. La sequenza della confessione in pubblico dell’intero paese, in cui vengono riconosciuti sia un furto che un caso di incesto, è la stessa in cui l’esasperazione di Purì arriva al culmine della teatralità, richiamando a più riprese le migliori sequenze di “Non si sevizia un paperino” (Fulci deve probabilmente più di qualcosa a questo film).

    Al tempo stesso la sua avvenenza (per la cronaca, la Lavi girò anche La frusta e il corpo) la fa diventare un facile capro espiatorio delle frustrazioni e delle ipocrisie di una società arcaica e brutale. Quella che doveva essere solo frustrazione per un amore non corrisposto si trasforma in un’attitudine antisociale, che alimenta le ostilità degli abitanti e si tinge, peraltro, di qualche cenno allucinatorio (Purì che crede di parlare con il ragazzino che morirà qualche momento dopo).

    A poco varranno i tentativi di redenzione esplicati dalla protagonista, che anzi precipiterà in un vero e proprio incubo dalle dimensioni crescenti, che culmina in un finale tragico (e anche piuttosto amaro). Una modalità narrativa non nuova, quella della donna sola e perseguitata in un ambiente gretto e (almeno in parte) maschilista, anch’essa splendidamente espressa da Lucio Fulci qualche anno dopo (“è lei a maciara, ha fatto ‘o malocchio su ‘e ccase nostre“, dice qui uno dei personaggi) e, in tempi più recenti, ad esempio da Dogville di Lars Von Trier (anche lì i paesani mal sopportano la presenza della protagonista, e ne abusano a più riprese).

    Un grande film da rivedere e riscoprire senza esitazione, adatto anche a chi non amasse prettamente l’horror e le sue tematiche.

  • The Lure: e nessuno visse felice e contento

    Grazie alla Disney e a un errore di traduzione nell’Odissea, in cui “penna (intesa come piuma)” venne confusa con “pinna”, le sirene sono comunemente conosciute come esseri metà donna e metà pesce, che da sempre esercitano su noi comuni mortali un romanticismo non indifferente. Figure affascinanti che negli anni sono state raffigurate come bellissime e dalle code iridescenti, sulle cui squame si riflettevano miriadi di gocce d’acqua che davano vita a innumerevoli giochi di luce quando colpite dal sole.

    Rappresentano quell’attrazione innegabile per il mare aperto, la cui vasta immensità è tanto terrificante quanto intrigante.

    Grazie a questa narrativa si sono spesso ignorati gli aspetti più empi di queste creature: cattive, doppiogiochiste e cannibali; consapevoli della loro bellezza e della loro capacità di incantare gli uomini da utilizzare le proprie doti canore per ingannare gli uomini, troppo deboli per resistere al loro fascino, al fine di annegarli e cibarsene. In altre narrazioni sono state raffigurate come esseri marini antropomorfi visivamente brutti e terrificanti, che nulla avevano da spartire con la bellissima ragazza narrata da Andersen e che anni dopo ci regalò l’indimenticabile Ariel nel lungometraggio animato targato Disney.

    Proprio alla storia de La Sirenetta si è ispirata la regista polacca Agnieszka Smoczynska per il film The Lure del 2015, presentato al Sundance Film Festival e attualmente disponibile su Netflix. La pellicola, confezionata come un musical, assume, man mano che si progredisce nella storia, un aspetto sempre più horror e dark, e racchiude più sottotesti. Il primo è quello relativo all’infanzia della regista, la quale ha dichiarato di essersi ispirata alla propria infanzia vissuta nei nightclub dove lavorava sua madre; mettere in scena la propria esperienza nascondendola all’interno di un’altra storia le ha permesso di raccontare ciò che ha vissuto in maniera più naturale, senza doversi trovare faccia a faccia, effettivamente, con questa realtà. Il secondo sottotesto invece si snoda attorno alle sirene, alla loro esistenza e al loro corpo. Non sarà difficile individuare critiche alla società e alla cultura performativa e sessista odierna, nonostante il film sia ambientato negli anni ’80. E proprio in una fredda notte in cui si respira a pieni polmoni l’aria grigia tipica dell’immaginario degli ex regimi sovietici le sorelle sirene protagoniste, Golden e Silver, si spingono fino alle rive della Vistola per attirare un gruppo di musicisti che sta suonando e convincerli, con il loro canto, a portarli con sé sulla terraferma per riuscire a banchettare con i loro corpi. I tre – padre, madre e il figlio Mietek – sono completamente affascinati dalle voci delle sirene che decidono di includerle nei loro spettacoli nel nightclub in cui lavorano in veste di coriste; Golden e Silver ruberanno sempre di più la scena, arrivando a diventare l’attrazione di punta del locale, ma alla loro ascesa e venerazione da parte degli spettatori corrisponderà il declino della vita personale.

