FOBIE_ (182 articoli)

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  • Nosferatu di Robert Eggers ci parla del gotico

    Nosferatu di Robert Eggers ci parla del gotico

    Rialzati o cuore, sballottato da tormenti infiniti e oscura solitudine. Resisti contro chi ti minaccia con una croce in mano o ti accerchia fra luci tremule di un villaggio superstizioso. E se l’alba ti uccide, non disperare. E se la notte è tua, non gioire. θυμέ ἄνα δέ. Rialzati, o cuore, sulla nostra oscurità interiore.  L’apostrofe è una figura retorica con cui l’autore si appella al proprio lettore, e nel caso di Archiloco (qui citato in meta-versi che non ha mai scritto, ma che avrebbe potuto – se avesse conosciuto la figura di un vampiro) è un modo artistico per appellarsi all’animo.

    Un appellarsi oggi inconsueto dato che la figura di Dracula è relegata a un immaginario quasi svanito, al limite dell’irraccontabile, del vetusto. Un racconto smarrito in mille divagazioni sul tema che hanno finito, alla lunga, per renderlo ben lontano dall’essenza radicale della sua prima versione. Perchè vale la pena ricordare che il conte Dracula (se preferite, il conte Orlok) è Il non-morto, espressione di un desiderio che non trova pace, oltre che ben diverso dal vituperato morto vivente. Il vampiro come espressione solipsistica della volontà di inseguire il desiderio, persi nel sogno dell’immortalità, nell’ombra di una pulsione di morte ben cristallizzata narrativamente.

    Eppure nel racconto originale Dracula sarà addirittura grato a Van Helsing, alla fine, e questo per avergli consentito, con la sua distruzione, di poter finalmente riposare in pace. Allo stesso modo (mentre si osserva in silenzio l’incedere di una storia che, per Eggers, è orrore come pura idea) l’animo di chi guarda è tormentato da richiami ancestrali a valori eterni, che vanno dal mito dell’eterna giovinezza a quello, più desueto, di un amore senza fine, in grado di risorgere ogni notte a patto di trovare nuovo sangue. Per quanto si possa essere profondamente disillusi e distratti dalla quotidianità, a conti fatti, quella di Nosferatu continua ad essere una storia che strugge, appassiona, disorienta – per quanto sia ben nota, come di un amore non ricambiato, a senso unico, destinato a fallire eppure intenso, per il quale verremmo biasimati da chiunque – lo stesso biasimo di chi oggi non amerà questa pellicola, perchè dai, ancora con Dracula state, ma basta – una follia senza mordente, puro masochismo, uno strazio che avresti potuto evitare eppure hai deciso di viverlo, se non altro fino all’alba – il momento simbolico in cui quel sogno svanisce.

    Da un lato cinematografico il tema dei vampiri è tra più noti e sfruttati nella storia, e non è mai agevole riproporne uno senza auto-relegarsi al ruolo di ennesimo cineasta da b movie. Cosa che questo Nosferatu si guarda bene dall’essere. Un vampiro del genere forse oggi fa sorridere, al limite in chiave grottesca o satirica, fa alludere di riflesso ad una sensualità immortale, come dire, è difficile crederci, è particolarmente difficile onorare il patto spettatore-regista legato alla sospensione di incredulità. Non è agevole prenderlo sul serio, soprattutto dopo che decine di opere lo hanno di fatto privato dello spirito del suo tempo – quello fatto di oscura malinconia, terrore sublimato e rappresentazione del desiderio e della sua pura, irraccontabile, oscena, inevitabile perversione.

