FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Terrifier è un vero incubo

    Terrifier è un vero incubo

    Terrifier di Damien Leone vorrebbe richiamarsi alla gloriosa tradizione horror slasher anni Ottanta e Novanta, la stessa che annovera Halloween, Venerdì 13 e via dicendo. Un genere che non da’ molto respiro narrativo e che difficilmente si discosta dal canone (amicizie, amori, sessualità, villain che irrompe a simboleggiare i sensi di colpa di chiunque); un genere che imporrebbe, quasi ontologicamente, una qualche variazione sul tema, perchè proporre le cose come al solito lo farebbe decadere nella stereotipìa. Del resto non sarebbe cinema di genere se non proponesse situazioni già viste e riviste, cosa che questo primo episodio del regista classe 1982 Damien Leone (il primo di una saga che conta tre episodi, l’ultimo dei quali – Terrifier 3 – è uscito nel 2024) fa in maniera a suo modo encomiabile, per quanto il lavoro soffra di un’approssimazione ineludibile sulla trama.

    Terrifier inizia su un canale sintonizzato che intervista una ragazza in un canonico salotto TV, in cui scopriremo che la stessa è stata orrendamente sfigurata ed è sopravvissuta ad un serial killer. Neanche il tempo di familiarizzare col mood che vediamo subito l’assassino in azione, che sembra avvenire in una città qualsiasi, forse nel giorno di Halloween, in un quartiere di cui non sappiamo nulla e per cui intuiamo essere negli Statu Uniti.

    Se è vero che la trama articolata di uno slasher è un qualcosa che per i fan conta poco o nulla, non può a una critica poco più che grossolana perchè, di fatto, è proprio la narrazione di Terrifier a non funzionare. Al netto delle efferatezze mostrare, della fantasia nel proporle e della mancanza di scrupoli nel far vedere tutto da vicino allo spettatore, le cose accadono perchè è necessario che avvenga. Detta diversamente manca il contesto, manca lo scenario, per quanto non si lesini sul senso di colpa e sul non detto (come già in altri epigoni slasher, il clown che uccide simboleggia il senso di colpa delle vittime, ma anche l’oscurità d’animo di chi cova odio e violenza per motivi che la società non conosce, non può o non riesce a vedere). Non si tratta del resto di un horror sociologico perchè manca totalmente l’aspetto dialogico e narrativo, e gran parte dei personaggi risultano più che altro irritanti nelle proprie certezze. Impossibile non notare, ovviamente, le assonanze tra questo Art The Clown e Pennywise di IT, che colpiva solo i bambini e che almeno era arricchito dalla prosa ineguagliabile di King, qui del tutto assente – al punto che viene il sospetto che i clown killer abbiano un po’ stancato.

    Art the Clown, l’assassino protagonista uccide senza ritualistica e senza suggestione, spesso sfigurando le vittime, e viene presentato come assodato, pronto all’uso, pre-marketizzato: è il killer nascosto che tutti abbiamo già visto, cugino dei reali serial killer della storia, nipote di Freddy Krueger (dato che predilige vittime giovani), discendente di qualsiasi assassino misogino sia stato inventato dal cinema.

    I dialoghi di questo primo Terrifier sono banalotti, poco incisivi, scarsamente coinvolgenti, al netto di ciò che viene mostrato a livello di gore: ci sono sangue, assassinii che evocano grotteschi rituali, amputazioni e decapitazioni come tradizione splatter impone, per il resto poco altro. La trama appare telefonata, piatta, prevedibile, del tutto priva di una qualche introspezione, al punto di rappresentare personaggi monocordi, ossessionati dall’aspetto sessuale e in cui i personaggi femminili sono quasi esclusivamente frivoli, impeccabili e per forza sensuali. Il sottotesto ipotizzato da Carol J. Clover a inizio anni Novanta non è cambiato: questi film mantengono, forse non sempre volontariamente, una potenzile chiave di lettura femminista, che si esplica nella vittimizzazione dogmatica della donna, nella rappresentazione del villain che gorgoglia e bestemmia al centro dell’Universo, senza una ragione che non sia ricondubile ad un universo lovecraftiano, irrazionale, o – se vogliamo leggerla con le lenti critiche di oggi – intriso di cultura maschilista, profondo legame nei confronti dei ruoli e quant’altro. Art the Clown avrebbe potuto essere il patriarca grottesco che uccide senza motivo e senza dover rendere conto di ciò che fa, ma Terrifier resta un prodotto per niente politico e poco avvezzo a letture del genere.

