DENTRO_ (99 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • Percorrere il pensiero magico

    Percorrere il pensiero magico

    La definizione precisa del pensiero magico può variare leggermente se utilizzata da teorici diversi o tra diversi campi di studio. In antropologia viene attribuito ad un qualcosa annesso al rituale religioso, alla preghiera, al sacrificio o all’osservanza di un tabù, in vista di un potenziale beneficio o ricompensa. Ricerche successive indicano che il pensiero magico è comune anche nelle società moderne, e che sia sbagliato (oltre che razzista, in alcuni casi) attribuirlo solo a popolazioni meno evolute o disagiate. In psicologia sociale, il pensiero magico rappresenta la convinzione che i propri pensieri possono produrre effetti nel mondo, o che pensare qualcosa corrisponda a farlo. Queste convinzioni possono indurre una persona a provare una paura irrazionale di compiere determinati atti o avere determinati pensieri a causa di una presunta correlazione tra il farlo e la minaccia di calamità.

    L’antropologo Edward Burnett Tylor ha coniato il termine “pensiero associativo come un modo di pensare sostanzialmente pre-logico, in cui si opera una confusione tra una connessione autentica ed una solo immaginata. Nel contesto in questione, si crede ad un mago il quale sostiene che alcuni oggetti connessi tematicamente e/o simili possano influenzarsi a vicenda, solo in virtù della loro somiglianza. Il collegga Evans-Pritchard racconta dei membri della tribù Azande che, nei suoi resoconti, sono convinti che strofinare i denti di coccodrillo sulle piante di banano possa provocare un raccolto fruttuoso: questo sembra avvenire perchè i denti di coccodrillo sono curvi esattamente come il celebre frutto, per cui la tribù crede ad una forma di pensiero magico e nella capacità di rigenerazione del mezzo, per cui lo sfregamento favorirebbe l’evento.

    Il pensiero magico viene a volte (quasi sempre?) banalizzato come mera superstizione e, per quanto tale visione non sia totalmente avulsa dalla realtà delle cose, più in generale possiamo pensarlo come annesso alla convinzione che gli eventi non correlati siano collegati causalmente. Se le cose vanno male ho il malocchio, ad esempio, ma non solo: l’idea che i pensieri personali possono influenzare la realtà esterna (pensare sempre alla pandemia, ad esempio, farà passare la pandemia), oppure quella che gli oggetti siano collegati causalmente se hanno forme simili oppure, ancora, che due persone rimangano in contatto psichico dopo essersi lasciate, anche se vivono in luoghi distanti (per i razionalisti puri, potremmo essere al limite dello stalking).

    Secondo gli scritti di Bronisław Malinowski un ulteriore tipologia di pensiero magico prevedere che suoni e parole possano influenzare il mondo: un leitmotiv tipico di molti horror, in cui (estremizzando) “parli del diavolo e ti troverà”. Più in generale, diventa pensiero magico prendere un simbolo o una analogia come referente per rappresentare un’entità non nominabile o tabù. Sigmund Freud del resto era convinto che il pensiero magico fosse prodotto da fattori di sviluppo cognitivo, in cui i “maghi” proiettavano – semplificando un po’ – la propria visione bambinesca nel mondo.

    Come con tutte le forme di pensiero magico, le nozioni di causalità basate sull’associazione e sulle somiglianze non sono per forza dettate da pratiche propriamente magiche (nel senso di “legate ad un mago”). Ad esempio, la dottrina delle segnature sosteneva che le somiglianze tra parti vegetali e parti del corpo indicavano la loro efficacia nel trattamento delle malattie di quelle parti del corpo, e per quanto oggi sappiamo che fosse un caso di euristica di rappresentatività per molti anni, nel Medioevo, nessuno ebbe nulla da ridire in merito (altro caso di pensiero magico ricorrente e comune, questa euristica o scorciatoia mentale: vediamo due persone assieme, e pensiamo automaticamente che siano una coppia).

