FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Terrifier – L’inizio (All Hallows’ Eve) segna la prima apparizione di Art The Clown

    Terrifier – L’inizio (All Hallows’ Eve) segna la prima apparizione di Art The Clown

    La storia è questa: All Hallows’ Eve (distribuito in Italia col titolo Terrifier – L’inizio) si presenta in veste antologica (e almeno in parte meta-filmica) presentando una serie di corti horror a cui assiste la baby sitter protagonista, giusto durante la notte di Halloween. La videocassetta di cui viene in possesso presenta apparentemente le gesta di Art the Clown, un brutale killer che sarebbe diventato iconico nella popolare serie di horror Terrifier.

    Siamo all’esordio registico di Damien Leone (che cura personalmente gli effetti speciali), anno 2013, ed il film viene girato per l’home video o direct-to-video, qualche anno prima che lo streaming diventasse popolare per la diffusione di serie TV e film. Nelle intenzioni registiche All Hallows’ Eve (letteralmente “La vigilia di Ognissanti”) non era pensato come antologia e serviva esclusivamente a far conoscere il personaggio al grande pubblico.

    Di fatto, questa primordiale versione di Terrifier rientra negli horror low budget ad ogni latitudine, mostrando discreti effetti speciali, una storia molto essenziale quanto canonica per il genere e interpretazioni attoriali nella media. Le reazioni della critica sono state divisive, tra chi ha parlato di un sincero tributo al genere a chi ha stroncato l’operazione senza appello per la sua eccessiva amatorialità. All Hallows’ Eve ha un suo perchè, per quel che vale saperlo: per quanto rientri nell’affollato novero dei film ispirati ad Halloween (31, Halloween, e la lista potrebbe continuare) è un horror compatto, incisivo e coinvolgente, soprattutto per i fan degli “horror pseudo-amatoriali” che si ispirano allo stile POV (Point Of View).

    Siamo al numero 237 (lo stesso citato in Shining) di una casa americana, dove si trovano due ragazzini con la baby sitter. È notte, è Halloween. All hallows’ Eve esordisce con l’orrore atavico e cristallizzato de La notte dei morti viventi, citato nelle prime sequenze (anche perchè di pubblico dominio, peraltro), sottolineando il disinteresse per lo stesso da parte dei personaggi (mentre il film è in proiezione la ragazzina vestita da strega trova più interessante il proprio cellulare). Come a dire: non basta più girare horror sociologici, siamo troppo disillusi per comprenderli, troppo de-sensibilizzati a qualsiasi tema, e quello che sembra scuoterci non può che essere l’intruso, l’estraneo che aggredisce senza movente, il pagliaccio assassino (sulla falsariga di Pennywise) pronto ad intrufolarsi in casa mentre viviamo un tranquillo momento domestico, che uccide senza una ragione nè uno straccio di storytelling sulle motivazioni, mentre ostenta davanti alla camera l’orrore prodotto.

    Immagini tratte da imdb.com

    I ragazzi protagonisti, affidati ad una baby sitter, trovano nel cesto dei dolci di cui hanno fatto incetta il nastro di una VHS senza etichetta; dopo una breve trattativa in cui l’adulto è ovviamente contrario a far vedere ai ragazzi il contenuto, per quanto sembri segretamente attratto dalla prospettiva. In seguito alla considerazione che “non potrà essere peggio di quello che si vede di solito su internet“, il trio decide di guardare la videocassetta.

    Si tratta ovviamente di un escamotage perchè il pubblico possa visionare un film diviso in tre episodi: The 9th Circle, Something in the Dark e Terrifier. Il tema centrale è, naturalmente, legato all’idea della videocassetta maledetta, del nastro che evoca orrori occulti dopo averlo visto, che già aveva caratterizzato un cult come Ring di Hideo Nakata, noto perlopiù per il remake del 2002 interpretato da Naomi Watts. I tre episodi che compongono il film sono ovviamente collegati alla trama principale, ma si tratta di un horror antologico “ibridato” da una narrazione unificata, sulla falsariga della tradizione inaugurata da Ai confini della realtà e, forse soprattutto, I racconti di zio Tibia (Uncle Creepy). Il piano meta-narrativo esce fuori, ovviamente, nel momento in cui dubitiamo di aver assistito ad un fatto di cronaca e non ad una fiction, simboleggiato da Art The Clown che sembra scalpitare per fuoriuscire dallo schermo.