    Comunque stiano le cose – e sarà la sensibilità del pubblico a deciderlo – Terrifier è un onesto tentativo di rendere la realtà che viviamo più splatter e orribile di quanto non sia, e rimane lontano dallo status di cult e memorabilità che ha reso celebri i film di cui sopra. Al punto che si guarda a fatica, ci si distrae facilmente – al netto delle espressioni grottesche di Art the Clown, il cui interprete (David Howard Thornton) ha studiato mimo e da’ quasi la sensazione di potersi materializzare alle spalle dello spettatore, e rimane l’unico vero motivo per guardare il film almeno una volta nella vita.

    Cosa per cui l’horrorofilo navigato riporrà ogni speranza di vedere una svolta, un qualcosa che non si limiti a brutalizzare corpi, a mostrare sangue, a inventarsi l’ennesimo sadismo ostentato che, di suo, lascia poco o nulla. Paradossalmente i tre cortometraggi a cui si ispira il film – contenuti in All Hallows Eyes – riuscivano a rendere meglio l’idea, soprattutto per il taglio da mockumentary che li rendeva accattivanti, senza contare per quel tocco autoironico che caratterizzava il clown, in misura leggermente superiore a quanto avvenga in Terrifier.

    Un film che strizza l’occhio ai blockbuster dell’orrore, riuscendo solo in parte nell’impresa, a nostro avviso, e limitandosi a costruire una valanga di riferimenti al mondo dell’Altro che, alla lunga, rendono il film vuotamente enciclopedico, al netto del buon Art the Clown: un villain come se ne sono visti tanti, che probabilmente occuperà il proprio posto infernale nella storia del genere, che magari tra qualche anno sarà riesumato e riscoperto, ma che appare qui troppo ovattato e prevedibile per potersi ricordare.

  • Cannibal Ferox: durissimo e insostenibile ancora oggi

    Per consolidare una tesi sul cannibalismo visto come “mito” imposto dall’uomo bianco, un’antropologa si reca in Amazzonia presso un’autentica tribù.

    In breve: film non per tutti, certe scene possono turbare i più sensibili. Il messaggio di fondo rimane sostanziale, ma il linguaggio utilizzato è decisamente crudo ed esplicito.

    L’intreccio è sostanzialmente composto da due storie, entrambe costituite da bianchi in cerca, dentro la regione amazzonica, quando di smeraldi (uno spacciatore) quando di gloria (la laureanda). Il primo è un cinico calcolatore, che assieme ad un amico si trova sul posto per recuperare quattrini dopo aver fregato una banda di spacciatori di New York. Giunto sul posto entra in contatto con un indio che sembra sapere dove si nascondono le pietre preziose: sotto l’effetto della cocaina, si auto-convince che lo stiano prendendo in giro, e massacra il suo intermediario senza pietà. Nel frattempo entra in contatto con il gruppo di ricercatori, con cui tenterà una disperata fuga da quella regione: il contatto coi selvaggi avrà ovviamente sapore di feroce vendetta, che non guarderà in faccia niente e nessuno.

    Il cannibalismo non esiste, è un semplice mito perpetuato dall’uomo bianco e dominatore, utilizzato come paravento per lo sfruttamento del selvaggio e combattere uno stereotipo suggestivo di cannibal ferox“.

    Questa, in sintesi, la tesi portata avanti dall’antropologa protagonista (Gloria Davis, interpretata dalla Lorraine De Selle già vista in “Quella villa in fondo al parco“), che si fa accompagnare dal fratello e da un’amica (Zora Kerowa) all’interno di una tribù amazzonica di selvaggi, al fine di procurarsi prove documentali di quello che sostiene. Inutile sottolineare che troverà testimonianze in verso esattamente contrario.

    Un film detestato e messo al bando da molti per via delle ultra-realistiche violenze contro gli animali: Lenzi, per dare l’idea della legge della giungla, mostra belve che si mangiano tra di loro oltre ad una testuggine ed un coccodrillo smembrati dai selvaggi. Se si trattava di trucchi, furono fin troppo realistici: se invece furono reali, come molti diedero per scontato, teoricamente dovrebbe trattarsi di testimonianze documentaristiche di ciò che quei popoli comunque usano effettuare lontano dalle telecamere.