    Alcune teorie del complotto afferiscono più o meno vagamente al pensiero magico, e tendono a confermare una visione non scientifica che, per supremo paradosso, risulta altrettanto credibile (con buona pace dei seguaci di Popper). Il pensiero magico viene creduto e tanto basta, del resto come avviene – secondo Suspiria – per la magia vera e propria: la magia è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti, è creduta. Per non parlare della ritualistica annessa al calcio, per cui qualsiasi tifoso (o quasi) ha sempre fatto scongiuri e rituali scaramentici pre partita, per poi dimenticarsene se la squadra del cuore perde, e glorificando la vittoria “magica” in caso contrario. Chiunque usi un social network, che lo faccia tra troll impenitente o moralista irreprensibile, ha ritenuto almeno una volta nella vita che pensare qualcosa equivalga a farla.

    Viene anche da chiedersi come il pensiero magico sia sopravvissuto alla tecnologia ed alle innovazioni: le motivazioni sono varie,e  difficilmente si trova un accordo sostanziale sul tema.  Da un punto di vista psicologico, infatti, varie scuole di pensiero insistono sul fatto che il pensiero magico sia terapeutico, ovvero che le persone si rivolgano a “credenze magiche” qualora esiste un senso di enorme incertezza e potenziale pericolo, e non sia possibile accedere a risposte logiche, sistematiche o scientifiche. Il pensiero magico assolve ad un tentativo di controllo delle circostanze, e può diventare drammatico da gestire e accettare soprattutto per i razionalisti di ferro.

    Fu Jean Piaget (psicologo dello sviluppo) tra i primi a discutere di pensiero magico, e secondo i suoi scritti lo stesso sarebbe prevalente nei bambini di età compresa tra i 2 ed i 7 anni (cosiddetta fase pre-operatoria): età tipica in cui gli stessi tenderebbero a credere che i pensieri personali influenzino la realtà (nei giochi d’infanzia la cosa dovrebbe essere evidente, e basta ripensarci un po’ per capacitarsene). In questa fase avviene un passaggio fondamentale: mancando il raziocinio più tipico dell’età adulta, concetti come la morte appaiono non comprensibili, e un bambino potrebbe convincersi che se il suo cano è “andato” un giorno potrebbe tornare (film horror come Pet cemetary sono particolarmente emblematici in tal senso). Ci pensa il pensiero magico, in questi anni, a colmare un divario incolmabile, e il passaggio alla fase successiva costringe il bambino a capacitarsi della realtà e a crescere.

    Alcuni studiosi ritengono che la magia sia efficace soprattutto (se non soltanto) psicologicamente. Citano l’effetto placebo e la malattia psicosomatica come ottimi esempi di come le nostre funzioni mentali esercitano potere sui nostri corpi. Allo stesso modo, l’antropologo Robin Horton si è spinto a sostenere che impegnarsi in pratiche magiche possa in alcuni casi alleviare l’ansia, il che potrebbe avere un effetto positivo. In assenza di un’assistenza sanitaria adeguata, tali effetti svolgerebbero un ruolo importante anche se non essenziale, contribuendo così a spiegare la persistenza e la popolarità di queste pratiche. In ambito psichiatrico, tuttavia – senza voler azzardare diagnosi spicciole, fin troppo alla moda negli ultimi anni – il pensiero magico è un disordine mentale vero e proprio, che denota la falsa convinzione che i propri pensieri, azioni o parole causeranno o impediranno una conseguenza specifica, in barba alla causalità classica.

    Da un punto di vista generale, vari ricercatori hanno identificato due possibili principi come cause formali dell’attribuzione di false relazioni causali nel pensiero magco:

    • la contiguità temporale di due eventi, per cui se due cose avvengono in tempi brevi la precedente abbia causato la successiva;
    • il cosiddetto pensiero associativo, l’associazione di entità in base alla loro somiglianza o le classiche “associazioni di idee”. Quello del pensiero associativ era un tema caro a tanti studiosi dell’era vittoriana, che tendevano ad associarlo all’irrazionalità, probabilmente generalizzando.