    Nell’ordine The 9th Circle racconta di una ragazza che viene rapita in una stazione da Art the Clown, figura grottesca e dall’aria ambigua – prima la distrae ridacchiando e offrendole un fiore, poi la rapisce dopo averla narcotizzata. In questi istanti siamo consapevoli di “stare guardando un film”, perchè assistiamo periodicamente alle reazioni dei tre personaggi che abbiamo visto all’inizio, che guardano la videocassetta assieme a noi con tre mood molto diversi. Se in questa fase i “convenevoli” sono tipici del genere – in particolare dei sottogeneri exploitation e torture porncolpisce l’essenzialità del girato, la rapidità del divenire, i dialoghi essenziali quanto efficaci, la capacità di rigenerare il tema – nonostante sia abusato e piuttosto sfruttato dal cinema.

    E poi naturalmente c’è Art The Clown, un villain crudele che sbuca da ogni angolo, emulando gli sketch di un pagliaccio ma che uccide senza scrupoli e senza giustificazioni, rendendo la morte quasi preferibile a continuare una prigionia atroce, una surreale assurda detenzione, un macabro incedere di torture irraccontàbili che, per inciso, non potevano che riguardare vittime femminili e dei cattivi maschili. La conclusione dell’episodio, solo accennata quanto piuttosto chiara, ricorda ancora oggi l’attualità del male satanico o lovecraftiano insito nel pianeta e, a vederla così, anche quello del patriarcato e dello sfruttamento del corpo femminile.

    Sembra una parentesi chiusa e limitata alla televisione della VHS, che assume in questa sede un ruolo simile al puzzle cubico ( ) di Hellraiser, mediante il quale è possibile accedere ad una dimensione di sofferenza e dolore – e, naturalmente, invertire il flusso, per consentire agli orrori di spalancarsi nel mondo reale. Dopo aver mandato a letto i ragazzi, la baby sitter avverte qualcosa di sinistro, solo accennato, che poi si traduce in un uovo lanciato contro la finestra da alcuni ragazzini di passaggio. La ragazzina nel frattempo fissa per qualche istante l’anta socchiusa dell’armadio, con una suspance interminabile e magistrale come solo un horror ben realizzato riesce a sostenere (senza peraltro mostrare nulla di esplicito). Resta impressa l’espressione compiaciuta con cui il ragazzino ha guardato l’intero cortometraggio di cui sopra, nonchè una sorta di singolare “attaccamento” alla VHS che esplicita alla baby sitter prima di andare a dormire.

    È la volta del secondo episodio: Something in the Dark mostra una protagonista che ha da poco traslocato in una nuova casa, quando un tonfo ed un blackout fermano le sue attività. Veniamo subito a conoscenza di un dettaglio importante: la donna è la compagna di un pittore che, senza ricordare come e quando l’abbia fatto, ha dipinto un ritratto di Art the Clown. Il blackout costringe la protagonista ad un duplice impegno mentale: l’introspezione su come dovrà agire per sopravvivere (come le vittime del corto precedente, appare come una domanda vuota, nichilista, retorica, priva di significato), a cui si aggiunge la constatazione disperata che il buio si sia propagato “per vicinanza”, o che sia stato colpa di un meteorite (il riferimento è ai fatti della meteora di Celjabinsks di inizio 2013, che causarono danni per via delle schegge prodotte dall’impatto). Nel frattempo, come tradizione impone, la macchina della donna non parte – come accadeva anche in Brivido di Stephen King (un meteorite produceva l’effetto di disattivare automobili, bancomat e quant’altro), e sarà l’inizio della fine.

