Risultati della ricerca per “john carpenter” – lipercubo https://lipercubo.it/archivio _un blog_ Sat, 30 Nov 2024 13:07:50 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.8.1 https://lipercubo.it/archivio/wp-content/uploads/2024/08/Designer17-120x120.jpeg Risultati della ricerca per “john carpenter” – lipercubo https://lipercubo.it/archivio 32 32 Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari https://lipercubo.it/archivio/studio-666.html Sat, 30 Nov 2024 09:18:42 +0000 http://lipercubo.it/?p=85110 I FOO FIGHTERS si trasferiscono in una villa di Encino per provare a registrare il loro decimo album: la mancanza di ispirazione si tramuterà in una storia macabra dai toni splatter.

Arriva in Italia il 23 giugno 2022 (e resta nelle sale fino al 29) il nuovo film scritto da Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters), Studio 666: un horror splatter dai toni ironici che racconta in chiave autobiografica la registrazione dell’album . Girato nel periodo più lungo della pandemia di Covid-19 per compensare alla mancanza di un tour, è un film dai toni celebrativi e autoironici pensato e concepito per i fan della band e per chiunque conosca la carriera dell’attivissimo musicista. Sebbene con diversi spunti riusciti, si lascia dimenticare appena qualche istante dopo l’uscita dalla sala, dando la sensazione di essere stato un intenso videoclip dell’orrore, o poco più.

Abbiamo di fronte una comedy horror modello The babysitter, questa almeno è la sensazione che si avverte dalle prime sequenze, costellate di cameo che sembrano voler alleggerire il carico da horror serioso che, in modo nemmeno troppo velato, Studio 666 vorrebbe assumere in seguito. Il problema principale del film risiede proprio in questa ambivalenza di fondo: da un lato è un horror demenziale come miriadi ne sono usciti, dall’altro sembra voler diventare il racconto dei tormenti interiori di Grohl (cosa che ci poteva stare, ed avrebbe forse sorpreso più in positivo se fosse stata mantenuta come linea: una rockstar che medita inconsciamente di uccidere la propria band non era malvagia, come idea, tanto più se girata modello primo Peter Jackson). Di fatto, Studio 666  degenera nello splatter horror fine a se stesso, un po’ come da media delle produzioni USA un po’ modello Troma, con ritmi incalzanti, dialoghi essenziali, gore a non finire, qualche sprazzo surreale modello Nightmare ma soprattutto dimenticando per strada quello che stava raccontando.

Un film in cui, in altri termini, le esagerazioni sono all’ordine del giorno e prefigurato il must, la necessità; per quanto i mezzi visuali siano superiori alla media, durante la visione ci si sente più che altro barcamenati da una narrazione incerta, difficile da decodificare. Si guarda il film, si ride o si sorride o si resta indifferenti (dipende dai casi), e non si è mai sicuri se sia un horror o una commedia, se il tono sia introspettivo o retrospettivo, se sia uno scherzo o se si faccia sul serio. Studio 666 è tutt’altro che noioso, per la verità, anzi vive di momenti autenticamente divertenti o intensi; tuttavia non assume mai un feeling chiaro, sembra dilatato all’infinito per quanto racconti una storia horror già vista mille volte (il che diventa l’ultimo dei problemi, ovviamente). Se non altro vedere i Foo Fighters suonare un pezzo doom di quasi un’ora, quasi tipo Sunn O))), rimane al netto di tutto un’esperienza suggestiva per qualsiasi fan del genere (e anche qui, solo per lui).

Il tutto per quanto sia girato in maniera impeccabile, da horror vecchia scuola, di quelli fatti bene-bene: la primissima sequenza lo dimostra, così come i vari omicidi con le pugnalate modello Dario Argento, i demoni dagli occhi rossi alla Lamberto Bava(o anche The fog), le reminiscenze inequivocabili di Sam Raimi, la citazione de L’esorcista e i richiami al John Carpenter anni 80 e 90, regista che firma assieme al figlio Cody la colonna sonora del film. Anche i Foo Fighters come interpreti di se stessi sono ben caratterizzati, ma latita un po’ troppo il piano narrativo per poter apprezzare appieno l’idea.

Probabilmente ha ragione Peter Bradshaw sul Guardian a scrivere che il film conferma una certa tendenza della horror comedy nel non saper essere nè spaventosa nè propriamente divertente, per quanto si lasci un po’ prendere la mano dalla critica definendo addirittura “sconcertante” che una commedia (o presunta tale) prenda ispirazione da fatti violenti avvenuti negli anni 90 (è plausibile che nel dirlo ritenga reale l’assunto della band maledetta, il che immagino farebbe molto ridere Grohl e il regista). In realtà che si crei una urban legend o un dubbio sulla realtà dei fatti raccontati fa parte delle ordinarie dinamiche degli horror moderni “fuori dalle righe”, almeno dai tempi di Cannibal Holocaust, ma questo – più che altro – è mera ordinarietà da un punto di vista filologico, e vale per tutti gli horror seriosi o finto-snuff, non certo per un film che, tra le altre cose, strizza l’occhio a lavori come Tenaciuos D di Liam Lynch (pur senza le stesse musiche spettacolari).

È stato sicuramente divertente per la band auto-interpretarsi o immaginarsi calati all’interno di una trama horror anni ottanta che più topica non si potrebbe, ma il dubbio di fondo è che sia un film più divertito che divertente, che il modo narrativo non sia troppo intellegibile per il pubblico a cui è rivolto il film, che non è affatto scontato (specialmente negli ultimi anni) essere cultore dei cult del genere. Ed il rischio è quello di non cogliere, annoiarsi, rimanere perplessi, senza contare che tante sequenze risultano fiacche se non sai con precisione che quello che interpreta il fonico folgorato è il chitarrista degli Slayer (Kerry King), oppure che la vicina di casa della band è una delle più famose e dissacranti stand up comedian americane (Witney Cummings). Insomma, siamo sempre lì: Studio 666 non ha un’identità chiara e per quanto sia un film divertente (specie da vedere tra metallari) rischia di farsi dimenticare con la stessa frenesia con cui lo si guarda.