    Nonostante l’opinione che la magia sia meno che razionale e comporti un concetto inferiore di causalità, dobbiamo a Claude Lévi-Strauss la possibilità che non esista alcuna distinzione netta tra pensiero “primitivo” e “civilizzato”, cosa provata dal dilagare nel pensiero magico, a nostro avviso, a partire dai primi anni di pandemia.

  • Il fallimento di FTX ci rende ancora meno fiduciosi nei giovani startupper

    L’exchange di criptovaluta FTX è andato in bancarotta letteralmente da un giorno all’altro, lasciando migliaia di investitori nel dubbio e nell’attesa, difficilmente soddisfacibile, di riavere indietro i soldi investiti. Un giorno nella gloria, il giorno dopo non sei più nessuno: se dovessimo riassumere il senso di questa storia in estrema sintesi, la frase da utilizzare potrebbe essere questa (da 32 miliardi di valutazione a nulla). Ed è altrettanto ironico – o tragicamente tale – che il CEO di FTX, società in fallimento, si chiami Samuel Bankman-Fried, dove quel bankman (uomo-di-banca, tradotto letteralmente) avrebbe dovuto (forse) opporsi al collasso della finanza tradizionale basata su dollari, speculazioni ed analisi di mercato, proponendo un mercato finanziario basato sulle criptovalute che, vale la pena ricordarlo, nascono come strumento di finanza decentralizzata alternativa, almeno inizialmente non di natura speculativa.

    Un’analisi che guida molti esperti, spesso presunti tali, nel comprendere ciò che davvero è successo – nel dettaglio sembra plausibile che nessuno lo saprà mai – tanto peggio se poi orde di giornalisti (affamati di click per le rispettive testate) fanno il riassunto del riassunto dell’analista amico dello zio, uno bravissimo col computer s’intende, ponendo le basi per la concretizzazione di un perverso relativismo interpretativo a cui, alla fine siamo abituati: lo stesso storytelling che se da un lato ammette una guerra, una aggressione, una pandemia, un fallimento di un exchange, ammette la possibilità che a qualcuno piaccia leggere le cose in modo diverso, parlando rispettivamente di reazione da uomini duri, “se l’è cercata”, solo un’influenza, fallimento totale delle criptovalute. Assolutizzare l’informazione – come se non esistessero vie di mezzo, e come se la realtà fosse esattamente come la scriviamo e la leggiamo, nel 100% dei casi – è un’altra caratteristica perversa del mondo basato sulla comunicazione spicciola in cui viviamo.

    La cultura negazionista, di per sè, si arroga spesso il diritto di proporre riletture della realtà, provando a ribaltare le cronache, polverizzando e rendendo nulla ciò che Lacan distingueva tra il e l’immagine del sè: due cose ben diverse, per cui se uno nega che ci sia stata una crisi significa che quella crisi potrebbe non esserci stata, e ti verrà addirittura il dubbio che le vittime della crisi in questione nemmeno esistano. Queste chiavi di lettura perverse strizzano l’occhio di continuo al darwinismo sociale, ormai sdoganato non solo dal pensiero reazionario, e sono chiavi di lettura altresì figlie della post verità (l’assunto secondo cui se la realtà non è accettabile possiamo arrogarci il diritto di riscriverla, anche a costo di negare la realtà). In questo scenario sguazzano, spesso e volentieri, ulteriori imprenditori 2.0 o 3.0 o addirittura oltre, pronti a svelarsi al popolo del web come detentori della Verità, spesso sono negazionisti di qualcosa (e questa cosa ne esalta l’aspetto innovatore o presunto tale, bene o male purchè se ne parli), ed è come se – ancora una volta – bastasse convincersi di qualcosa perchè si avveri (pensiero magico puro, se vogliamo).