    Si potrà anche contestare il formato video dell’opera e l’aura di amatorialità che avvolge All Hallows’ Eve, ma non si può affermare che si tratti di un horror privo di crisma, spessore e riferimenti al genere. Il tema dell’artista visionario in grado di scrutare nelle profondità dell’abisso, del resto, presenta riferimenti negli horror classici ispirati a Lovecraft e Poe (su tutti L’aldilà fulciano e La casa dalle finestre che ridono), e finisce in questa sede per delineare l’origine del villain ed il fatto che, naturalmente, qualcuno o qualcosa verrà a reclamare quel dipinto. La sceneggiatura suggerisce peraltro che l’origine di Art possa essere extraterrestre. L’episodio è forse il più debole dei tre, soprattutto perchè l’alieno che viene mostrato è piuttosto posticcio, mentre il legame con Art the clown rimane indefinibile quanto sostanziale. Come nell’episodio precedente, le figure maschili non sono d’aiuto per la protagonista, nè sono presenti attivamente nella storia.

    Terrifier chiude la carovana di orrore mostrando ancora una volta una protagonista femminile, questa volta una costumista alle prese con un viaggio notturno in cui si ferma a fare rifornimento nei pressi dell’unico distributore disponibile. È qui che ricompare Art the clown nella sua veste “ordinaria”: un pagliaccio che si esprime a gesti e mimica facciale, senza dire una parola, che evoca apparentemente un emarginato un po’ strambo o antisociale. È appena andato via dalla stazione di servizio, cacciato malamente dal proprietario, mentre la protagonista dell’episodio si appresta a proseguire il viaggio. Cosa che non potrà, ovviamente, fare.

    In questa sede non è tanto l’efferatezza del killer a farla da padrone, quanto la sua ubiquità, la capacità di apparire in posti fisicamente distanti tra loro – a dispetto di qualsiasi plausibilità materiale. Non solo: gli ultimi minuti del film sono puro orrore distillato, nei quali si gioca sul senso di falso sollievo indotto sulla vittima, mentre il killer ricompare incessante e instancabile citando peraltro una delle scene più famose di Non aprite quella porta. Inutile raccontare come il film sia avviato alla conclusione, a questo punto, poichè si tratta di un ulteriore concentrato di orrore inenarrabile che trasgredisce, peraltro, una delle regole implicite del genere mainstream – per cui i protagonisti giovani in genere si salvano, o al più assistono all’orrore con valenza traumatizzante o catartica.

    Tutto questo è All hallows’ eve, se preferite Terrifier – L’inizio, senza mezzi termini uno degli horror più evocativi mai girati negli ultimi anni, da non perdere per qualsiasi appassionato del genere.

  • La casa dei 1000 corpi: horror alla Tobe Hooper, revisited

    Quattro ragazzi si avventurano nella provincia americana alla ricerca di stranezze locali da raccontare in un libro: conoscere il bizzarro Capitano Spaulding, a quel punto, sarà solo l’inizio…

    In breve. La casa dei 1000 corpi è “Non aprite quella porta” + “exploitation alla Wes Craven” diviso due: anzi, diviso sadicamente in tanti piccoli pezzetti. Niente male come lavoro, da segnalare per lo stile di ripresa frenetico di Zombi, per lo stile visionario tipicamente anni 70/80 (tra lo splatter e la psichedelia) e per l’esasperato citazionismo che lo pervade.