La storia di Grohl, per altri versi è un archetipo horror a tutti gli effetti, che sembra estratto materialmente e con decisione dagli anni 80: la scenaggiatura viene affidata a Jeff Buhler e Rebecca Hughes, per cui il primo contribuisce alle note più horror mentre la seconda alle situazioni umoristiche. La componente splatter tende un po’ a strabordare e, di fatto, oscura quasi del tutto quella ironica, nonostante la presenza  di due interpreti molto popolari della stand up comedian (forse non troppo noti in Italia, ovvero Jeff Garlin e la Cummings). A poco servono gli stessi cameo musicali: Kerry King degli Slayer nella parte di un fonico maldestro, Lionel Ritchie che accusa grottescamente Grohl di plagio durante una scena onirica (forse una delle più riuscite del film), lo stesso John Carpenter (accompagnato dall’attore che ha interpretato la trilogia di video più recenti degli Slayer, ovvero Jason Trost e la benda sull’occhio che porta anche nella vita di ogni giorno, un po’ Frigga/Madeleine un po’ “Jena” Snake Plissken) che non poteva che interpretare il fonico incaricato di registrare la musica della band.

L’unica certezza ed autentica nota positiva del film è la regia di BJ McDonnell, solida, sicura del fatto suo e ricca di omaggi agli horror amati da tutti: La casa, Venerdì 13 e compagnia. La prova attoriale dei Foo Fighters è inaspettatamente convincente, soprattutto quella di Grohl nell’interpretare l’archetipico personaggio kinghiano dalla personalità multipla. Studio 666 è imbevuto di atmosfere horror anni 80 fino all’eccesso, in una misura da risultare quasi stucchevole anche per il fan più sfegatato. Al netto di questo rimane un film gradevole quanto, alla fine dei conti, solo per fan della band e forse nemmeno per tutti, oltre che rivolto a qualsiasi fan del rock con un minimo sindacale di senso dell’umorismo. Con la nota a margine che potrebbe, nonostante le aspettative elevate, restare un po’ deluso dalla visione.

Il film vede l’ultima partecipazione da attore del batterista Taylor Hawkins, scomparso nel marzo 2022 durante il tour della band a Bogotà.

Studio 666 potrebbe essere a breve disponibile in streaming su Prime Video, per quanto ad oggi non sia ancora visionabile e l’Italia non rientri tra i paesi in cui c’è. Il disco contiene brani della band maledette (e fictional) DREAM WINDOW, che è stato anche pubblicato come LP completo su Spotify. Studio 666 è anche il nome di un misconosciuto horror indipendente del 2005, firmato dall’attore e produttore Corbin Timbrook, con cui non dovrebbe avere nulla a che fare.

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Il signore del male: potrebbe essere uno dei migliori film di John Carpenter di sempre https://lipercubo.it/archivio/il-signore-del-male-1987-john-carpenter.html Mon, 11 Nov 2024 12:21:06 +0000 http://recensionihc.info/?p=2265 Pellicola apocalittica della celebre Trilogia del regista americano, probabilmente uno dei migliori in assoluto della sua filmografia.

Noi abbiamo venduto il nostro prodotto… un enorme inganno, questa era la verità, è stata tenuta nascosta fino adesso

Un professore di fisica (Howard Birack, interpretato da Victor Wong) seleziona un gruppo di studenti per analizzare il contenuto di una teca, custodita segretamente dalla Setta del Silenzio all’interno di una chiesa; un gas verdognolo che manifesta inaspettate proprietà biologiche. Il gruppo si recherà sul posto per analizzare la situazione, ma qualcosa nell’aria sta cambiando: in particolare  decine di persone sembrano fissare ininterrottamente la luna, in posizione molto vicina al sole…

Carpenter sa come raccontare una storia, e lo dimostra dall’inizio quando, in pochissime sequenze, riesce a descrivere l’attrazione di Brian verso Catherine. Il tema del film riguarda una sorta di rivelazione, sia in senso terreno che extra-sensoriale, ed ha l’obiettivo di mostrare – in modo orrorifico – la natura fallace della religione e, al tempo stesso, gli aspetti spaventosi legati alla Verità che la chiesa cattolica avrebbe tenuto nascosta per due millenni. Prendendo in prestito una sorta di teoria complottista Carpenter tiene in sospeso lo spettatore con grande maestria, mostrando un plot per certi versi prevedibile ma, per altri, decisamente incalzante e coinvolgente (soprattutto nel finale).

Partendo dalla passione del regista per la fisica quantistisca, e prendendosi qualche licenza “poetica”, ciò che viene mostrato è incentrato da un lato sul paradosso del gatto di Schrödinger (citato all’inizio nei discorsi degli studenti), e dall’altro sulla dualità onda-particella e materia/anti-materia. Se le entità sovrannaturali sono “fatte” in qualche modo di materia, ed ammettendo che le anti-particelle non trovino posto nell’universo osservabile, si puo’ dedurre che esista una sorta di anti-Dio che aspetta soltanto di emergere tramite un mezzo (uno specchio).