    Post verità che non è mai stata parte delle 77 (o quasi) regole di internet, ed appare molto improbabile che siano state causate da internet. Sono state, semmai, più probabilmente causate dallo stesso sentiment (come piace dire oggi) che guidò il disastro di Wall Street del 2006, quando Lehman Brothers dichiara bancarotta sconvolgendo i mercati e provocando sostanziali problemi economici a tanti investitori finiti senza casa e senza lavoro, il tutto a causa di una asimmetria informativa, secondo molte teorie economiche, per cui chi ci guadagnò lo fece perchè ne sapeva più degli altri. La crisi delle criptovalute di cui si parla freneticamente per FTX non è (solo) una crisi delle criptovalute, come la stampa liberal si affretta a concludere: è una crisi del concetto stesso di speculazione, del vivere una vita senza certezze non deprimendosi, non sia mai, bensì esaltandosi finchè dura. La stessa stampa che demonizza tecnologie e criptovalute (che, lo ricordiamo perchè nessuno lo sta facendo, non nascono come strumenti di speculazione, i wallet in loco rimangono più sicuri del fidarsi dell’ennesimo startupparo con sede nell’ennesimo paradiso fiscale e, in definitiva, non sono la Causa Finale ma anch’esse colpite in negativo da situazioni del genere), demonizza del resto marketizzando gli investimenti tradizionali “tutelati”, almeno sulla carta, dalle banche. Nulla di che stupirsi se pensiamo che tra gli sponsor dei giornali online figuano spessissimo banche, alla fine. Da un lato, pertanto, ci viene di fidarci sempre meno di giovani startupper che dicono di avere soldi, di averne fatti e di voler filantropicamente aiutare altri ad averne. Dall’altro non ci fidiamo nemmeno di come ci raccontano queste storie, in cui emerge un filo di tecnofobia per cui, alla fine dei conti, la “colpa” è dei computer e tanto vale tornare al baratto ed al denaro contante, signora mia.

    Non solo: il fallimento di FTX ci rende molto meno fiduciosi dei giovani startupper da un lato (e questo non aiuta la diffusione sana delle tecnologie stesse in genre), ma è anche in parte la concretizzazione dell’era filo-negazionista in cui viviamo, dove chiunque può dire ciò che vuole e non solo, può anche costruirsi un fedele seguito di adepti. Del resto esiste una ipotesi di complotto su qualsiasi cosa e, ne siamo abbastanza certi, qualcuno avrà da ridire su ciò che realmente è successo. Ma reale rispetto a cosa, in che rapporto con ciò che vediamo la mattina quando ci svegliamo e fissiamo per qualche istante il soffitto, forse? O magari in ciò che mostrano internet e la vituperata TV? Difficile rispondere. Quando Lacan distinse tra i livelli del Reale, Immaginario e Simbolico, del resto, spiegò a più riprese come le tre dimensioni fossero legate e modellizzabili come tre anelli intrecciati, tre link (in gergo matematico) tra di loro incatenati: se uno dei tre si scollega, viene meno l’inconscio, si sconfina nella psicosi. La definizione del Reale venne pero’ lasciata nel dubbio, rimase più indefinibile e venne riscritta varie volte negli anni, forse non a caso: il reale è sempre difficile da definire, e l’ossessione per trovare una chiave di lettura gradevole per ognuno finisce spesso per stravolgere i fatti. Che sono che l’ennesima società speculativa è fallita a danno degli investitori, questi sono i fatti, e forse non è così importante (s)parlare di criptovalute perchè, alla fine, potevano essere qualsiasi altra cosa.