    Ciò di cui parliamo pone una svolta, perchè Eggers relega il mito del vampiro ad un mondo antico, fitto di superstizioni ancestrali e mitologie occulte. Un mondo essenzialmente pagano e dalla fatua modernità (fatua perchè i topi invaderanno la città, portando la peste e la quarantena), in cui anche le persone più razionali sono segretamente attratte dal mondo dell’occulto. Poco importa che la scienza stia nel frattempo muovendo i primi, timidi passi, perchè conta solo la suggestione del pensiero magico. Soprattutto siamo in un mondo in cui la medicina era ancora poco sviluppata, non esistono ancora psicologia e psicoanalisi – per cui i deliri mistico-malinconici di una donna come Ellen Hutter, protagonista centrale del film, alla ricerca di una figura indefinita da cui si sente attratta, viene banalmente declassata ad esaurimento nervoso – e per l’epoca in cui viviamo, per inciso, tanto vale legarla al letto, in caso esagerasse. La singolarità del Nosferatu di Eggers, del resto, è anche quella di averlo costruito su un archetipo femminile fragile emotivamente quanto decisivo narrativamente, al punto di restituire l’arcaico mistero della storia originale di Bram Stoker in una chiave rivoluzionaria e, a ben vedere, ben adeguata alla modernità.

    Di Maxpoto – https://www.youtube.com/watch?v=b59rxDB_JRg, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=10166607

    Il film di Eggers risulta pertanto un gotico oscuro, solo in apparenza fuori tempo massimo, espressione di un folk horror ancestrale dal montaggio snello, in cui nulla è di troppo e tutto è funzionale alla trama. Ne risulta un lavoro asciutto e perfetto nella forma, che saprà essere divisivo per il pubblico abituato alle versioni fumettistiche, vuotamente romantiche e accattivanti dei vampiri. Nosferatu relega, in altri termini, la narrazione agli aspetti più oscuri e antichi del gotico, riportandolo alle origini dell’orrore, con la stessa convinzione oscura che doveva avere Bram Stoker quando mise mano al proprio Dracula.

    La migliore versione della storia, senza timore di esagerare, forse dai tempi di Dracula di Francis Ford Coppola di inizio anni NOvanta, considerando pure che la saga vampirica ispirata al conte è sempre vissuta di alti e bassi, di titoli altisonanti quanto vacui, e di lavori meno noti o più sostanziali: basterebbe considerare la varietà tematico-stilistica di opere come Blade, Underworld, Intervista col vampiro, Hanno cambiato faccia, la saga di Twilight, Miriam si sveglia a mezzanotte, L’ombra del vampiro per rendersene conto. Da troppo tempo si trattava di un jolly narrativo da spendere a casaccio, privato dell’oscuro mood gotico che lo rendeva una delle migliori opere horror mai pubblicate, al pari dei capolavori di Lovecraft e Poe. Qui si torna alle origini, e lo si fa con la convinzione dello stesso cineasta che ha prodotto folk horror immarcescibili come The Vvitch.

    Eggers si richiama sia al Nosferatu di Murnau che a quello di Herzog, ricalcandone creativamente lo spirito e i contenuti e adeguandoli ai tempi che cambiano. Soprattutto conferendo alla trama un insolito (per un film di vampiri) spessore psicologico ai personaggi, per i quali i limiti tra psicosi e malattia organica sono sempre labili, in grado di lasciare deliziosi dubbi allo spettatore. Di fatto, il Nosferatu di Eggers è anche un film costruito sui dettagli: in primis la scelta della location (il castello di Perstein, lo stesso usato da Herzog per la sua versione dell’opera), poi lo stile frenetico e privo di tempi morti con cui le sequenze si susseguono. Ecco Thomas che scoperchia la bara del vampiro, riuscirà a colpirlo con un piccone? Van Helsing? Dovrebbe essere lui, ma non ne siamo sicuro. La peste arriva in città, e con lui il Conte Orlok, proteso a conquistare il mondo e diffondere un male proto-lovecraftiano sulla terra. Guardate adesso il conte Orlok, è talmente spaventoso che il regista si guarda bene dal mostrarlo prima che il film si avvii verso la fine. Il sangue e la violenza la fanno da padrone nella giusta misura, sono sequenze fatte essenzialmente di sprazzi, sangue che vediamo solo per rapidi istanti perchè conta più lo studio d’atmosfera, l’esaltazione della scenografia macabra e surreale. Poi va rilevata la scelta dei simbolismi animaleschi, decisamente classica: vampiri associati ai topi e alla diffusione della peste nera in Europa, cacciatori di vampiri associati al contrario ai gatti. Sono elementi che piaceranno ai fanno dell’horror concettuale e metafisico, effettivamente, e che potrebbero deludere chi non ha idea di cosa sia un Horror, o magari si aspettava l’ennesimo rehash fumettistico tipo Blade.