Cristo… viene per combatterci, era un essere di origini extraterrestri, ma avevo l’aspetto di un uomo…

Licenze poetiche? Luoghi comuni abusati da b-movie? Scempiaggini scientifiche costruite ad arte? Poco importa: il film è ben costruito, e vive di una propria solida credibilità. Riprendendo il leitmotiv dell’assedio di un gruppo di persone da parte di un gruppo di barboni posseduti dalla “cosa”, “Il signore del male” fa provenire il male dall’esterno, come nella tradizione del pantheon lovecraftiano nel quale gli uomini, a dispetto del proprio conclamato scetticismo, diventano vittime sacrificali di una crudeltà assoluta che si scatenerà contro di loro. E, come sempre nel regista e nell’autore americano, senza un vero e precisato motivo, se non quel vago “senso di colpa” indefinibile che attanagliava lo scrittore di Providence nel narrare “Nyarlathotep“.

Senza contare “Il seme della follia”, si tratta probabilmente del film più “filosofico” e “lovecraftiano” in senso stretto di John Carpenter. Un altro aspetto molto importante è legato ai sogni: mediante essi le entità comunicano con gli inquilini dell’edificio (dal futuro) ricorrendo ad una premonizione che ricorda il filmato pre-registrato di una videocassetta.

Innumerevoli, in effetti, i riferimenti e le citazioni che si possono cogliere nel film, tra cui – per fare un esempio – quello al Dario Argento di “Inferno” nella scena in cui il barbone uccide con la lama di una forbice uno degli studenti, assediato da un numero impressionante di enormi insetti. Tale scena richiama quella in cui l’antiquario Kazanian viene assalito da una miriade di topi a Central Park, ed un venditore di hot-dog accorre esclusivamente per colpirlo a morte. Se questo non vi basta, Carpenter gioca con le dinamiche survival dei film di zombie, forse per la prima ed unical volta nella propria carriera, e ad un certo punto Ann Yen (Lisa, colei che cerca di interpretare il libro che spiega la Verità nascosta) scrive monotonamente al computer ricordando le movenze di Jack Torrance/Nicholson in Shining!

Il signore del male” dunque, con i suoi pregi di espressività ed intreccio, e con qualche difetto di banalizzazione scientifica che non piacerà ai fisici di professione ed agli amanti di Hollywood, è, a mio parere, un cult pienamente apprezzabile anche oggi. Tra gli interpreti, un poco espressivo Jameson Parker, un Lisa Blount intensa e convincente (scomparsa nel 2010), un immenso Donald Pleasance nella parte del prete; special guest, Alice Cooper.

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La spiegazione del finale di THE SUBSTANCE https://lipercubo.it/archivio/spiegazione-finale-the-substance.html Sun, 03 Nov 2024 12:15:43 +0000 https://lipercubo.it/?p=99080 Gran parte delle recensioni di THE SUBSTANCE hanno definito il film come una dark comedy sull’industria dell’intrattenimento, un coacervo di splatter, sangue e brutture assortite sulla società dello spettacolo. È una chiave di lettura semplicistica e a nostro avviso parziale, che dimentica l’aspetto più essenziale del film stesso: ovvero che si tratta di una critica esplicita e senza mezzi termini alla cultura patriarcale che pervade il mondo apparentemente spensierato dello spettacolo, specie quando finisce per avere a che fare con la sessualizzazione del corpo femminile. Non è un caso, in tal senso, che la regista Coralie Fargeat e già fresca dell’esperienza di Revenge (un film contro la mercificazione del corpo femminile, declinato nel modo meno ovvio possibile: girando un simil rape’n revenge, il sottogenere pulp in voga negli anni Settanta e Ottanta quasi sempre accusato di maschilismo) abbia scelto proprio Demi Moore, icona della sensualità anni Ottanta e Novanta all’età di 61 anni, e con l’aspetto adeguato a mostrarne almeno undici di meno: il suo alter ego giovane diventerà Margaret Qualley, lolita iconica del cinema di Tarantino e, per molti versi, equivalente di ciò che la Moore è stata in passato.

[DA QUI IN POI SPOILER]

Il finale del film ha lasciato aperti vari interrogativi negli spettatori, sia per la sua forma apparentemente sconnessa sia per la sostanza di ciò che viene rappresentato. La trama parte dal presupposto che Elisabeth abbia acquistato un siero da internet che le permette di ringiovanire ed andarsene in giro con un corpo rinnovato, con l’unica condizione di lasciare l’altro corpo a riposare sostenuto da cibo sintetico. Il patto è sostanziale, perchè vincola la protagonista a prendersi cura del corpo che disprezzava e che, con l’incedere della trama, mostra di non riuscire a volere. THE SUBSTANCE è molto basato sulla contrapposizione tra la psicologia ferita di Elisabeth (disregolata emotivamente, che guarda alla propria giovinezza prima con nostalgia poi con disprezzo) e quella di Sue che in qualche modo si colloca all’opposto, dato che non mostra particolare interesse per la propria sè anziana e, anzi, arriva ad abusare della sua vitalità al fine di avere più energia sessuale.