    Immagine di copertina: Jp Valery on Unsplash – Immagine dentro l’articolo: Samuel Bankman-Fried losing some money in the market, StarryAI

  • Matematica dell’amore: une femme de non-recevoir

    Esiste una formula matematica per trovare o ritrovare l’amore? Non lo sappiamo sul serio, ma sappiamo quello che secondo noi non funziona affatto. No davvero, anche se il post è scientifico nella misura in cui possiamo considerare scientifica la psicoanalisi, per questa volta non parleremo della formula dell’amore, quella che alcuni di noi hanno avuto la pretesa di tatuarsi. Einstein non ha mai scritto, da quel che ne sappiamo, una formula dell’amore (E=mc2 adattato all’Amore è una forzatura considerevole, per quanto poetica possa sembrare), e non esiste una formula dell’amore eterno mutuata dalla fisica quantistica, o almeno: se esiste, noi tendenzialmente ci crediamo poco. L’amore è anche credenza, non solo di amare ma anche di essere amata, e purchè non diventi pretesa può andar bene… quale che sia il modello a cui decidiamo di aderire.

    Lasciate perdere i numeri dell’amore, per quanto suggestivi siano, non saranno quelli a portarvi fortuna in amore. Non parleremo nemmeno dell’equazione di Dirac come “formula dell’amore“, no davvero, anche perchè quella può spiegare al massimo l’antimateria. Finiamola una volta per sempre, se possiamo, di considerare o banalizzare le persone come fossero particelle, ricordando una delle massime de “L’uomo a una dimensione” di Marcuse: rischiamo grosso, rischiamo di dimenticare di noi stessi, persi in un’apatia senza utopia, smarriti in quella che Marcuse chiama “l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni ed alternative“, confinati nella “sola dimensione che rimane, quella della razionalità tecnologica“, dei motori di ricerca ai quali chiediamo come trovare la fidanzata o come affrontare un divorzio. Neanche fosse una questione di affidarsi a maghi e profeti: impariamo, semmai, a farlo da soli.

    Per una volta, peraltro,  eviteremo di citare le formule dell’amore proposte da scienziati come Hannah Fry o Donn Byrne, sempre con tutto il rispetto dovuto, che a nostro avviso (se vogliamo) rischiano di illudere o essere più fraintendibili che altro. Tantomeno ci azzarderemo a fornire la spiegazione new age dell’amore legata all’entanglement quantistico, secondo cui se due particelle interagiscono per un certo periodo di tempo con una certa modalità, e poi vengono separate, non si potranno più descrivere come distinte, ma in qualche modo continueranno a condividere alcune proprietà. Particelle, per l’appunto, non certamente esseri umani e relazioni. È molto più utile ritornare, a questo punto, se proprio si desidera scomodare la matematica per l’amore tornare agli scritti di Lacan, ai suoi seminari aperti al pubblico che tanti spunti hanno fornito per discipline di vari ordini e gradi.

    Le considerazioni di questo articolo si basano sul seminario di Jacques Lacan, Libro V, le formazioni dell’inconscio, edizioni biblioteca Einaudi, risalente al 1957/1958. Le considerazioni di partenza del medico psicoanalista francese si basano sugli scritti di Freud sul motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, che vengono da lui rivalutati in ottica sperimentale (le “formazioni” dell’inconscio): la prima affermazione che colpisce nei suoi scritti, e da cui partiremo, e che non esiste in natura alcun oggetto che non sia metonimico.

    Tra i film che hanno parlato delle delusioni d’amore, impossibile non ricordare l’horror Audition.

    Cosa vuol dire metonimìa?

    La metonimia è una figura retorica ricorrente nella psicoanalisi lacaniana, la quale si esplica comunemente in espressioni come bere una bottiglia di vino (quando dobbiamo smaltire una delusione amorosa) o vivere del proprio lavoro. Un tutto per indicare una parte, ma non solo: Lacan riprende i termini freudiani per rimetterli in sesto, per formalizzarli, addirittura facendo uso della matematica dei link per mostrare le catene dei significanti cari alla linguistica delle origini. Si parla così della metonimia del desiderio, cioè di un desiderio (amoroso, ma non solo) che insegue un oggetto che sempre si sottrae (un classico delle friendzone), dove il solo punto di arresto di questa snervante fuga metonimica infinita diventa la metafora, in cui il senso del desiderio si rivela attraverso una sostituzione. Se in questo modo da una parte il desiderio è sempre lanciato verso la fuga metonimica, la piena realizzazione della metafora è quella che Lacan svilupperà come autentica metafora dell’amore. Tutte le passioni, incluso l’amore (e non solo) sono essenzialmente metonimiche.