    Al di là di qualsiasi congettura sulla veridicità o sul mito di determinate scene para-snuff, comunque, Cannibal Ferox – oltre a fare denuncia sociale dell’ipocrisia dell’uomo bianco (forse un po’ scontata, ad oggi), non sarebbe null’altro che un documento storico certamente molto controverso e discutibile, ma quantomeno reale (ovviamente solo per quanto riguarda la barbara esecuzione degli animali che viene mostrata). Sta di fatto che il film è entrato nel guinness dei primati (!) per essere stato bandito in ben 32 paesi del mondo, ma – paradossalmente – adesso gira una versione uncut a prezzo non certo economico, per cui rimane il fatto che un minimo di interessamento verso questi prodotti, che sia esso ottimisticamente documentaristico o più realisticamente morboso, è rimasto sempre costante.

    Forse, a tale riguardo, aveva ragione Joe D’Amato quando affermava che la violenza dei suoi film era semplicemente ciò che gli veniva richiesto dal pubblico.

    Lenzi confeziona un cannibalmovie estremo, molto violento e realistico, ricco di splatter ed in cui la trama può essere vista come una sorta di pretesto per confezionare sociologia (un po’ spicciola, secondo alcuni, oltre che visivamente molto esplicita). In effetti farei brutalmente questo tipo di discorso se non fosse per l’incredibile (e molto efficace) finale, nel quale l’unica sopravvissuta seppellisce tutte le crudeltà che ha visto, discute ugualmente la propria tesi di laurea sul “mito” del cannibalismo e fa assestare uno sonoro schiaffo poco politically-correct al mondo accademico, dipingendolo come eccessivamente miope rispetto alla realtà. Ovviamente si tratta di un parossismo che potremmo estendere all’umanità tutta, con tutte le conseguenze del caso.

    Si possono dunque obiettare una molteplicità di argomenti, ma – ammesso che l’argomento sia il “buon gusto” o l’opportunità di “travestire” uno snuff da film – resta il fatto che Cannibal Ferox è un film violentissimo, stomachevole, discretamente recitato e con una buona  trama, di quelle che non lasciano speranza ed evidenziano ripetutamente la crudeltà umana. Quest’ultimo viene dipinto da Lenzi come un valore assoluto, non relativo, che accomuna affaristi  senza scrupoli occidentali a selvaggi che sfregano pietre per ottenere il fuoco. Tra le scene più raccapriccianti del film: i terrificanti ganci nel seno di Zora Kerova, ma soprattutto l’evirazione (in primo piano!) e decapitazione dello spacciatore, scene che rendono “Cannibal Ferox” un prodotto non per tutti e che metterà alla prova più di uno stomaco.

  • The Woman di A. van den Houten racconta una storia di segregazione in chiave horror

    Una giovane donna vive nella foresta senza aver mai avuto contatti con la società moderna; catturata da un padre di famiglia dall’aspetto mite verrà inserita nel nucleo familiare…

    In breve. Un film incentrato sulla violenza domestica e la contrapposizione tra la  feroce vitalità del “selvaggio” e l’ipocrisia della società civilizzata. Temi non originalissimi, regia non esaltante (ma non per questo sgradevole) e qualche problema di ritmo: come intreccio, probabilmente più da leggere nel romanzo da cui è tratto che da vedere.

    Una donna allo stato selvaggio, un padre autoritario e maschilista, un figlio adolescente candidato ad emularne i comportamenti, una figlia affetta da turbe depressive, una moglie remissiva e psicologicamente repressa e, per chiudere in bellezza, una bambina ancora non intaccata dall’atmosfera circostante: questi gli ingredienti basilari di “The woman“, la storia di una famiglia che decide di “adottare”, allo scopo di civilizzarla, una giovane selvaggia cresciuta nelle foreste della zona. È da tali presupposti quasi “fiabeschi”, in fondo, che si riesce a sviluppare un horror di discreta qualità, caratterizzato – per quanto il soggetto sia validissimo – da una notevole lentezza nella parte iniziale. Il film finisce per decollare soltanto negli ultimi venti minuti, perdendosi nel resto tra accenni, divagazioni e caratterizzazioni dei personaggi a volte neanche troppo funzionali. Il tutto è tale da rendere desiderabile quasi l’esclusiva visione dell’ultima parte del film, che riserva tra l’altro qualche sorpresa niente male (per quanto poco chiarita nella sua origine). Van den Houten non ama esplicitare i dettagli – come invece aveva fatto Gregory Wilson in The girl next door, con cui “The woman” condivide lo stesso autore del soggetto (lo scrittore horror Jack Ketchum), e preferisce far scorrere la storia come se si trattasse di un film da prima serata.