È questo il motivo, in sostanza, per cui Elisabeth invecchia precocemente: perchè Sue è stata talmente priva di scrupoli da “cibarsi” della sua vecchia sè iniettandosi molto più del dovuto il fluido cefalorachidiano dalla spina dorsale. Questo provoca rabbia nella donna che inizia, come vediamo a più riprese, ad ingozzarsi di cibo senza pulire (anche sulla falsariga della ferita emotiva che le ha procurato il suo capo, regalandole un libro di cucina francese per mandarla a casa). Arriva finalmente il momento della festa di Capodanno, che dovrebbe consacrare la figura di Sue come nuova icona della sensualità, come figlia, fidanzata o sorella nazionale, come donna perfetta e impeccabile nei modi, nello stile, nel perpetrarsi del mito dell’eterna giovinezza. Ma è a questo punto che crolla tutto: le scorte di cibo sono finite e non sono state riordinate, gesto a cui potremmo dare una spiegazione in termini freudiani: la pulsione di morte che attecchisce in Elisabeth, che non riesce a conciliare l’istinto di una inutile sopravvivenza eterna con quello di una sottovalutata vecchiaia serena, simboleggiata dalle attenzioni dell’ex compagno di scuola che la corteggerà inutilmente. Sue decide di uccidere Elisabeth, ormai invecchiata oltre misura e che ha tentato di terminare l’esperimento genetico, e sembra che la storia possa finire lì. Il giorno dello spettacolo di Capodanno Sue si accorge tuttavia di aver perso dei denti (molto significativa, a riguardo, la scena in cui il produttore e i finanziatori, tutti maschi oltre i 60 anni, le chiedono di sorridere, cosa che non può fare dato che il sorriso non è più impeccabile), poi perde le unghie e un orecchio e a quel punto, presa dal panico, torna a casa ad iniettarsi il siero residuo, nella speranza di poter generare una “nuova sè” bella come era all’inizio. Il siero pero’ è monouso, e Sue perde i sensi per poi diventare una sorta di mostro informe, che unisce pezzi del corpo di Elisabeth con quelli di Sue, evocando un classico dell’horror come la cosa di John Carpenter (un alieno lovecraftiano che divora gli esseri viventi e ne assume le diverse forme volta per volta).

Il finale è chiaramente intriso di humor nero: ridotta a un mostro informe e con la foto di Elisabeth a coprirle il viso, si avvia per lo spettacolo di capodanno, grottescamente osannata dallo staff televisivo che notano qualcosa che non va ma non hanno il coraggio di dirle nulla. Sue / Elisabeth sale sul palco in una sala gremita, e a quel punto svela la propria nuova forma, che ovviamente suscita il panico nella popolazione. Il produttore sale sul palco e la decapita, mentre i fiotti di sangue ricoprono il pubblico. Sue / Elisabeth riesce a fuggire, per quel poco che le rimane dei corpi originali, e fa in tempo a posizionarsi sopra la stella che le hanno dedicato all’Hollywood Boulevard. Il corpo finisce di decomporsi, e poco dopo uan macchina per pulire le strade spazza via quel che resta della protagonista. Per come la vediamo, per inciso, il finale è tirato un po’ troppo per le lunghe, ma probabilmente perchè vorrebbe omaggiare una sequenza molto simile che possiamo vedere nel cult splatter Society di Brian Yuzna. Il senso del film è racchiuso tutto qui: a che cosa è servito rigenerarsi, fingersi più giovani o osannare di esserlo, se il nostro destino sarà comunque quello di scomparire per sempre, un giorno?

Durante la proiezione a cui ho assistito ieri, una ragazza seduta vicino a me ha commentato sconsolatamente dopo la sequenza in questione “era meglio prima!“.

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Recensione di “The substance” senza spoiler, per chi non l’avesse ancora visto https://lipercubo.it/archivio/the-substance.html Sun, 03 Nov 2024 09:09:30 +0000 https://lipercubo.it/?p=99063 In pochissime parole The substance è un film sul tema del doppio, ben oltre i canoni del sottogenere e ricco di cinematografia horror classica come non se ne vedeva da tempo. Un lavoro complesso, stratificato su almeno due direttive (la società dello spettacolo e la questione femminile) e che fa ampio uso dei canoni cinematografici tipici dei classici dell’horror anni Ottanta. Un tema, quello del doppio, da sempre al centro di cinematografia e letteratura mondiale, declinato come espressione della crisi di un personaggio in senso universale, sociologico: “il” conflitto per eccellenza. Un sottogenere di film, quelli incentrati sul doppio (Doppelganger) che suggerisce, da che mondo è mondo, miriadi di metafore sociali, psicologiche ed esistenziali. Il punto è che una discreta parte di queste pellicole si limitano a esibire l’aspetto scenografico limitando l’apparato simbolico, o al limite fanno l’esatto opposto con risultati comprensibili a pochi. The substance trova un equilibrio anche in questo, e tanto basta.

Film del 2024 della regista Coralie Fargeat, al suo secondo lungometraggio dopo Revenge, rientra nello spinoso novero degli horror sociologici, e presenta un body horror (l’horror incentrato sulla genetica del corpo e sulle sue degenerazioni), sulla falsariga di come l’avrebbe concepito David Cronenberg in quel gioiello noto come Inseparabili (la storia, per chi non lo ricordasse, di due gemelli chirurghi che si scambiano e confondono i rispettivi ruoli). Ma si dirige con maestria, essenzialità e gusto del macabro strizzando l’occhio a uno degli horror sociali più famosi di ogni tempo: Society di Brian Yuzna, un mini trattato sociologico, anche stavolta in chiave grottesca, del mondo ipocrita delle apparenze e dei VIP. C’è realmente tutto, dentro The substance, senza neanche l’esigenza di esibire autoindulgenza, richiamarsi ad una pompa magna cinefila fine a se stessa, senza autocelebrazione, senza pretenziosità, senza l’ossessione del riferimento culturale da nerd che finirebbe per dare più fastidio che altro. Al netto degli eccessi di un finale esageratamente gore (e forse un po’ troppo lungo, che abbiamo deciso di non rivelare per non togliervi il gusto di scoprirlo da soli)  The substance non lascerà il pubblico indifferente, specie se paragonato al precedente lungometraggio della Fargeat quasi sulle stesse tematiche che, a dirla tutta, aveva convinto solo in parte. E le tematiche sono e rimangono di genere, naturalmente: patriarcato, questione femminile, parità di diritti, tutti declinati in chiave splatter.