    Il punto di partenza dell’analisi dell’amore per Jacques Lacan è lo studio delle principali tecniche del motto di spirito, attraverso esempi riletti sapientemente e ben noti (che qui non riporteremo per amor di sintesi): il familionario (via di mezzo tra modi familiari e persona milionaria), il minchionario, il miglionario e così via.

    L’inconscio si illumina e si svela solo quando si guarda un po’ di lato (J. Lacan)

    Nodi, reale, immaginario e simbolico

    L’oggetto del desiderio, suggerisca Lacan, è sempre e comunque l’oggetto del desiderio dell’Altro: il desiderio è sempre desiderio di altre cose, soprattutto di ciò che manca, quello che Lacan definisce a (piccolo), lo stesso che – secondo Sigmund Freud – ci portiamo dietro dall’infanzia e non abbiamo mai ritrovato.

    (in matematica) un nodo è definito come una curva chiusa e non autointersecante incorporata in tre dimensioni, il quale non può essere districato per produrre un semplice anello. Per un matematico, un oggetto è un nodo solo se le sue estremità libere sono attaccate in qualche modo in modo che la struttura risultante sia costituita da un unico filo ad anello. Klein ha dimostrato che i nodi non possono esistere negli spazi con più di quattro dimensioni.

    La ricerca del senso passa per l’attraversamento nella catena simbolica della catena dei significanti, tanto per sostituzione fino alla determinazione della metafora risolutiva. Per inciso vale la pena di ricordare come la matematica rientri nella catena dei significanti, come viene ricordato nel testo, per il fatto che tende a formare dei raggruppamenti chiusi, degli anelli (proprio in senso matematico) che si esplicano in una serie di possibili configurazioni ed intrecciamenti, tra livello reale, immaginario e simbolico (la più citata delle quali è il nodo borromeo). Il fatto che i livelli siano intrecciati o intrecciabili in vari modi denota la loro complicazione innata, senza contare che se uno dei tre decade o non viene legato a dovere, intacca l’integrità degli altri due (e provoca le psicosi).

    Un link concepito da DALL E, l’intelligenza artificiale in grado di disegnare

    Fammi finire la frase!

    Se la psicoanalisi si lega secondo Lacan alla linguistica di Jackobson, parlare è fondamentale per amare, in qualche modo, per cui la tecnica verbale diventa anche tecnica del significante; se è così è altrettanto scontato che ogni discorso non sia un “evento puntiforme”, ad esempio come concepito da Russell: un discorso non ha soltanto una materia, una tessitura – scrive Lacan – ma richiede del tempo, una dimensione temporale, uno spessore.

    L’esempio semplice e alla portata di tutti a riprova di ciò, di fatto, è che è necessario che io abbia pronunciato l’ultima parola per comprendere dove si trova la prima: in altri termini se inizio una frase ne capirete il senso solo quando l’avrò finita. Prendere l’anima si tratta di comprendere le parole, e una volta entrati nella ruota della macina di parole, il vostro discorso ne dice sempre di più di quanto voi non diciate (viene in mente il celebre aforisma lacaniano secondo il quale “il linguaggio opera interamente nell’ambiguità“).

    Possession è uno degli horror visionari tra i più belli mai girati, ed ha come tema amore, gelosia e possessività dell’Altro.

    Di Ylebru – Questo file deriva da: Knot table.svg, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5405967

    L’amore è un sentimento comico

    Per arrivare a questa considerazione che può sembrare amara, ma che in realtà è realistica e prende ispirazione dalle commedie (da tutte le commedie, da Aristofane fino a Molière) Lacan si ispira al caso clinico di un paziente colpito da una comunissima nevrosi: vive da solo, cerca l’amore, si dedica a peregrinazioni per le vie della città in cerca di donna, che riesce ad abbordare e che gli danno regolarmente buca (posè un lapin, in francese).