    Cosa che “The woman” non è, visto che si tratta di una pellicola di explotation che non lesina affatto in termini di violenza fisica e mentale, sempre da parte di individui di sesso maschile sul gentil sesso (le accuse di misoginia, in questo caso, lasciano veramente il tempo che trovano, visto che è proprio quello il focus che il film critica aspramente). Senza gli eccessi del cinema di genere il regista preferisce optare per un formato da serie TV, senza spettacolarizzare alcunchè (ed avrebbe dovuto farlo, in certi casi), senza esagerare nelle efferatezze (caricarle serve spesso a potenziare il potenziale catartico della pellicola) e con il rischio di risultare inferiore alle aspettative; questo nonostante il tema forte e molto “appetibile” per un film dell’orrore. Si sviluppa così una storia ambientata nella provincia americana, nella quale un nucleo familiare dall’aspetto ordinario nasconde degli orribili segreti: roba già vista, già sentita, dispiace ma è così. Per quanto l’intreccio sia comunque originale e di livello – merito esclusivo di Ketchum, quest’ultimo – il film soffre di un‘eccessiva diluizione dei dettagli: il tempo che intercorre tra la cattura della ragazza e la conclusione del tutto sembra interminabile, e questo è dovuto anche ad uno dei “cattivi” meno credibili mai comparsi su uno schermo.

    Per quanto gli sguardi di Sean Bridgers e Belle Cleek (gli insipidi coniugi, non certo i due folli del cult La casa nera) siano pressappoco azzeccati, e le loro caratterizzazioni incalzanti, Chris risulta a mio parere uno degli psicopatici meno adeguati mai visti su uno schermo. Non ci voleva un Hannibal Lecter riveduto e corretto nè un novello Henry (mammagari!): bastava considerare un’interprete più in grado di mostrare la natura ambigua del personaggio, sospeso tra battute di caccia, cene in famiglia e stupri perpetuati come se nulla fosse. Invece l’impeccabile professionista mantiene sempre la medesima espressione anonima, sia che si tratti di compiere efferatezze che quando debba lavorare in ufficio: questo finisce per nuocere alla forma del film e, con tutti i limiti del caso, anche per ridimensionarlo di diverse spanne. Decisamente pià credibile, per fortuna, la performance di Pollyanna McIntosh, eroina totalizzante della storia, molto capace di conferire l’adeguata natura selvaggia al proprio personaggio.

    Tratto dal romanzo omonimo di Jack Ketchum (l’autore del soggetto di The girl next door), “The woman” sembra esaltare l’istinto selvaggio, quello che buona parte della civiltà moderna tenta di reprimere anche a costo di segregarlo, incatenarlo e procurargli del male fisico: quest’ultima, in reazione, finisce per proporre un modello comportamentale – trasmesso di padre in figlio – paradossalmente peggiore di quello della giungla (una contrapposizione, quest’ultima, sviluppata nel celebre “Cannibal holocaust” di Deodato già nel 1979), di quelli che finiscono per mettere tutto orribilmente sullo stesso piano. Non ci sono dubbi, inoltre, che i presupposti da cui parte questa pellicola di Andrew van den Houten – la dinamica della segregazione di un individuo è in parte simile a quella di Paura dei Manetti Bros. – siano quelli di presentare e far discutere tematiche dichiaratamente spinose (patriarcato e sessismo su tutte), e questo – come illustrano casi simili quali A serbian film, Strange circus o Frontiers – risulta essere un autentico campo minato. Potenzialmente si tratta dei lavori a maggior potenziale artistico e qualitativo, ma questo rimane realistico solo quando si riescano a bilanciare forma e contenuti: il film di Gens, ad esempio, aveva mostrato quanto una pellicola in cui si vogliano forzare significati politici – ergo più contenuti che forma – possa risultare dispersiva e parzialmente fuori bersaglio. In questa specifica circostanza si può dire invece che la priorità del regista sia stata, più semplicemente, quella di raccontare una inquietante storia di orrore quotidiano, lasciando sottintese le letture (e scatenando le ire di chi invece si aspettava maggiori focalizzazioni). Questo, se vogliamo, è anche il modo giusto di approcciare quando non si disponga di idee e budget troppo dispendiosi/e: non basta pero’ a fare un buon film (cosa che secondo me “The woman” è solo al 70%), per quanto serva a realizzare un discreto prodotto low-budget da visionare più che altro per curiosità.

    “Cosa ne facciamo di lei? La addestreremo, la renderemo… civile.”