    Sono le luci stroboscopiche e i lustrini del night a fare da controparte “sirenesca” di The Lure: un aspetto immediato che colpisce delle protagoniste è infatti quello di non essere le classiche sirene fiabesche, ma creature acquatiche, la cui lunghissima coda verdognola priva di pinne ricorda quella delle poco affascinanti anguille. Un dualismo lampante che colpisce subito lo spettatore e lo rende cosciente del fatto che le sirene non sono completamente umane e belle. Un dettaglio, questo, che non mancherà di sottolineare Mietek a Silver: spintasi originariamente, come abbiamo visto, insieme a Golden in superficie esclusivamente per un tornaconto personale, la sirena cambierà presto idea quando imparerà a conoscere il giovane, di cui si innamorerà sempre di più. Per ottenere il suo amore, Silver è pronta in ogni modo a mettere in discussione se stessa, la propria natura e il rapporto con la sorella, ma Mietek le dice chiaramente che la vedrà sempre e soltanto come un pesce e non come una vera donna. Questo è solo uno dei casi in cui le due sirene saranno sottoposte alle continue aspettative degli esseri umani, rappresentanti di una società fagocitante e crudele che spreme tutta la bellezza e la vitalità da coloro che considera “pezzi da novanta” unici e inimitabili, per poi abbandonarli a se stessi una volta che questi non le servono più perché incapaci di rispondere ulteriormente a quelle aspettative. Chi cerca di adattarsi, come Silver, finisce per perdere di vista la propria identità e i propri obiettivi; chi invece tenta in ogni modo di restare integro e fedele a se stesso, come Golden, viene visto come un elemento di disturbo che va necessariamente annientato per riportare l’ordine.

    Il nightclub dove le sirene si esibiscono, grazie al tripudio di luci, colori, costumi, effetti scenografici e glitter, non rappresenta altro che la maschera ipocritamente affabile che la società corrotta indossa tutti i giorni, con il fine di ingannare con false promesse le persone che tentano di inserirvisi; non è dunque un caso che una delle prime canzoni del musical sia totalmente incentrata sui sogni, grandi e piccoli, concreti e frivoli, che Golden e Silver vogliono realizzare sulla terraferma. Qui, purtroppo, troveranno soltanto emozioni e sentimenti con la data di scadenza; bugie e inganni; ipocrisia dilagante che non vede l’ora di farle a pezzi e venderle come carne da macello al migliore offerente, attraverso una sessualizzazione spinta all’eccesso dei loro corpi unici e straordinari.

    In questo clima frustrante e asfissiante crescono sempre di più l’illusione, incarnata da Silver, e il risentimento, proprio invece di Golden. Il primo a venire meno è il loro legame di sorelle: ognuna arriva a vedere nell’altra una minaccia ai propri obiettivi e ai propri sogni, che fino a poco tempo prima condividevano. L’assenza del loro equilibrio personale in quanto unica e solida certezza non può che lasciare spazio a un effetto valanga destinato a peggiorare sempre di più, fino all’epilogo tremendamente tragico e privo di qualsiasi tipo di speranza.

  • L’appartamento numero 1 (Creepypasta)

    Nascosto in un glitch di strada di una cittadina italiana, c’era un edificio che sembrava esistere fuori dal tempo, come se qualcuno avesse dimenticato di aggiornare il suo codice. Tre piani di mattoni consunti, ogni fessura una riga di un linguaggio antico, compilato con errori che nessuno aveva mai corretto. Al centro, l’appartamento numero 1. Il suo nome rimbalzava nei thread locali, nei forum sotterranei, nei racconti scambiati nei bar con sguardi sfuggenti. Chiunque avesse abitato lì ne usciva… diverso.