    La casa dei 1000 corpi è un horror sanguinolento, movimentatissimo ed al fulmicotone, girato quasi come un videoclip metal ad opera di Rob Zombie, leader dei seminali White Zombie e diventato famoso, ad oggi, sia come musicista solista che come regista di genere (suoi anche 31 e Le streghe di Salem). Massacrato da parte della critica americana come una scopiazzatura malriuscita di b-movie di culto, fu inaspettatamente ben accolto in Italia, sia dai futuri fan del regista-musicista e sia, ad es., dal Morandini. In effetti questo film possiede una grande importanza rispetto al periodo in cui uscì, soprattutto per il suo spirito di omaggio alla tradizione di genere e, al tempo stesso, di innovazione creativa. Questo è il primo film di Rob Zombi da regista (che come nella tradizione carpenteriana, in questa sede, ha curato anche le musiche), importante per il genere perchè delinea una propria, netta tendenza stilistica: un horror esplicito e sanguinolento, che insiste sui primi piani e sui dettagli, non risparmia efferatezze ed alterna momenti psichedelici quasi arthouse. Se la narrazione in sè potrebbe considerarsi banale, non bisogna dimenticare che ai vari dettagli spaventosi si alternano maschere demoniache, immerse in rituali cruenti (e realistici, ispirati ad esempio alle efferatezze di Ed Gein) e calati in un contesto di frammenti sconnessi, santoni che delirano di fronte alla telecamera, uso di effetti video e cromatici quanto basta, vittime vestite da conigli ed un feeling tipicamente settantiano. Insomma, non è solo lo splatter sconclusionato che potrebbe sembrare: l’horror di Rob Zombi vive una propria, codificata teatralità.

    La storia è quanto di più classico possiate mai aver visto in uno slasher movie: un gruppo di ragazzi perbene (ed un po’ nerd) si imbatte in un curioso clown (il Capitano Spaulding) che li conduce a visitare un tunnel dell’orrore (una citazione implicita del film di Hooper) a cui i quattro vorrebbero dedicare parte del proprio libro. Si assisterà non solo all’ovvia degenerazione della storia, ma anche a numerosi cenni a ritualità oscure legate ad Halloween, e a qualche elemento dell’horror sovrannaturale (il morto vivente che compare anche sulla locandina). Tanto per ribadire da quale attitudine sia guidato, Zombie ambienta il suo film nel Texas, anno 1977, alla vigilia di Halloween (anche il più recente 31 si svolge nella stessa data). Da segnalare Baby Firefly, la consorte del regista Sheri Moon Zombi in un’interpretazione convincente e spaventosa, nonostante fosse all’esordio. Menzione speciale per “l’allegra famiglia” composta da Mother Firefly, Tiny, Rufus, Otis e nonno Hugo: il riferimento è a Non aprite quella porta (1974), di cui La casa dei 1000 corpi può considerarsi un validissimo rehash (poco prima era uscito il più modesto Skinned Deep, sempre sulla stessa falsariga).

    La casa dei 1000 corpi andrebbe peraltro rivalutato per via delle doti registiche visionarie di Zombi, a cominciare da alcune sequenze del film girate in prima persona da membri del cast sfruttando una camera manuale a 16mm (chi ha pensato a mockumentary non ha sbagliato). Molte altre, invece (con un notevole anticipo su una tendenze che sarebbe diventata una moda degli horror realistici più recenti) sono presentate come se fossero snuff movie (filmati amatoriali in cui verrebbe rappresentata una morte reale). Tutti piccoli dettagli che, al di là di una trama forse già sentita, compongono un’opera decisamente originale – soprattutto negli ultimi venti minuti da incubo. Film che è stato anche dalla gestazione complessa, in quanto finito di girare nel 2000 ma distribuito solo nel 2003, grazie alla coraggiosa Lions Gate Films ed in seguito al disinteresse della Universal pictures (per via delle eccessive scene splatter), che avrebbero sostanzialmente imposto un divieto ai minori di 17 anni. Per questo motivo è ormai noto che Zombi abbia girato doppia versione delle scene più gore: una più leggera ed una più esplicita, sfruttando alternativamente un’illuminazione bianca o rossa. Scelte di un regista già all’epoca con le idee piuttosto chiare, se si pensa che fu il suo debutto nel mondo del cinema.