Non a caso Peter Bradshaw ha scritto sul The guardian che Roger Corman avrebbe certamente amato The substance, dato che è un’opera imbevuta di riferimenti smart ai classici del genere: Society, La cosa di John Carpenter – e potremmo spingerci addirittura fino a Elephant Man di David Lynch. The substance è probabilmente uno dei migliori esempi di horror splatter moderno per il quale la metafora è tanto ben costruita da evocare uno studio scientifico di genere, e per cui i dettagli fanno la differenza (anche quelli più apparentemente insignificanti: su tutti il fatto che i produttori televisivi siano rappresentati sempre e solo come maschi di età avanzata). Non a caso, il film si apre con l’immagine di un uovo nel cui tuorlo viene iniettato quello che si scoprirà essere un siero per ringiovanire le persone, il quale produce la scissione del tuorlo in un doppio identico per partogenesi (anche qui, non a caso, un processo di fecondazione senza spermatozoi).

La società delle apparenze di THE SUBSTANCE non è solo e semplicemente bigotta e conformista: è imbevuta di cultura patriarcale, di un mansplaining irritante e superbo, di aspettative sociali irrealizzabili quanto ambite, intollerabili per qualsiasi donna che, di sicuro, mai potrà mantenersi “giovane & bella” come vorrebbe (o meglio, come il mondo maschile si aspetta). Il mito dell’eterna giovinezza evocate sulle prime, pertanto, diventa un pretesto per costruire un horror femminista, sulla falsariga di Revenge della stessa regista e con maggiore consapevolezza di stile, mezzi e modi, più centrati in questo caso sull’horror puro che sulla exploitation. Con le idee più chiare sul messaggio da recapitare al pubblico, con l’idea che il cinema possa ancora, contrariamente all’aspetto meramente speculativo amato dalla maggioranza dei cinefili, essere espressione di critica sociale in senso praticamente marxista. Woke, diranno i detrattori!

Del resto The substance è anche un corposo splatter incentrato sulle mostruosità della società dello spettacolo, lo stesso spettacolo che secondo Guy Debord consiste in “un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini“. Non bisogna, in altri termini, limitarsi a vedere l’aspetto esteriore delle immagini patinate delle atlete di aerobica perfette quanto sessualmente allusive, ma bisognerebbe considerarle frutto di un contratto, di una burocrazia televisiva che pretende di conoscere e modellare i gusti del pubblico (qualsiasi cosa si voglia intendere con esso), in uno scenario di un mondo maschile tendenzialmente gretto quanto ambivalente – qui rappresentato come volgare e irrispettoso verso le donne più avanti con l’età quanto servile e disponibile, grottescamente, nei confronti delle giovani.

The substance, col suo incendere inesorabile ed essenziale (e la sua forma prima da thriller, poi da body horror, infine da splatter puro con tanto di litri di sangue che sgorgheranno da ogni dove), racconta una storia ambientata ai giorni nostri che (probabilmente non a caso) strizza l’occhio agli anni Ottanta (come fa anche Maxxxine, ad esempio). Serve a creare un riferimento culturale ben riconoscibile ma, a ben vedere, se esistono le penne USB non possono essere gli anni Ottanta. Perchè forse non è quello il punto: e allora diciamo sì all’immaginario iconico da fitness televisivo (inteso non in termini salutisti, ma puramente estetici), e rappresentiamo un mondo in cui la chirurgia estetica si potrà fare anche in casa. Il fai-da-te che osanna l’individualismo sfrenato del mondo in cui viviamo, per cui non esistono che post verità ed ognuno, letteralmente, si fabbrica in casa la propria, arrivando a rimodellarsi il corpo in autonomia. Al tempo stesso, il rapporto sociale in gioco è tra la donna e la società di oggi, ovviamente patriarcale, una donna ridotta a blanda fisicità, a forme sempre perfette, invidiabili, prive di imperfezioni; una donna pressata ossessivamente ad essere bella quanto passiva, sempre sorridente, presente agli eventi, socialmente impeccabile, sessualmente attiva.

Elisabeth (Demi Moore) conduce un programma televisivo sul fitness per cui tutto sembra andare per il meglio, dato che il pubblico la segue con interesse e lo show gode di grande successo. Dopo aver finito le riprese di una puntata, proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, sente casualmente il suo produttore fare considerazioni sulla necessità di sostituirla con una showgirl più giovane. La circostanza la manda in crisi esistenziale: poco dopo fa un incidente d’auto, da cui esce miracolosamente illesa. È a questo punto che un ambiguo infermiere le consegna una chiavetta USB con su scritto THE SUBSTANCE – il film sarà periodicamente intervallato da queste scritte emblematiche, tutte in maiuscolo, che sembrano assolvere una funzione analoga a quella dei cartelli portati in scena dal teatro brechtiano.

La chiavetta contiene la pubblicità di una misteriosa azienda che si occupa di chirurgia estetica “fai da te”, in grado di fornire un kit per far ringiovanire chiunque volesse farlo. Da questo acquisto Elisabeth sarà effettivamente rigenerata e potrà proporsi al suo stesso programma in veste di Sue (Margaret Qualley), con l’unico dettaglio che il suo corpo non è stato propriamente sostituito, ma si è scisso in due: i due corpi sono dipendenti tra loro, hanno bisogno di essere alimentati periodicamente e uno potrà trarre giovamento dall’altro, come un parassita. È una situazione puramente cronenberghiana, a ben vedere, tipica del body horror di ogni latitudine, in cui da un lato c’è l’ossessione per l’estetica perfezionista (e la critica sottintesa al fatto che una donna che passa i cinquanta anni debba ricevere un trattamento sociale ben più crudele di quanto avvenga per l’uomo), dall’altro c’è l’ossessione per uno spettacolo artefatto e mortifero, che “deve” andare avanti ad ogni costo. E in ultimo, ma non ultimo come importata: la lotta tra i due corpi giovane / anziano di Elisabeth e Sue non esiste, non è mai esistita e mai potrà esistere, perchè è solo l’ennesimo conflitto interiore di una donna: un’allegoria talmente potente da dare l’impressione di uscire dallo schermo durante la proiezione.