    La caratterizzazione del conte Orlok / Dracula, di suo, deriva qui dal folklore rumeno (sulla falsariga della versione di Herzog, in effetti), a cominciare dai baffi e dai dettagli fisici sinistri che le accompagnano l’essenza. La forma del protagonista è a suo modo inedita, soprattutto per la scelta di mostrarne chiaramente le fattezze solo nella parte finale del film, facendolo diventare un’ombra oscura e accennata, a evocare virtualmente il Freddy del primo Nightmare. Forma allungata, incedere minaccioso e imprevedibile, unghie lunghissime, Orlok parla quasi sempre lingua rumena (con cui sembra poter comunicare anche telepaticamente con le vittime), mentre attorno a lui sta per nascere il mondo in cui viviamo, con le città evolute asimmetricamente rispetto ai villaggi, con i primi che esaltano il culto della produttività e i secondi che evocano riti ancestrali dimenticati dai più.

    Per il resto “Blood is life” (come viene detto nella seconda parte del film): il sangue è vita, e sarà dei vampiri.

    Di Huuzzah – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=143179077

    Per molti versi quello di Eggers è un esperimento azzardato, almeno sulla carta, che esibisce una grande prova registica e concettuale su un terreno scivoloso, in cui il rischio è che il pubblico possa lamentarsi sia di interpretazioni troppo letterali (considerandolo poco originale) che troppo azzardate (considerandolo, al contrario, poco fedele all’originale). Non era agevole tornare alla figura orrorifica che più di tutte ha influenzato il mito del vampiro: una storia che, in questa sede, si richiama a suo modo al romanzo episotolare di Bram Stoker “Dracula“, lo stesso che costò il fallimento della Prana-Film, condannata a pagare i diritti del Nosferatu di Murnau. Per quello che ci riguarda, qui l’esperimento è da considerarsi perfettamente riuscito.

    L’orrore di Eggers, come già in The Northman e The Vvitch, si richiama ai classici del genere, ed è di natura squisitamente folkloristica: si lega ad un mondo fatto di villaggi retrogadi, tradizioni locali antiche quanto macabre, un mondo ancora tecnologicamente e scientificamente non troppo evoluto quanto affascinato dall’esoterismo e dell’occulto. Il tutto viene arricchito da un singolare mood proto-lovecraftiano per eccellenza: ciò che è sepolto nel passato, magari in un antico castello, deve rimanere lì. Per forza. Se andiamo a riscoprilo o stuzzicarlo, peggio ancora se per scopo di lucro (come fa il povero sss), non può finire bene. E fa impressione sentire oggi questa storia, attuale più che mai, con la peste nera che arriva da una barca in cui enormi e numerosi topi porteranno il contagio che infesterà realmente l’Europa.

    Dal canto loro – in un’ambientazione dei primi anni del 1800 – i personaggi rivivono sullo schermo in un’atmosfera da grand guignol, spesso e volentieri illuminata e allestita come se fossimo a teatro, tra cui svettano per eccellenza le prestazioni di William Dafoe nei panni di uno professore allontanato dalla comunità scientifica per il suo interesse per l’occultismo (Van Helsing?), che strizza l’occhio alle nuove attitudini psicologiche, che sarebbe nata solo qualche decennio dopo con i laboratori di Wilhelm Wundt.

    Con uno squisito equilibrio tra oscurità e gore, gran parte del film di Eggers si focalizza pure sul lato psichiatrico dei vampirizzati, con una modalità che mai si era vista con tale vividezza: come Orlok è una metafora della diffusione del contagio pestilenziale (tanto è vero che i morsi sul corpo delle vittime potrebbero essere ratti come non-morti), allo stesso modo le sue vittime sembrano vacillare, muoversi a fatica, soffrire le pene dell’inferno per un problema di salute mentale, prima che fisica.