    La casa dei 1000 corpi è ad oggi uno dei film più famosi del regista americano, ricco di rimandi al cinema horror/exploitation anni ’70 ed altrettanto carico di dettagli splatter anche piuttosto originali (una delle vittime ibridate con un pesce, per non parlare del Dottor Satana), che scorre rapido sullo schermo come un perfetto grindhouse, e la sua conclusione è un crescendo di paura e violenza. Si delinea uno stile che Zombi porterà coraggiosamente avanti negli anni a venire, ovvero un modus operandi registico estremamente frammentato e veloce, tanto da evocare un videoclip ed in contrapposizione, se vogliamo, all’incedere monolico, compiaciuto e rallentato di molti altri horror (moderni e non). I personaggi, pur essendo ispirati ad una letteratura cinematografica di serie B piuttosto circoscritta (la ragazza provocante ed ambigua, il clown grottesco, la famiglia psicopatica…), vivono una propria autonomia, e riescono a divertire l’appassionato del genere senza mai sconfinare nella monotonìa o nelle banalità. Ovviamente nel film non manca la componente cruenta, per cui si tratta di un qualcosa che – in linea di massima – non piacerà al grande pubblico.

    House of 1000 corpses“, in italiano “La casa dei 1000 corpi” (che sembrerebbe una traduzione maccheronica, visto che corpse significa “cadavere” e “La casa dei 1000 cadaveri” suonava meglio, se non altro) vive di un’originalità invidiabile, in bilico tra orrore puro e appariscente grottesco (quel grottesco che diventerà un tratto distintivo del cinema di Zombi), a tratti davvero sorprendente anche perchè il filone non offriva, di per sè, tutta questa flessibilità. Un lugubre agglomerato di paura, sevizie, torture inimmaginabili, violenza esplicita sia pur con la nichilistica scomparsa della componente essenziale del revenge movie puro (il riferimento a Le colline hanno gli occhi è doveroso). L’orrore qui si vive sulla propria pelle, e non da’ speranza fino all’ultimo, inesorabile fotogramma.

  • L’Armata delle Tenebre: Cult e Splatter anni ’80

    Chi poteva immaginare che Ash sarebbe finito proiettato nel passato? Nel precedente episodio della saga (il riferimento è “La casa” di Raimi, per chi non lo sapesse) Ash in due episodi sostanzialmente molto simili finiva per avere a che fare con dei demoni, risvegliati dalla lettura di alcune strane formule registrate su un magnetofono, aggeggio finito nelle mani degli amici sprovveduti del protagonista. Dopo una lotta surreale contro le strane creature, la saga si sposta nel tempo, cose che “solo negli anni 80” (anche se il film è del 92). Da qui svariati film copieranno questa struttura di fondo: è quello che succede nelle infinite produzioni americane nelle quali un protagonista, infelice ed incompreso all’interno del mondo moderno, si ritrova nel mondo medievale (ad esempio) e diventa lentamente un eroe per la gente del posto. Tutta la storia è incentrata sul fatto che Ash comprenda che l’unico modo con il quale può tornare nel suo presente consiste nel ritrovare proprio il Necronomicon.

    “Mi chiamo Ash: reparto ferramenta”

    Tra le scene di culto, i piccolo Ash che fuoriescono dai frammenti di uno specchio, il “gemello cattivo” fatto fuori a colpi di “bastone di tuono” (il fucile), la rocambolesca lotta contro streghe e demoni, l’alleanza con un Mago che decide di aiutarlo: sarebbe sostanzialmente un film fantasy, in cui la componente fumettistica è osannata all’ennesima potenza (non a caso Raimi dirigerà uno Spider Man). Un film che potrebbero vedere anche coloro i quali avevano gli occhi tappati durante la visione dei primi due episodi, e di cui vale la pena raccontare che esiste un doppio finale: la versione ufficiale – imposta dalla produzione, ed un po’ “tamarra” secondo me – è edulcorata, prevedibilmente ottimistica ma anche piuttosto divertente:  si scopre che Ash fa il commesso in un supermercato, e salva eroicamente una collega da un demone che sbuca fuori nel negozio. La director’s cut, invece, è più fedele allo spirito della saga, e prevede che Ash riesca a tornare nel futuro, ma per errore finisca in uno post-atomico, disperandosi perchè non potrà più tornare indietro.

  • Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari

    I FOO FIGHTERS si trasferiscono in una villa di Encino per provare a registrare il loro decimo album: la mancanza di ispirazione si tramuterà in una storia macabra dai toni splatter.

    Arriva in Italia il 23 giugno 2022 (e resta nelle sale fino al 29) il nuovo film scritto da Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters), Studio 666: un horror splatter dai toni ironici che racconta in chiave autobiografica la registrazione dell’album . Girato nel periodo più lungo della pandemia di Covid-19 per compensare alla mancanza di un tour, è un film dai toni celebrativi e autoironici pensato e concepito per i fan della band e per chiunque conosca la carriera dell’attivissimo musicista. Sebbene con diversi spunti riusciti, si lascia dimenticare appena qualche istante dopo l’uscita dalla sala, dando la sensazione di essere stato un intenso videoclip dell’orrore, o poco più.

    Abbiamo di fronte una comedy horror modello The babysitter, questa almeno è la sensazione che si avverte dalle prime sequenze, costellate di cameo che sembrano voler alleggerire il carico da horror serioso che, in modo nemmeno troppo velato, Studio 666 vorrebbe assumere in seguito. Il problema principale del film risiede proprio in questa ambivalenza di fondo: da un lato è un horror demenziale come miriadi ne sono usciti, dall’altro sembra voler diventare il racconto dei tormenti interiori di Grohl (cosa che ci poteva stare, ed avrebbe forse sorpreso più in positivo se fosse stata mantenuta come linea: una rockstar che medita inconsciamente di uccidere la propria band non era malvagia, come idea, tanto più se girata modello primo Peter Jackson). Di fatto, Studio 666  degenera nello splatter horror fine a se stesso, un po’ come da media delle produzioni USA un po’ modello Troma, con ritmi incalzanti, dialoghi essenziali, gore a non finire, qualche sprazzo surreale modello Nightmare ma soprattutto dimenticando per strada quello che stava raccontando.

    Un film in cui, in altri termini, le esagerazioni sono all’ordine del giorno e prefigurato il must, la necessità; per quanto i mezzi visuali siano superiori alla media, durante la visione ci si sente più che altro barcamenati da una narrazione incerta, difficile da decodificare. Si guarda il film, si ride o si sorride o si resta indifferenti (dipende dai casi), e non si è mai sicuri se sia un horror o una commedia, se il tono sia introspettivo o retrospettivo, se sia uno scherzo o se si faccia sul serio. Studio 666 è tutt’altro che noioso, per la verità, anzi vive di momenti autenticamente divertenti o intensi; tuttavia non assume mai un feeling chiaro, sembra dilatato all’infinito per quanto racconti una storia horror già vista mille volte (il che diventa l’ultimo dei problemi, ovviamente). Se non altro vedere i Foo Fighters suonare un pezzo doom di quasi un’ora, quasi tipo Sunn O))), rimane al netto di tutto un’esperienza suggestiva per qualsiasi fan del genere (e anche qui, solo per lui).

    Il tutto per quanto sia girato in maniera impeccabile, da horror vecchia scuola, di quelli fatti bene-bene: la primissima sequenza lo dimostra, così come i vari omicidi con le pugnalate modello Dario Argento, i demoni dagli occhi rossi alla Lamberto Bava(o anche The fog), le reminiscenze inequivocabili di Sam Raimi, la citazione de L’esorcista e i richiami al John Carpenter anni 80 e 90, regista che firma assieme al figlio Cody la colonna sonora del film. Anche i Foo Fighters come interpreti di se stessi sono ben caratterizzati, ma latita un po’ troppo il piano narrativo per poter apprezzare appieno l’idea.