  • Frontiers: un horror politico riuscito solo a metà

    A Parigi scoppia il caos in seguito all’annunciata elezione di un canditato di estrema destra: nel frattempo un gruppo di ragazzi sta fuggendo da una tentata rapina, al fine di trovare scampo fuori città. Troveranno presto il posto sbagliato in cui fermarsi…

    In breve. Una prova di horror francese valida, a ben vedere, più nella forma che nella sostanza. Lo spettatore è avvolto da una spirale di tensione e crudeltà, in trepidante attesa di una liberazione che assume, nelle intenzioni del regista, più di un significato. Strizza l’occhio a Non aprite quella porta, ma il capolavoro di Hooper resta ineguagliato in larga parte, mentre i sottotesti infilati in questa storia finiscono per appesantire in modo artificioso la trama.

    La caratteristica più singolare di questa pellicola di Gens, probabilmente, risiede nel suo volersi mostrare politicamente schierata: sulla carta, almeno, di tratta di demonizzare la follia nazista, in particolare simboleggiandola attraverso la violenza di un gruppo di psicopatici. Nella pratica pero’, al di là delle facili euforie che vivranni alcuni spettatori, il risultato rischia di far sollevare più di un sopracciglio: ambientando le vicende in uno scenario tanto realistico quanto caotico, il regista delinea la storia di un gruppo di disperati improvvisati rapinatori, oppressi da problemi sociali e personali di vario tipo (provengono dalle banlieue parigine). L’inizio del film, di fatto, ricorda infatti più un film da cineforum che un horror tradizionale: e, in effetti, lo scollegamento tra premesse e conseguenze appare forzoso dopo circa mezz’ora, in tutta la sua interezza.

    Senza voler virare su spoiler che brucino le sorprese che “Frontiers” riserva, è importante sapere che le dinamiche sono non tanto quelle del torture-porn – un termine che è stato usato talmente a vanvera da non significare più nulla – quanto quelle del rapporto “preda-predatore”. Se si trattasse solo di questo, in verità, sarebbe l’ennesimo rehash de “Non aprite quella porta“, con i cattivi che attendono in modo estenuante l’arrivo della vittima, nella consapevolezza di essere inattaccabili e onnipotenti. Sai che novità: ma questo, secondo Gens, si presta già di suo ad interpretazioni politico-sociali, tanto che il gruppo di folli viene schematizzato come una famiglia tradizionalista e dalla morale distorta, in grottesco contrasto con i metodi poco ortodossi che utilizzano per massacrare esseri umani. Ma è davvero tutto qui?

    Nell’analisi non dobbiamo perdere di vista un altro aspetto: siamo pur sempre in un horror, il ritmo avverte dei “buchi” clamorosi soprattutto nella prima fase, si attende fin troppo il momento della mattanza (e della rivalsa) e c’è un po’ il rischio, a mio parere, che lo spettatore si ritrovi con troppa carne al fuoco da dover gestire e vedere. Dopo una seconda visione di questo film, in effetti, mi è venuto spontaneo chiedermi se per caso la lettura socio-politica del film non sia altro che – udite, udite – un’enorme ed inutile forzatura. Del resto le due parti di  “Frontiers – Ai confini dell’inferno” – la fuga da un lato, e l’arrivo in “zona maniaci” dall’altro – sembrano essere apertamente scollegate tra loro, creando una discrepanza che – mutatis mutandis – avevo riscontrato in modo similare anche ne “Il profumo della signora in nero“.

    Rappresentare dei “parenti” stretti di Leatherface e compagnia e renderli filo-nazisti poteva essere accattivante, eppure il modello di “famiglia ariana” ostentato mal si concilia, ad esempio, con la stessa immissione in famiglia di una ragazza sconosciuta (!) incinta di un uomo che non è il marito (!), senza contare che Karina Testa è pure di origine algerina. Arianesimo? È facile farsi trascinare da facili entusiasmi in queste circostanze (il film è stato osannato abbastanza incondizionatamente dalla critica), nè non ho intenzione di sminuire gratuitamente una pellicola che, sia chiaro, possiede almeno un paio di sequenze che valgono il prezzo del film.

    Bisogna pero’ riconoscere che azzardi del genere, spinti a far assumere una valenza al film che difficilmente avrebbe mai avuto, fanno forse più male che altro. Il finale riesce a consolare lo spettatore pignolo nel suo un epico crescendo splatter, mostrando comunque una faccia dell’horror che rischia di assumere una valenza quasi pomposa. La sintesi è quindi che Gens possa aver, nonostante le buone intenzioni, parzialmente mancato il bersaglio, e questo per quanto l’impianto complessivo del lavoro regga, e soprattutto sappia intrattenere.