    È il mito di Nosferatu frammisto alla vera storia di Daniel Paul Schreber, il magistrato che si era convinto di parlare con Dio e di poterne condizionare l’operato. Le sue Memorie di un malato di nervi sono un classico della letteratura psichiatrica, e il caso vuole che sia vissuto nello stesso periodo in cui è ambientato il film di Eggers. Null’altro da aggiungere, a questo punto: il tributo è probabilmente involontario, ma serve a sottolineare come gran parte della brillanza di questo ennesimo Nosferatu risieda nell’averla voluta mettere sul piano clinico-psichiatrico in un momento storico in cui la medicina non aveva ancora lo sviluppo attuale, era ritenuto accettabile legare e narcotizzare i pazienti e Freud non aveva ancora proposto i propri studi sui sogni dei pazienti e sulla rilevanza degli stessi.

    Orlok non è solo un vampiro predatore di sangue, ma diventa una metafora dell’essere ancora vivi. O, se preferite, dell’essere probabilmente non-morti.

    Rialzati o cuore, sballottato da tormenti infiniti e oscura solitudine. Resisti contro chi ti minaccia con una croce in mano o ti accerchia fra luci tremule di un villaggio superstizioso. E se l’alba ti uccide, non disperare. E se la notte è tua, non gioire. θυμέ ἄνα δέ. Rialzati, o cuore, sulla nostra oscurità interiore.

  • Mi hanno tolto il match su Tinder

    Quando ho visto il match con Anna mi era sembrata una di quelle piccole vittorie che ti strappano un sorriso nella monotonia dello swipe. Bionda, inglese, nickname PJ, foto intriganti e non costruite, un mix di mistero e semplicità. Devo aver pensato: “Ok, forse qui c’è qualcosa di interessante.” Abbiamo iniziato a scriverci, sembrava ricettiva, rispondeva in modo rapido, qualche battuta, un accenno alla musica che le piaceva e che ci accomunava. Poi, all’improvviso, senza preavviso, sparisce. Il match non c’era più. Le avevo appena scritto quello che facevo nella vita. Soprattutto non avevo risposto “trafficante di organi“. Nessuna spiegazione. Ci sono rimasto male. Non perché fossi innamorato dopo dieci messaggi, ma per quella sensazione di essere stato scartato senza un perché: un oggetto messo nel carrello e rimosso all’ultimo secondo.

    Se ci pensi, in un’ottica evoluzionista, è un comportamento che ha perfettamente senso. Su Tinder e simili, la selezione è brutale e rapida, proprio come lo era per i nostri antenati nella scelta del partner. Solo che loro avevano tempi e contesti diversi, mentre oggi un match dura pochi minuti e può essere annullato due secondi dopo. La selezione sessuale ha sempre favorito chi sa ottimizzare le proprie risorse: scegliere il miglior partner possibile con il minor dispendio di energie. Se dopo un paio di scambi qualcuno sembra meno interessante del previsto, meglio eliminarlo e non investire tempo in una conversazione destinata a morire. L’abbondanza di opzioni amplifica questo comportamento. Quando sai che bastano due swipe per trovare qualcun altro, ogni interazione diventa meno preziosa, più sacrificabile.

    C’è un ulteriore aspetto legato alla gratificazione immediata. Tinder stimola il nostro cervello con continue micro-ricompense, come una slot machine: un match, un messaggio, un piccolo scambio di attenzioni. Ma spesso non c’è un vero interesse dietro, solo il piacere effimero di essere desiderati per un istante. E proprio per questo, il ghosting o il togliere il match senza motivo sono così comuni: non comportano conseguenze sociali reali, nessuno deve dare spiegazioni. Nel mondo reale interrompere una conversazione in modo brusco avrebbe delle ripercussioni, ma online il costo sociale è nullo. Si può sparire senza guardarsi indietro, senza affrontare il minimo disagio emotivo.

    C’è anche chi lo fa per evitare un coinvolgimento, al limite senza nemmeno rendersene conto. Alcune persone, dopo un primo scambio, sentono che si sta creando un’interazione più concreta di quanto vorrebbero e chiudono tutto di colpo, come un meccanismo di autodifesa. Altre semplicemente vogliono testare il loro “valore di mercato”, accumulare conferme, senza mai avere l’intenzione di approfondire.