    Probabilmente ha ragione Peter Bradshaw sul Guardian a scrivere che il film conferma una certa tendenza della horror comedy nel non saper essere nè spaventosa nè propriamente divertente, per quanto si lasci un po’ prendere la mano dalla critica definendo addirittura “sconcertante” che una commedia (o presunta tale) prenda ispirazione da fatti violenti avvenuti negli anni 90 (è plausibile che nel dirlo ritenga reale l’assunto della band maledetta, il che immagino farebbe molto ridere Grohl e il regista). In realtà che si crei una urban legend o un dubbio sulla realtà dei fatti raccontati fa parte delle ordinarie dinamiche degli horror moderni “fuori dalle righe”, almeno dai tempi di Cannibal Holocaust, ma questo – più che altro – è mera ordinarietà da un punto di vista filologico, e vale per tutti gli horror seriosi o finto-snuff, non certo per un film che, tra le altre cose, strizza l’occhio a lavori come Tenaciuos D di Liam Lynch (pur senza le stesse musiche spettacolari).

    È stato sicuramente divertente per la band auto-interpretarsi o immaginarsi calati all’interno di una trama horror anni ottanta che più topica non si potrebbe, ma il dubbio di fondo è che sia un film più divertito che divertente, che il modo narrativo non sia troppo intellegibile per il pubblico a cui è rivolto il film, che non è affatto scontato (specialmente negli ultimi anni) essere cultore dei cult del genere. Ed il rischio è quello di non cogliere, annoiarsi, rimanere perplessi, senza contare che tante sequenze risultano fiacche se non sai con precisione che quello che interpreta il fonico folgorato è il chitarrista degli Slayer (Kerry King), oppure che la vicina di casa della band è una delle più famose e dissacranti stand up comedian americane (Witney Cummings). Insomma, siamo sempre lì: Studio 666 non ha un’identità chiara e per quanto sia un film divertente (specie da vedere tra metallari) rischia di farsi dimenticare con la stessa frenesia con cui lo si guarda.

    La storia di Grohl, per altri versi è un archetipo horror a tutti gli effetti, che sembra estratto materialmente e con decisione dagli anni 80: la scenaggiatura viene affidata a Jeff Buhler e Rebecca Hughes, per cui il primo contribuisce alle note più horror mentre la seconda alle situazioni umoristiche. La componente splatter tende un po’ a strabordare e, di fatto, oscura quasi del tutto quella ironica, nonostante la presenza  di due interpreti molto popolari della stand up comedian (forse non troppo noti in Italia, ovvero Jeff Garlin e la Cummings). A poco servono gli stessi cameo musicali: Kerry King degli Slayer nella parte di un fonico maldestro, Lionel Ritchie che accusa grottescamente Grohl di plagio durante una scena onirica (forse una delle più riuscite del film), lo stesso John Carpenter (accompagnato dall’attore che ha interpretato la trilogia di video più recenti degli Slayer, ovvero Jason Trost e la benda sull’occhio che porta anche nella vita di ogni giorno, un po’ Frigga/Madeleine un po’ “Jena” Snake Plissken) che non poteva che interpretare il fonico incaricato di registrare la musica della band.

    L’unica certezza ed autentica nota positiva del film è la regia di BJ McDonnell, solida, sicura del fatto suo e ricca di omaggi agli horror amati da tutti: La casa, Venerdì 13 e compagnia. La prova attoriale dei Foo Fighters è inaspettatamente convincente, soprattutto quella di Grohl nell’interpretare l’archetipico personaggio kinghiano dalla personalità multipla. Studio 666 è imbevuto di atmosfere horror anni 80 fino all’eccesso, in una misura da risultare quasi stucchevole anche per il fan più sfegatato. Al netto di questo rimane un film gradevole quanto, alla fine dei conti, solo per fan della band e forse nemmeno per tutti, oltre che rivolto a qualsiasi fan del rock con un minimo sindacale di senso dell’umorismo. Con la nota a margine che potrebbe, nonostante le aspettative elevate, restare un po’ deluso dalla visione.