    Una pellicola dominata da un cupo pessimismo di fondo, dunque, con una Karina Testa in un’interpretazione degna di una scream queen di altri tempi (di questo possiamo dare atto senza remore, a mio avviso). È anche vero che Frontiers, in modo più debole di A Serbian Film, sottintende un sottotesto politico (im)preciso che, a confronto della pellicola citata, sarebbe stato invece essenziale per valorizzare il film stesso (se definito meglio). La famiglia governata dall’inquietante Padre, che ricorda pesantemente il gerarca de “Il maratoneta” e ne ricalca le crudeltà all’ennesima potenza, in certi casi rischia di sembrare involontariamente caricaturale. Un archetipo di villain che spaventa con tutti i limiti del caso, e che rimane un personaggio discretamente costruito così come l’immancabile e sadica “femme fatale” modello “La casa dei 1000 corpi“.

    In conclusione questo è il tipico film che saprà variegare le opinioni del pubblico e questo, probabilmente, è il suo miglior pregio. E se è vero che in media stat virtus, probabilmente si tratta di un discreto horror che, con qualche elemento riassemblato, sarebbe stato molto, ma molto più incisivo.

  • L’arcano incantatore: l’horror di classe di Pupi Avati

    Un giovane seminarista perseguitato dalla chiesa fa un patto col diavolo per salvarsi: viene così inviato da un misterioso individuo, a suo tempo scomunicato per aver divulgato e studiato vari libri all’indice. L’atmosfera si rende subito sinistra, mentre il protagonista si lascia travolgere dagli eventi…

    In breve. Gotico all’italiana con lo stile, inconfondibile, di Pupi Avati, ed innumerevoli suggestioni argentiane: forse uno dei più incisivi e meglio realizzati horror del periodo.

    Se dovessimo indicare un horror italiano di quelli da rimpiangere nostalgicamente, sicuramente questo singolare gotico di Pupi Avati avrebbe la sua parte di rilievo. Superiore alla media delle produzioni del periodo, in un momento in cui il periodo d’oro di Argento e Fulci stava declinando o era, di fatto, già in declino, L’arcano incantatore riprende apertamente il meglio delle produzioni gotiche all’italiana (per intenderci Bava, Margheriti e compagnia) e ne tira fuori un prodotto originale, seppur (a voler trovare dei difetti per forza) con qualche pecca recitativa (a mio avviso perdonabile, nel contesto narrativo in cui ci si colloca).

    Certo Avati dimostra di saperci fare con il genere, proponendo un crescendo narrativo che è quasi interamente un flashback e che, nonostante possa apparire vagamente “telefonato” allo spettatore più avvezzo al genere, fa la sua figura più che dignitosa oggi. La figura del protagonista (uno Stefano Dionisi già visto in Non ho sonno, ad esempio) si erge nella propria duplice veste di perseguitato e colto seminarista, capace di suscitare empatia nel pubblico nonostane la sua sorta appaia segnata fin dall’inizio. Il patto che ha stipulato per provare a salvarsi la vita è un accordo col maligno, che certamente ha fatto i propri conti e che mostrerà progressivamente una rete di inganni. Per Avati, questo contesto sovrannaturale sembra ideale sia per costruire atmosfere lugubri nella nostra terra (siamo in Umbria, in particolare), sia per sottintendere una critica alla chiesa dell’epoca, peraltro senza calcare troppo la mano su questo aspetto ma limitandosi (si fa per dire) a fare un buon horror all’italiana. Generazioni successive di registi horror finiranno per prendere spunto da questo film, che potrebbe piacere anche al grande pubblico dei non prettamente appassionati del genere.

    Come suggerito da alcuni, del resto, L’arcano incantatore media, in un certo senso, i migliori aspetti dai precedenti La casa dalle finestre che ridono (soprattutto nel sinistro finale e nella sua ambiguità sorprendente) e dell’insuperabile Zeder (soprattutto nelle atmosfere, ma anche nei riferimenti, abbastanza celati, al ritorno dalla morte). Avati ci sa fare e colpisce nel segno, con un pieno di echi argentiani (il protagonista ossessionato dalla sua stessa storia, su tutti) che a ben vedere derivano più propriamente dalla tradizione gotica di Mario Bava.

Exit mobile version