    Forse Tinder non fa per me, soprattutto se lo usi (come riconosco di fare ogni volta) come strumento compensativo di delusioni e sportellate varie che continuo a prendere dal vivo. Il dating è un’arena dove vince chi sa giocare senza coinvolgersi, chi sa prendere e lasciare senza rimanerci male. Alla faccia di chi racconta di essersi sposato usando app di dating. Forse non faceva per me, semplicemente. Non lei, l’inglese, mi riferisco all’app di dating. (A. P.)

  • Il finale di American Psycho spiegato nel dettaglio (spoiler alert)

    American Psycho è una delle gemme del genere thriller psicologico anni Novanta, un epitomo di ciò che può diventare il cinema prima di essere un cult – mentre il personaggio di Patrick spaventa e attrae il pubblico nello stesso tempo. La figura di Patrick è stata sviscerata da un paper scientifico di Isacc Tylim, in cui si parte dall’idea del mito dell’individualismo e dell’autosufficenza propinati dalla cultura USA, intrisa di capitalismo e individualismo di marca liberista. Il personaggio si erge quale esempio ideale di narcisista maligno o perverso, un concentrato di narcisismo “classico” e di componenti violente, sadiche e antisociali, in cui emergono componenti di machiavellismo (mantenere una parvenza rispettabile a dispetto degli orrori che vengono segretamente perpetrati), dipendenza amorosa, relazioni tossiche, manie di grandezza.

    Ma cosa possiamo raccontare del discusso finale? C’è una certa ambivalenza che ha incuriosito gran parte del pubblico del film. Proviamo a ricostruire e capire meglio.

    Subito dopo aver commesso due delitti (prima Elizabeth, poi Christie) e aver rotto la sua relazione con Evelyn, si reca ad un bancomat e vede un gatto, che sembra voler essere inserito assurdamente nello sportello. Questo porta Patrick a valutare la possibilità di sparare l’animale, ma viene fermato da una passante che pagherà l’intromissione con la vita. A questo punto viene inseguito dalla polizia, e dopo una fuga grottesca si rintana nel suo ufficio e confessa al suo avvocato, in un messaggio in segreteria, di aver commesso circa 40 delitti.

    La mattina seguente Patrick vorrebbe ripulire l’appartamento di Allen, ma lo trova vuoto e in vendita: viene apparentemente raggirato da un agente immobiliare, nel frattempo il personaggio di Jean trova alcuni disegni dettagliati degli omicidi nell’ufficio del killer. Bateman vede il suo avvocato e menziona la sua segreteria telefonica, ma sembra che all’avvocato Carnes non importi nulla, o ancora peggio: sembra che ciò di cui si parla non sia mai avvenuto perchè impossibile o paradossale.

    Ormai esausto ed incerto sulla propria vita, torna dagli amici di sempre come se nulla fosse, riflettendo in chiave socio-politica (riferimento a Ronald Reagan) sulle sue colpe, reali o immaginarie che fossero. Soprattutto, come il protagonista di Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, adombra con timore l’idea che non sarà mai punito per quello che ha fatto. Patrick conclude di sentirsi in costante dolore, che desidera che il suo dolore venga inflitto ad altri e che la sua confessione non ha significato nulla.

    Il finale di American Psycho, ispirato – lo ricordiamo – al celebre romanzo di Bret Easton Ellis, è sicuramente ambiguo e lascia spazio a molte interpretazioni. Alla fine del libro, il protagonista, Patrick Bateman, si rende conto che le sue azioni violente, che sembravano essere state reali, potrebbero essere state solo frutto della sua mente distorta. Delle allucinazioni, in tutto o in parte, sulle quali viene lasciato spazio all’interpretazione del pubblico.

    Nel capitolo conclusivo, Patrick effettivamente confessa i suoi crimini, ma viene ignorato da chi lo circonda. La sua vita continua come se nulla fosse accaduto, suggerendo che la sua follia e la sua violenza siano invisibili alla società, che preferisce ignorare il male che lo circonda. L’epilogo lascia quindi in sospeso la domanda se Bateman abbia davvero commesso gli omicidi o se siano stati solo parte di una fantasia delirante. Il romanzo si conclude con una profonda riflessione sulla superficialità, l’alienazione e l’inconsistenza della società degli anni ’80 negli USA, dove la violenza e l’orrore possono essere ignorati, come se non fossero mai esistiti.