    L’amara conclusione dell’uomo fa sorridere da un lato (ma anche riflettere l’analista dall’altro – o dall’Altro?), dato che si compiace della propria sofferenza e la trova in qualche modo ironica: le donne sono, per lo sconosciuto e malinconico single francese di metà anni 50, femme de non-recevoir (donna che non riceve), frase quasi omofona di una fin del non-recevoir (che significa un rifiuto categorico).Un familionario consensato in due metonimie che indicherebbero donne rigorosamente non riceventi, rifiutanti, che continua ad incontrare nonostante mille tentativi in una possibile profezia auto-avverante (secondo la psicologia sociale, una profezia che si auto-avvera è un meccanismo subdolo per cui il soggetto ricrea inconsapevolmente le condizioni perchè “le cose vadano male”: un politico che sfiducia gli elettori causando la sconfitta che teme, gli investitori di un titolo in borsa possono convincersi del fallimento dell’azienda finendo per esserne causa, il Macbeth che fa uccidere tutti i Macduff a causa di una profezia male interpretata, il che sarà causa della sua caduta per via della nemesìs degli stessi).

    Femme de non-recevoir è lapalissianamente emblematico, in quanto rileva il carattere per sua natura deludente di qualsiasi approccio al desiderio, prima ancora che all’amore, e diverte (scrive Lacan) la soddisfazione che il soggetto stesso trova nella propia delusione. Per approcciare meglio all’amore dovremmo forse liberarci da questi circoli viziosi, e iniziare a non auto-gufarci o costruirci la nostra femme de non-recevoir (il che vale a ogni latitutudine, senza presupporre un rapporto etero ad ogni costo, a mio avviso). Quella spiegazione affidata ad un motto di spirito Lacan suggerisce essere un coniglio di stoffa (lapin significa anche coniglio, in lingua francese), un prestanome della realtà delle cose, un uomo di paglia, qualcosa che viene scambiato deliberatamente per coniglio in carne ed ossa al sol fine di essere relegato a spiegazione e/o giustificazione immaginaria delle sue sventure amorose.

    È chiaro che così non se ne esce, almeno fin quando certi “cerchi magici” non vengono spezzati o stravolti, adottando comportamenti che siano differenti, partendo da nuovi presupposti (anche ricorrendo all’analisi da un terapeuta, cosa che a mio avviso in molti di noi dovrebbero fare, senza tabù). Nel motto di spirito, del resto, si rileva la struttura fondamentale della domanda, che è sempre uan domanda intersoggettiva e dipendente dall’Altro, la cui non soddisfazione è quasi ovvia (o comunque estremanente comune) se posta in questi termini. E poichè tutto dipende dall’Altro, la vera soluzione rimane quella di un Altro tutto per sè: il che, secondo Lacan, è ciò che si chiama amore. Andarselo a cercare come si farebbe per un prodotto al supermercato potrebbe, di sicuro, non essere una buona idea…

    Foto di copertina: un autoritratto cyberpunk di Jacques Lacan, con stile fotorealistico (credits: DALL E, openAI)

  • Perchè scrivere un diario?

    Perchè scrivere un diario? Perchè scrivere un libro? Perchè scrivere in corsivo? Perchè scrivere fa bene? Perchè scrivere poesie? Perchè scrivere una lettera?

    Per introdurre l’argomento “perchè scrivere un diario” abbiamo ricopiato, in prima istanza, i primi sei suggerimenti di Google che appaiono anche a voi, presumibilmente, iniziate a cercare la frase “perchè scrivere“.

    Google aggiunge la parola un, e successivamente si diverte (?) a disseminare le domande più frequenti sull’argomento fatte da noi utenti. Del resto, ci chiediamo, cosa ci spinge a scrivere? Rispondere a questa domanda è un modo per capire se e quando valga la pena tenere un diario.