Sue non sarà pertanto solo l’alter ego giovane, dinamico, bello e propositivo di Elisabeth: ad un certo punto inizierà ad (auto)abusare del suo vecchio corpo, per egoismo ed avidità personale, mentre Elisabeth sarà sempre più sola, affranta e sregolata emotivamente per la scelta compiuta. Con risultati sempre più devastanti, come prevedibile, e con il merito da attribuire alla regia di aver costruito un horror compatto, molto ben girato, privo di fronzoli e che sicuramente farà discutere (farà discutere soprattutto chi percepirà l’opera come un attacco allo status quo, e che finirà per rilevarne difetti inesistenti).

In definitiva ci sono discrete probabilità che con The substance Coralie Fargeat (classe 1976, che firma regia e sceneggiatura) sia rientrata con questo film nell’olimpo dei cult, dei film che rivedremo anche in futuro nelle retrospettive, affiancandosi a mostri sacri del cinema horror come Cronenberg e Carpenter. Non a caso, forse, tra le prime donne a muoversi (finalmente) in questa direzione.

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Perchè “Halloween II” di Rob Zombi è un horror incisivo e accattivante https://lipercubo.it/archivio/halloween-ii.html Sat, 26 Oct 2024 03:21:05 +0000 http://lipercubo.it/?p=41997 Apparentemente morto nel capitolo precedente, il crudele villain con la maschera inespressiva Michael Myers è tornato sulle scene.

In breve. Molto simile al primo episodio, ne costituisce un prosieguo naturale e funziona, a conti fatti, solo in parte. Non esente da difetti, ma certamente dignitoso.

Secondo episodio del reboot di Halloween di John Carpenter, che segue direttamente – e senza troppi preamboli – l’ottimo capitolo precedente girato da Rob Zombie: era francamente difficile bissarne le qualità (sempre soggettive, ovviamente, ma a mio parere è inequivocabile ci siano), ed il nostro regista riesce solo in parte nell’impresa. Lo fa, peraltro, impreziosendo la pellicola con spunti onirico-surreali del tutto assenti dal feeling generale della saga (la visione del cavallo e della madre di Michael, entrambi in bianco), che servono soprattutto a spezzare quella che, in mano ad altri registi, avrebbe rischiato di diventare monotonia. D’altro canto, pero’, si evidenzia il lato isterico e spaventoso della psiche di Laurie, che ignora di essere sorella di Micheal Myers ed accentua, per questo, il proprio lato più oscuro. Se in generale poteva essere uno spunto interessante, in certi momenti questo sembra un po’ monocorde.

Il livello di splatter è prevedibilmente alto anche qui, con una sorta di seguito naturale delle vicende narrate in precedenza, e che mi pare opportuno vedere prima, per evitare che molti dettagli scorrano troppo velocemente senza comprenderne il senso. In questo Zombie è ancora una volta magistrale: il suo horror è rapido (in certe scene d’azione, forse troppo), diretto, essenziale e ricco della giusta dose di gore, che viene spiattellata in modo inesorabile ad un pubblico che, forse quasi esclusivamente, lo ama per questo motivo. Già Zombie aveva sfatato il tabù dell’intoccabilità dei classici, facendo togliere la maschera a Myers (una cosa impensabile, ai tempi dell’uscita), arricchendo la trama di un certo senso onirico e simbolico (sul cavallo bianco ed il suo significato ci sono varie interpretazioni), rielaborando la storia come se fosse un soggetto proprio – ed in effetti lo è: probabilmente la sua è anche l’unica strategia per dare dignità al concetto, perlopiù travisato, del fare un remake.

Un problema di fondo di questo film è anche legato alla sua indistinguibilità dalla miriade di seguiti anche precedenti: non si tratta di Halloween II degli anni ’80 (quello che Carpenter sceneggiò e fece girare ad un esordiente Rosenthal), ovviamente, per quanto addirittura alcune scene siano simili (Myers nell’ospedale, ad esempio). Soprattutto – per certi versi – la rilettura della saga proposta dal regista, pur validissima nel suo esordio, in questa sede sembra smarrire un po’ di mordente, nonostante i tributi (vari horror classici ed uno al Rocky Horror Picture Show, con le tre ragazze vestite da Magenta, Columbia e Frank-n-further), riuscendo di meno a sorprendere e riavvolgendosi a spirale su idee già note, sia pur con l’apparizione improvvisa ed inquietante della madre di Michael, sempre accompagnata dal figlio da ragazzino. Alcune sequenze onirico-surreali rimangono sopra le righe, se non altro, ed è anche curioso come Loomis, la storica figura del dottore che aveva curato Myers, diventi quasi un personaggio negativo, avido e privo di scrupoli nel cercare di vendere il proprio libro. Alla base del film, la taglineFamily is forever“: Myers cerca ancora una volta la propria famiglia, per potersi ricongiungere ad essa.