    Rielaborazione di DALL E della locandina di American Psycho.
  • L’infanzia distopica di Don’t hug me I’m scared

    Se cercate su Google “don’t hug me i’m scared” esce fuori una lapidaria classificazione di genere: umorismo nero. Un sottogenere del comico che è stato ampiamente sdoganato da Internet quanto sopravvalutato, fino a dare l’impressione che chiunque faccia battuta di cattivo gusto o “politicamente scorrette” sia assimilabile all’umorismo nero. Molto prima che influencer fascistoidi e troll perditempo blaterassero a casaccio battute che umiliavano i più deboli tacciandolo per libertà di espressione, e molto prima che tutto questo diventasse una macabra moda da reality show modello August Underground, i due creativi Becky Sloan e Joseph Pelling tirano fuori dal cilindro questo piccolo capolavoro.

    Che cos’è Don’t hug me I’m scared

    Una miniserie (che è diventata un meme in mille salse), e che ha molteplici pregi dalla sua:

    • il dono della sintesi: la prima serie è composta da sole 4 puntate
    • la semplicità della trama: si tratta di quattro personaggi immersi nelle loro attività quotidiane, caratterizzati da pupazzi antropomorfi;
    • la meta narrazione che è sempre auto-ironica e non troppo invasiva o celebrativa rispetto allo spettatore;
    • l’atmosfera surreale e il mashup innovativo tra generi (un tipico show per bambini miscelato con horror splatter e allucinatorio)
    • l‘improponibilità della serie stessa ad un pubblico generalista, che rimarrà per sempre confuso tra l’incertezza dell’attribuzione del genere e del “pubblico ideale” (che è composto invece da horrorofili con il gusto per la sperimentazione)

    Descrizione delle puntate e video per vederle

    Puntata 1 (Creativity)

    Fin dalle prime mosse la trama della serie ruota intorno a tre personaggi principali: Red Guy, Yellow Guy e Duck Guy, che sono marionette dal design simpatico e colorato. In ogni episodio, i protagonisti verranno coinvolti in situazioni strane e surreali che sfidano le convenzioni e le aspettative dei programmi educativi per bambini. Un vero e proprio cult su internet: inaugura lo stile provocatorio della serie che parte come un video per bambini incentrato su una spiegazione del concetto di creatività, e poi diventa improvvisamente una delirante allucinazione horror (la scritta DEATH, una torta di carne cruda, un cuore cosparso di brillantini).

    Green is not a creative color (Il verde non è un colore creativo) è diventato il meme rappresentativo della serie, ovviamente senseless nel suo concepimento.

    Puntata 2 (Time)

    Si parla del tempo e del suo scorrere incessante, in senso scientifico e in parte filosofico: la canzone è simpatica e orecchiabile, il tempo scorre, e diventa sempre meno piacevole mentre lo fa, fino a produrre la putrefazione dei personaggi.

    Puntata 3 (Love)

    Forse la migliore puntata della prima serie: un picnic provoca una crisi depressiva a Yellow Guy, che inizia a parlare con un’ape interessata a spiegargli la natura dell’amore. L’amore è in ogni parte del mondo, basta saperlo cercare (Your special one): un messaggio di pace e speranza che è destinato a diventare qualcosa di molto diverso solo sul finale (con un vero e proprio villain finale che ricorda pesantemente quello di The wicker man).

    Puntata 4 (Computers)

    I tre personaggi stanno giocando ad un gioco da tavolo, e viene fuori una domanda a cui non sanno rispondere: la cosa più naturale diventa naturalmente cercare su internet. Il problema è che il loro computer non li ascolta, sembra esibire un carattere egocentrico e soprattutto non ama essere toccato: poco dopo i tre personaggi si troveranno catapultati dentro un computer, in una realtà virtuale che mescola vari stili di animazione (incluso il 3D).

    Puntata 5 (Health)

    In questo caso la puntata è incentrata sul mangiare sano e sull’educazione alimentare, ma diventerà presto un pretesto per parlare di cannibalismo e chirurgia senza anestesia sul povero Duck Guy.