    Se è vero che basta l’esigenza di scrivere per iniziare a farlo, il che diventa una buona ragione e tanto basta, è anche vero il monito di Stephen King a riguardo: il modo migliore per imparare a scrivere è quello di praticare la scrittura, oltre al fatto non inessenziale di leggere molto, leggere di tutto. Imparare a scrivere presuppone infatti saper individuare uno stile che si è in grado di emulare, non semplicemente mettersi davanti ad una tastiera e battere sui tasti. Secondo il simpatico teorema della scimmia instancabile, del resto, avendo a disposizione un tempo sufficientemente lungo anche una scimmia messa davanti ad una macchina da scrivere riuscirà a comporre qualsiasi testo di qualsivoglia lunghezza. Deve essere visto anche questo, pensiamo, come un monito, un avviso, una vera e propria raccomandazione per tutti gli aspiranti scrittori di diari. E noi che scimmie non siamo, almeno non formalmente nè biologicamente, per quanto discendiamo dalle stesse, ci ritroviamo a fare i conti con la variabile tempo, sempre. Quando ho frequentato corsi di scrittura, del resto, ci consigliavano spesso di fare questa simpatica attiva usando un cronometro, ponendo un tempo massimo, per evitare di diluire troppo il testo e scrivere mappazzoni senza capo nè coda, imponendo al testo di asciugarsi a dovere.

    Motivi validi per tenere un diario, del resto, ne possiamo snocciolare quanti ne vogliamo.

    Se scrivo un diario posso tenere traccia dei progressi e annotare le cose che mi piacciono di più, o magari di meno. Scrivere un libro, in genere, non è un’idea sempre consigliabile: ci sono tanti di quei libri in giro che quasi passa la voglia. Scrivere in corsivo serve a sottolineare passaggi, citare, dare enfasi, con buona pace di Elisa Esposito la prof di corsivo, amiooo. Scrivere non fa bene: non che faccia male come il fumo e l’eccesso di alcol, intendiamoci, ma di sicuro rischia di farci impelare nel blocco dello scrittore il che non è mai un bene, a ben vedere. Scrivere una lettera fa benissimo, in genere: anche una email, purchè l’Altro sia disposto a leggere e non si tratti, naturalmente, della Lettera Rubata di Edgar Allan Poe (che pare sia il caso di lasciare dove di trova, qualsiasi cosa contenga).

    Dare risposte così nette resta quantomeno azzardato ed è impressionante come, ad oggi, nessuno si sia posto il problema delle risposte facilone ai problemi esistenziali. Alcuni scritti, come ricorda il bellissimo racconto sulla lettera rubata di Poe, è bene che restino secretate, che siano riservate solo agli occhi di chi scrive per sempre, dato che il loro significato muta a seconda di chi legge (e questa è una cosa che chi tiene un blog dovrebbe sempre ricordare).

    Lungi da noi, ancora una volta, addentrarci nei meandri delle spiegazioni letterali o puntuali dei fenomeni: questo modo di ragionare ci porta fuori strada, e potrebbe farci addurre alla scrittura un ruolo che non ha. Vero che possa essere a volte terapeutico scrivere quello che ci passa per la testa, ma se l’attività non viene controllata o razionalizzata può diventare un problema. Tantomeno possiamo eccedere all’opposto, pensando che non serva scrivere nulla e si debba rimuginare all’infinito sui propri pensieri creativi.

    Per cui inviterei chiunque a scrivere, alla fine: può aiutare a formalizzare un pensiero, aiutare uno sfogo, tirare fuori ciò che ci tortura indegnamente oppure può aiutare a cristallizzare pensieri, momenti da ricordare, congelarli nell’attimo della carta che si posa sul foglio e rilascia quel tenue, e riconoscibile tra mille, odore di inchiostro.

    Foto di copertina: a portrait of edgar allan poe, DALL E

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