A quanto pare il regista decise di girare il seguito (cosa che inizialmente si sarebbe rifiutato di fare, a suo stesso dire) solo per evitare che la visione complessiva ne risultasse alterata da qualcun altro, buttandosi a capofitto nell’impresa che sa ancor più di kolossal, con questo secondo episodio. Il film stavolta è girato a 16mm in 1.85:1, a differenza del precedente remake che era invece in 2.39:1 (che per motivi tecnici Zombie ha dichiarato di non amare troppo). Di fatto non sembrano sussistere troppe differenze a livello di dinamiche d’azione e di omicidi, come è facile immaginare, senza contare che non sono neanche trascorsi troppi anni dal precedente (appena due): Myers diventa un’ombra che si aggira per uccidere nei modi più brutali, questa volta (dettaglio considerevole) comparendo in più occasioni senza maschera. Il Faerch che interpretava il giovane Myers, peraltro, viene qui sostituito da un altro interprete abbastanza somigliante, probabilmente perchè all’epoca sarebbe sembrato più grande rispetto al film precedente. Nota considerevole sul film, peraltro, è legata al fatto che alcuni attori interpretano più ruoli diversi: Jeff Daniel Phillips ad esempio è sia Howard Boggs che Uncle Seymour Coffins, mentre Dick Warlock ne interpreta addirittura tre.

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Non è un paese per vecchi: nella mente di Chigurh (e oltre) https://lipercubo.it/archivio/non-e-un-paese-per-vecchi.html Sat, 12 Oct 2024 18:21:03 +0000 http://lipercubo.it/?p=81703 1980: durante una battuta di caccia Llewelyn Moss si imbatte casualmente in un regolamento di conti tra bande della zona. Mentre si guarda attorno, trova una valigia piena di soldi in contanti…

In breve. I fratelli Cohen propongono un intreccio quasi alla Tarantino, e lo declinano come un noir snello, accattivante e moderno. Un gran film che riscuote, ancora oggi, il successo che merita, al netto di un finale spiazzante che potrebbe, per varie ragioni, non piacere a tutti.

In Italia lo abbiamo conosciuto nelle sale nel 2008, e da allora è stato un tripudio di premi vinti: 4 Oscar, come miglior film, migliore regia, miglior attore non protagonista per Javier Bardem e migliore sceneggiatura non originale, più un David di Donatello come miglior film straniero.

Non è un paese per vecchi – a dispetto del titolo che suggerisce, falsamente, un mood da cinema d’essai – è il noir snello e accattivante che un po’ tutti stavano aspettando, diretto e brutale quanto basta, movimentato e ricco di colpi di scena, senza orpelli o personaggi inutili, per sua natura avulso da riflessioni cripto-intellettuali. In un certo senso è anche curioso osservare come “non è un paese per vecchi” sia una massima ancora valida, ancora più sinistra ed attuale oggi rispetto a 13 anni fa, in tempi di pandemia o post-pandemia che dir si voglia (al momento in cui scrivo non è chiaro di quale delle due sia più lecito parlare). Un film da non confondersi, per la cronaca (lo scrivo per evitare svarioni a cui non sarei stato immune fino a qualche ora fa) con Non è un paese per giovani, che è una commedia italiana decisamente su altri toni, uscita 9 anni dopo questo lavoro.

Il film dei Cohen ha intrigato soprattutto per la sua linearità di fondo, che non è mai banalità o faciloneria, e che si ammanta di un’eleganza inconfondibile che spesso, in film del genere, latita – specie qualora cedano al trash tipico dei film d’azione modello The guest. Difficilmente un film è riuscito a suscitare più interrogativi e curiosità sul web, peraltro, di “Non è un paese per vecchi“: dalla quantità colossale di aforismi (a volte citati a sproposito, come classico effetto web impone), passando per le curiosità su vari aspetti insoliti della trama – che si ravvisano soprattutto nel twist a circa 20 minuti dalla fine, che spiazza il pubblico per via del suo climax (lo stesso che sarebbe consuetudine, in questi casi) stravolto questa volta in modo imprevedibile, impossibile da raccontare senza fare spoiler. Come se non bastasse, c’è poi un’unica nota concettuale proprio nella sequenza finale, in cui lo sceriffo racconta due sogni che ha appena fatto, che se dicono qualcosa del suo confuso senso di colpa (sul quale si potrebbe scrivere un tomo di psicologia, dato che si tratta la consueta frustazione da poliziotto cinematografico che non può, nè potrà mai avere, il pieno controllo della situazione).

Il film del 2008 dei Cohen è virato sui toni del noir-western in chiave moderna, in cui si racconta una storia che sarà abbondantemente ripresa anche da film come Hell or high water, film he sembra aver “imparato la lezione” proprio da qui. Se è vero che la bellezza delle cose risiede nella semplicità, del resto, la cosa vale anche per Non è un paese per vecchi, che si avvia su un intrigo simil-tarantiniano: un operaio reduce dal Vietnam si imbatte in un regolamento di conti tra spacciatori finito male. Sembrano tutti morti, tranne un ferito impossibilitato a muoversi, e a quel punto Llewelyn Moss (teoricamente il “buono” della storia, dalle fattezze che evocano curiosamente il Kurt Russell dei tempi d’oro) pensa bene di portarsi via la classica valigia piena di soldi. Sarà l’inizio di una feroce persecuzione da parte dei complici dei criminali, che inizieranno a seguirlo per riprendersi il malloppo, senza contare la polizia che si metterà anch’essa sulle sue traccie avviando una duplice caccia all’uomo (che poi diventerà triplice, dato che anche altri personaggi si metteranno in coda, mossi da rispettivi interessi).

Se le regole che hai seguito ti hanno portato fino a questo punto, a che servivano quelle regole?