    Puntata 6 (Dreams)

    Puntata conclusiva della prima serie, incentrata sul mondo onirico, che poi si ricollega all’inizio lasciando il finale aperto. La serie originale era composta da questi 6 brevi episodi pubblicati su YouTube dal 29 luglio 2011 al 19 giugno 2016. Nel 2022 è stata realizzata una serie televisiva sequel trasmessa su All 4 e Channel 4.

    In conclusione

    Esiste anche una seconda serie che è uscita negli scorsi anni, e che sembra continuare sulla stessa falsariga.

    Ciò che rende “Don’t Hug Me I’m Scared” unico è probabilmente il suo stile visivo e di narrazione totalmente spiazzate e straniante. All’inizio di ogni episodio sembra essere un normale show educativo per bambini, ma gradualmente si trasforma in una spirale di oscurità, con rivelazioni inquietanti e bizzarre. Gli elementi colorati e infantili sono accompagnati da cambiamenti improvvisi e perturbanti nel tono e nell’aspetto dei personaggi.

    La serie è diventata famosa per il suo uso innovativo della tecnica di stop-motion e per le canzoni orecchiabili che accompagnano ogni episodio. Le canzoni, scritte e composte dagli stessi registi, hanno testi innocenti che progressivamente diventano inquietanti e trasmettono messaggi critici sulla società e la cultura moderna.

    In ogni episodio della serie, l’inizio ricorda quello di una normale serie per bambini, con marionette antropomorfe simili a quelle presenti in “Sesame Street” o “The Muppets”. La serie parodizza e satirizza questi programmi televisivi, contrastando l’ambiente colorato e infantile con temi inquietanti. Ogni episodio presenta una svolta surreale nel climax, con contenuti psichedelici e immagini che coinvolgono violenza grafica, umorismo nero, esistenzialismo e horror psicologico.

    I sei episodi della serie web esplorano e discutono argomenti di base tipici dell’educazione prescolare, come creatività, tempo, amore, tecnologia, dieta e sogni, mentre la serie televisiva tratta temi come lavoro, morte, famiglia, amicizia, trasporti e elettricità. La serie web ha ricevuto ampi consensi per la sua trama, il design di produzione, l’horror psicologico, l’umorismo, i temi nascosti, il lore e i personaggi, ed è considerata da molti una delle migliori serie web di tutti i tempi. La serie televisiva ha ricevuto acclamazione simile.

  • La spiegazione del finale di THE SUBSTANCE

    Gran parte delle recensioni di THE SUBSTANCE hanno definito il film come una dark comedy sull’industria dell’intrattenimento, un coacervo di splatter, sangue e brutture assortite sulla società dello spettacolo. È una chiave di lettura semplicistica e a nostro avviso parziale, che dimentica l’aspetto più essenziale del film stesso: ovvero che si tratta di una critica esplicita e senza mezzi termini alla cultura patriarcale che pervade il mondo apparentemente spensierato dello spettacolo, specie quando finisce per avere a che fare con la sessualizzazione del corpo femminile. Non è un caso, in tal senso, che la regista Coralie Fargeat e già fresca dell’esperienza di Revenge (un film contro la mercificazione del corpo femminile, declinato nel modo meno ovvio possibile: girando un simil rape’n revenge, il sottogenere pulp in voga negli anni Settanta e Ottanta quasi sempre accusato di maschilismo) abbia scelto proprio Demi Moore, icona della sensualità anni Ottanta e Novanta all’età di 61 anni, e con l’aspetto adeguato a mostrarne almeno undici di meno: il suo alter ego giovane diventerà Margaret Qualley, lolita iconica del cinema di Tarantino e, per molti versi, equivalente di ciò che la Moore è stata in passato.

    [DA QUI IN POI SPOILER]

    Il finale del film ha lasciato aperti vari interrogativi negli spettatori, sia per la sua forma apparentemente sconnessa sia per la sostanza di ciò che viene rappresentato. La trama parte dal presupposto che Elisabeth abbia acquistato un siero da internet che le permette di ringiovanire ed andarsene in giro con un corpo rinnovato, con l’unica condizione di lasciare l’altro corpo a riposare sostenuto da cibo sintetico. Il patto è sostanziale, perchè vincola la protagonista a prendersi cura del corpo che disprezzava e che, con l’incedere della trama, mostra di non riuscire a volere. THE SUBSTANCE è molto basato sulla contrapposizione tra la psicologia ferita di Elisabeth (disregolata emotivamente, che guarda alla propria giovinezza prima con nostalgia poi con disprezzo) e quella di Sue che in qualche modo si colloca all’opposto, dato che non mostra particolare interesse per la propria sè anziana e, anzi, arriva ad abusare della sua vitalità al fine di avere più energia sessuale.