    Marco e Sofia erano il tipo di persone che non credevano alle storie. «Solo bug nella matrice della superstizione», diceva Marco, con la sua mentalità da programmatore. Lei rideva, ma nei suoi occhi si accendeva una scintilla di cautela. Presero l’appartamento. La serratura scattò con un suono che non sembrava meccanico, ma biologico. Dentro, il Wi-Fi andava e veniva, come se qualcuno intercettasse i pacchetti di dati prima di restituirli mutilati. Le prime settimane furono normali. Poi, i processi in background iniziarono a consumare troppe risorse.

    Marco si immerse nel lavoro, codice dopo codice, righe infinite che si accavallavano nella sua mente anche a occhi chiusi. Sofia, invece, iniziò a isolarsi, a guardare il monitor spento per ore, come se qualcosa le rispondesse. I vicini notarono il glitch nella loro routine. Le luci lampeggiavano a intermittenza, come se qualcuno eseguisse una scansione della realtà. Di notte, sussurri emergevano dai muri, pacchetti di suoni corrotti che formavano parole senza sintassi.

    Poi, il vicino curioso. Un tipo prudente, ma curioso. Sfruttò un momento di assenza della coppia per forzare la porta. Dentro, le pareti erano un dump di dati impazziti: parole scritte ovunque, stringhe di codice che sembravano non avere senso, ma che, lette nella giusta sequenza, evocavano qualcosa di sbagliato. Al centro della stanza, un’unica immagine: Marco e Sofia, ma i loro volti non erano più umani. Gli occhi erano neri, pozzi di un errore di sistema, finestre aperte su qualcosa che non doveva essere visto.

    Il giorno dopo, l’appartamento era vuoto. Nessun segno di Marco e Sofia. La loro presenza cancellata come un file corrotto. Gli hard disk dei loro PC erano formattati. Nessuna traccia nei log del condominio, nessun segno nei backup della memoria collettiva della città.

    Ma ogni tanto, nei server DNS della zona, appare un indirizzo sconosciuto, un pacchetto dati fuori posto. E se qualcuno lo apre, se qualcuno segue la traccia di quel link spezzato, la connessione si chiude improvvisamente. E nel riflesso dello schermo spento, per un istante, ci sono due figure con gli occhi vuoti che guardano indietro.

  • La scena dell’orso dentro Shining di Stanley Kubrick spiegata al popolo sovrano

    Nel film “Shining” diretto da Stanley Kubrick, basato sul romanzo di Stephen King, la scena dell’orso è una delle sequenze più enigmatiche e inquietanti. Questa scena non è presente nel libro originale di King e rappresenta un’aggiunta dell’adattamento cinematografico di Kubrick, che ha spesso inserito elementi visivi e simbolici unici per creare un’atmosfera surreale e spaventosa.

    La sequenza

    Nel film, la scena dell’orso si verifica quando il personaggio di Wendy si aggira nell’hotel con un coltello in mano, per difendersi da Jack. Poco dopo avvista in camera da letto un uomo vestito da orso, che sembra stare praticando un rapporto orale ad un uomo sconosciuto sdraiato sul letto. Le due figure si accorgono della presenza di Wendy, e la fissano per qualche istante. Wendy scappa, senza dire nulla.

    Spiegazione e Interpretazioni

    La scena dell’orso non è mai stata spiegata in modo definitivo da Kubrick e può essere soggetta a interpretazioni diverse. Ecco alcune possibili spiegazioni e concetti simbolici associati alla scena:

    1. Folclore e Mistero: L’orso con la maschera potrebbe richiamare immagini di rituali o leggende misteriose. Questo si allinea con l’atmosfera inquietante e surreale dell’intero film.
    2. Sesso e Perversione: Alcune interpretazioni suggeriscono che la scena dell’orso potrebbe essere legata a temi di sesso e perversione, riflettendo il deterioramento mentale e morale di Jack. L’immagine dell’orso mascherato potrebbe simboleggiare una sorta di desiderio represso, come mostrato dal fatto che l’orso si trova in camera da letto con un uomo dall’aria distinta, il che potrebbe riferire una qualche relazione non convenzionale (a tema furry, ad esempio).
    3. Labirinto dell’Hotel: L’Overlook Hotel è spesso descritto come un labirinto in cui le persone si perdono fisicamente e mentalmente. La scena dell’orso potrebbe rappresentare la confusione nella mente di Jack che si riflette, ovviamente, anche in quella della moglie Wendy.
    4. Visione Allucinatoria: L’orso potrebbe essere una visione distorta e allucinatoria causata dall’instabilità mentale di Jack e dall’influenza sovrannaturale dell’hotel stesso, il che finisce per influenzare in modo contagioso anche la moglie.
    5. Critica Sociale: Alcuni critici hanno suggerito che la scena dell’orso potrebbe rappresentare una forma di satira contro l’ipocrisia dell’alta società, per quanto tale intepretazione sembri vagamente forzata.