    Il film vede l’ultima partecipazione da attore del batterista Taylor Hawkins, scomparso nel marzo 2022 durante il tour della band a Bogotà.

    Studio 666 potrebbe essere a breve disponibile in streaming su Prime Video, per quanto ad oggi non sia ancora visionabile e l’Italia non rientri tra i paesi in cui c’è. Il disco contiene brani della band maledette (e fictional) DREAM WINDOW, che è stato anche pubblicato come LP completo su Spotify. Studio 666 è anche il nome di un misconosciuto horror indipendente del 2005, firmato dall’attore e produttore Corbin Timbrook, con cui non dovrebbe avere nulla a che fare.

  • The Turning: trama, cast, spiegazione finale

    The Turning” è un film horror del 2020 diretto da Floria Sigismondi. È basato sul racconto “The Turn of the Screw” di Henry James, pubblicato per la prima volta nel 1898.

    Sinossi

    La trama segue una giovane donna di nome Kate Mandell (interpretata da Mackenzie Davis) che viene assunta come governante per due bambini, Flora e Miles (interpretati rispettivamente da Brooklynn Prince e Finn Wolfhard), in una grande e isolata tenuta nel Maine. Tuttavia, ben presto Kate inizia a sperimentare eventi inquietanti e a percepire presenze soprannaturali nella casa, mettendo in dubbio la sua sanità mentale e la sicurezza dei bambini che le sono stati affidati. Il film è noto per il suo finale controverso e aperto all’interpretazione.

    Spiegazione del finale del film

    Nel finale di “The Turning”, la protagonista Kate Mandell (interpretata da Mackenzie Davis) si trova di fronte a una situazione inquietante e drammatica che coinvolge i bambini Flora e Miles, oltre ad altri eventi soprannaturali nella casa. Tuttavia, il film termina con un’ultima scena ambigua e aperta all’interpretazione, senza fornire una risposta definitiva alle domande sollevate durante la trama. La conclusione lascia molte questioni senza risposta, consentendo agli spettatori di formulare le proprie ipotesi e di interpretare il significato del finale in modo soggettivo.

    Cast

    1. Mackenzie Davis – interpreta il ruolo di Kate Mandell, la giovane donna che diventa governante dei bambini nella casa isolata.
    2. Finn Wolfhard – interpreta il ruolo di Miles, uno dei bambini affidati a Kate.
    3. Brooklynn Prince – interpreta il ruolo di Flora, l’altro bambino affidato a Kate.
    4. Barbara Marten – interpreta il ruolo di Mrs. Grose, la governante della casa.
    5. Joely Richardson – interpreta il ruolo di Mrs. Grose, la madre dei bambini.

    Nel film Joely Richardson (Darla Mandell) è il quarto membro della sua famiglia a comparire in un’adattamento della novella horror del 1898 “The Turn of the Screw” di Henry James. Suo nonno Michael Redgrave ha interpretato lo Zio in Suspense (1961), sua zia Lynn Redgrave ha interpretato la governante Miss Jane Cubberly in The Turn of the Screw (1974) e suo zio Corin Redgrave ha interpretato il Professore in The Turn of the Screw (2009).

    Galleria foto (credits: imdb)

    Libro

    The Turn of the Screw” è un romanzo breve scritto da Henry James e pubblicato per la prima volta nel 1898. È considerato uno dei capolavori del genere horror psicologico e della letteratura gotica. Il romanzo è ambientato in una grande e isolata tenuta di campagna in Inghilterra durante il XIX secolo.

    La trama ruota attorno a una giovane governante che viene assunta per prendersi cura di due bambini, Miles e Flora, dopo la morte dei loro genitori. Tuttavia, la nuova governante inizia a sperimentare eventi inquietanti e a percepire la presenza di presenze soprannaturali nella casa. In particolare, la governante sospetta che i bambini siano influenzati da due spettri, Peter Quint, il precedente guardiano, e Miss Jessel, la precedente governante, entrambi deceduti in circostanze misteriose.

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