    È questo il motivo, in sostanza, per cui Elisabeth invecchia precocemente: perchè Sue è stata talmente priva di scrupoli da “cibarsi” della sua vecchia sè iniettandosi molto più del dovuto il fluido cefalorachidiano dalla spina dorsale. Questo provoca rabbia nella donna che inizia, come vediamo a più riprese, ad ingozzarsi di cibo senza pulire (anche sulla falsariga della ferita emotiva che le ha procurato il suo capo, regalandole un libro di cucina francese per mandarla a casa). Arriva finalmente il momento della festa di Capodanno, che dovrebbe consacrare la figura di Sue come nuova icona della sensualità, come figlia, fidanzata o sorella nazionale, come donna perfetta e impeccabile nei modi, nello stile, nel perpetrarsi del mito dell’eterna giovinezza. Ma è a questo punto che crolla tutto: le scorte di cibo sono finite e non sono state riordinate, gesto a cui potremmo dare una spiegazione in termini freudiani: la pulsione di morte che attecchisce in Elisabeth, che non riesce a conciliare l’istinto di una inutile sopravvivenza eterna con quello di una sottovalutata vecchiaia serena, simboleggiata dalle attenzioni dell’ex compagno di scuola che la corteggerà inutilmente. Sue decide di uccidere Elisabeth, ormai invecchiata oltre misura e che ha tentato di terminare l’esperimento genetico, e sembra che la storia possa finire lì. Il giorno dello spettacolo di Capodanno Sue si accorge tuttavia di aver perso dei denti (molto significativa, a riguardo, la scena in cui il produttore e i finanziatori, tutti maschi oltre i 60 anni, le chiedono di sorridere, cosa che non può fare dato che il sorriso non è più impeccabile), poi perde le unghie e un orecchio e a quel punto, presa dal panico, torna a casa ad iniettarsi il siero residuo, nella speranza di poter generare una “nuova sè” bella come era all’inizio. Il siero pero’ è monouso, e Sue perde i sensi per poi diventare una sorta di mostro informe, che unisce pezzi del corpo di Elisabeth con quelli di Sue, evocando un classico dell’horror come la cosa di John Carpenter (un alieno lovecraftiano che divora gli esseri viventi e ne assume le diverse forme volta per volta).

    Il finale è chiaramente intriso di humor nero: ridotta a un mostro informe e con la foto di Elisabeth a coprirle il viso, si avvia per lo spettacolo di capodanno, grottescamente osannata dallo staff televisivo che notano qualcosa che non va ma non hanno il coraggio di dirle nulla. Sue / Elisabeth sale sul palco in una sala gremita, e a quel punto svela la propria nuova forma, che ovviamente suscita il panico nella popolazione. Il produttore sale sul palco e la decapita, mentre i fiotti di sangue ricoprono il pubblico. Sue / Elisabeth riesce a fuggire, per quel poco che le rimane dei corpi originali, e fa in tempo a posizionarsi sopra la stella che le hanno dedicato all’Hollywood Boulevard. Il corpo finisce di decomporsi, e poco dopo uan macchina per pulire le strade spazza via quel che resta della protagonista. Per come la vediamo, per inciso, il finale è tirato un po’ troppo per le lunghe, ma probabilmente perchè vorrebbe omaggiare una sequenza molto simile che possiamo vedere nel cult splatter Society di Brian Yuzna. Il senso del film è racchiuso tutto qui: a che cosa è servito rigenerarsi, fingersi più giovani o osannare di esserlo, se il nostro destino sarà comunque quello di scomparire per sempre, un giorno?

    Durante la proiezione a cui ho assistito ieri, una ragazza seduta vicino a me ha commentato sconsolatamente dopo la sequenza in questione “era meglio prima!“.

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