    È importante notare che Stanley Kubrick è noto per creare film complessi e ricchi di simbolismo, lasciando spazio a diverse interpretazioni. La scena dell’orso in “Shining” è solo uno dei molti elementi del film che contribuiscono alla sua natura ambigua e al suo impatto duraturo sulla cultura popolare.

  • Chi è Robert Eggers

    Regista classe 1983, Robert Eggers rappresenta probabilmente uno dei registi più innovativi e discussi degli ultimi anni, soprattutto in relazione alla sua idea di folk horror.

    Sposato con Alexandra Shaker, una psicologa clinica che conosce fin dall’infanzia, vive a Brooklyn con un figlio di nome Houston. Il regista ha iniziato la sua carriera come scenografo e regista di produzioni teatrali a New York prima di passare al cinema, per cui è diventato celebre soprattutto per The Vvitch del 2015, film che è stato acquisito dalla casa di produzione A24 per la distribuzione a livello mondiale.

    Il film successivo di Eggers, The Lighthouse (del 2019), è stato anch’esso un film d’epoca e ha ricevuto il plauso della critica. Ha diretto il film da una sceneggiatura che ha co-scritto con suo fratello, Max, e vede protagonisti Robert Pattinson e Willem Dafoe. Nel 2022 è uscito il film epico vichingo ispirato a The Northman, con Alexander Skarsgård, Nicole Kidman, Anya Taylor-Joy, Ethan Hawke, Björk e Willem Dafoe – ancora una volta.

    Da molto tempo si vociferava che fosse in programma un remake di Nosferatu del 1922, che Eggers realizza in modo brillante. Eggers ha collaborato spesso con il direttore della fotografia Jarin Blaschke e la montatrice Louise Ford. Gli attori Ralph Ineson, Anya Taylor-Joy e Willem Dafoe sono apparsi in molti dei suoi film, mentre il compositore Mark Korven ne ha composti due.

    È soprattutto il folk horror che si lega a Eggers e alle sue produzione cinematografiche più celebri. Cos’è il folk horror e cosa intendiamo con lo stesso? Questa forma di horror “popolare” è un sottogenere filmico / narrativo che sfrutta elementi del folklore al fine di evocare un senso ancestrale di paura. Per quanto la classificazione sia meno ovvia e scontata di quella, ad esempio, di uno slasher movie, possiamo annoverare nel folk horror prima di tutto pellicole come The Wicker ManAntrum, Antlers, l’horror italiano Oltre il guado e, con qualche riserva, addirittura il vituperato e discusso The Blair Witch Project. Non fosse altro che, a conti fatti, non sembra che ci debba essere un’estetica particolarmente raffinata dietro un film folk horror, ma si tratta più di collocare le origini del male o del dolore in un luogo specifico, geograficamente identificabile, e che questa identificazione faccia parte della suggestione in sè (un po’ come avviene con la leggenda del mostro di Lochness, ad esempio).

    È  altrettanto chiaro che film come Road to L, Zeder e Il signor diavolo non siano difficili da inserire nella tradizione folkloristica declinata in chiave spaventosa, nel folk horror che sta rendendo famoso Eggers. Anche La casa dalla finestre che ridono potrebbe rientrare nel gruppo, perchè l’orrore che si rivela non è propriamente universale, alla Lovecraft, ma è legato alla caratteristica di un luogo specifico, a cui sono associate ad esempio storie di stregonerie, culti esoterici o pagani e via dicendo. Il richiamo all’ancestrale è certamente comune a qualsiasi horror, e non basta – a nostro avviso – per creare il contesto in cui inserire film di genere folk horror, che risulta così di difficile ulteriore formalizzazione. Eggers sembra avere le idee chiare in merito, dato che tutti i film che ha diretto presentano elementi del genere a cominciare da The Northman, legato alle tradizioni vichinghe (anche se non horror, questa volta), a continuare con l’horror stregonesco The Vvitch e a finire con il recente Nosferatu, che ha riportato in auge il mito del vampiro.

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