Non è un paese per vecchi si svolge su almeno tre piani paralleli: il punto di vista dello sceriffo che indaga sul caso, e che propina la massima del titolo (all’inizio infatti lo sentiamo snocciolare, nei suoi ricordi fitti di sensi di colpa, una considerazione sul tasso di violenza attuale che rende, di fatto, gli anziani praticamente inadatti a sopravvivere a determinate circostanze). Abbiamo poi il punto di vista di Moss, immedesimato nella parte della preda in una tesissima caccia da cui, da buon film USA, riesce comunque a destreggiarsi tra armi, fughe e salvataggi in extremis senza complimenti.

Non poteva mancare – ed è forse quello che impreziosisce di più la pellicola – il punto di vista del cinico Chigurh, il personaggio più spaventoso e profondo del film, tra i più motivati a riprendersi il maltolto, dotato di una singolare crudeltà, tanto da uccidere con modalità che ricordano quelle di un enigmatico villain modello Venerdì 13 o Halloween. Il vero protagonista in effetti è proprio lui, tanto che la vera anomalia – a volerne cercare una ulteriore – è che il film non riporta il suo nome nel titolo. La profondità del personaggio dal punto di vista psichiatrico, peraltro, è confermata da uno studio pubblicato da Business Insider, che colloca Chigurh tra gli psicopatici più realistici mai rappresentati su uno schermo, superiore anche al protagonista di Henry: questo avviene sia per la sua apparente invincibilità (che lo rende simile a Michael Myers) che per la sua freddezza e mancanza di empatìa verso chiunque. Non solo: Chigurh mostra sempre un passo in più rispetto a tutti gli altri, e la sua scaltrezza lo caratterizza in modo profondo e lo rende, teoricamente, una sorta di spettro immortale (tant’è che viene appellato così almeno in un caso).

La caratterizzazione dei tipi è forte, talmente marcata da restare impressa nella memoria più di qualsiasi altra cosa: il trittico in questione, di fatto, focalizza tre personaggi molto ben delineati, e questo si deve ovviamente alla regia e anche, probabilmente, sulla falsariga del libro da cui è tratto il film, No Country for Old Men di Cormac McCarthy.

Che poi, a ben vedere, il film troppo mainstream nemmeno è, dato che i registi non risparmiano nulla sugli aspetti più truci, su qualche pennellata di humour nero e sulla mancanza (ovvia, a cominciare dal titolo) di happy end. Senza contare ulteriori aspetti che hanno catturato l’attenzione del pubblico come, per citare un esempio abusato, la singolarità delle armi utilizzate: il fucile a pompa “artigianale” di cui tutti hanno discusso (invenzione dei Cohen), ma soprattutto la pistola ad aria compressa o a proiettile captivo, che è quella che viene utilizzata da Chigurh all’inizio (quella collegata ad una bombola). Piccoli e grandi dettagli, insomma, che riescono in un’impresa titanica rispetto a quello che in ballo: tenere lo spettatore effettivamente incollato alla poltrona fino alla fine, violando addirittura la massima (attribuita a Hitchcock) sul fatto che “la durata di un film dovrebbe essere direttamente proporzionale alla capacità di resistenza della vescica umana“: Non è un paese per vecchi dura un paio d’ore, è ricco di avvolgenti colpi di scena e riesce, soprattutto, a non pesare sulla soglia di attenzione dello spettatore medio, essendo cinema diretto, efficace e privo di fronzoli.

Sul finale tanto è stato scritto: tanto da sembrare nulla, data l’inevitabile crittografia e messaggi in codice che i critici hanno usato e abusato nella situazione. Il motivo per cui il film ad un certo punto sembra collassare su se stesso suggerisce una forma di marcato nichilismo, a cui i due registi sembrano aderire senza remore. Il tutto nonostante le considerazioni promosse nella trama sul male e l’avidità degli uomini sembrino quasi moralisticheggianti, o addirittura banalotte. C’è da dire, peraltro, che è la figura dello sceriffo a risollevare almeno in parte le sorti della vicenda, la quale si sarebbe potuta chiudere sull’ambiguità o su registri analoghi. La certezza materialistica, di fatto, è che Chigurh uccide, e ciò cede il passo a qualsiasi altra considerazione (almeno in apparenza).

In realtà alla fine la narrazione viene dirottata su un piano onirico-concettuale: lo sceriffo ammette indirettamente ad un altro personaggio il proprio senso di colpa per episodi del proprio passato finiti male, per i quali non c’è stata giustizia, poi racconta alla moglie di uno strano sogno in cui c’era il padre (morto quasi certamente sul lavoro, da sceriffo, anche lui) che in un caso gli dava dei soldi, in un altro camminava assieme a lui, diretti verso una meta ignota. Come questo si leghi alla storia a cui abbiamo assistito non è dato sapere, ma resta senza dubbio più rilevante di qualsiasi altra considerazione il fatto che l’uomo sembri, grazie alla narrazione catartica che si concede – e sia pur nelle ombre di due sogni che denotano forse il turbamento del proprio inconscio – liberarsi dal fardello del senso di colpa che lo attanagliava da sempre. Questo mi sembra il punto chiave, fermo restando che scomodare altri aspetti significa quasi certamente fare solo illazioni. Il focus dell’intreccio, a quel punto, sembra diventare universale, suggerendo che una possibile consolazione sia proprio nel senso di liberazione dall’impotenza – e forse dal controllo ossessivo-compulsivo tipico delle autorità, che vorrebbero poter prevenire o curare tutti i mali del mondo.

Motivi validissimo per riprendere ancora oggi visione dell’opera, davvero molto bella (nonostante quel finale innestato quasi “a tradimento” rispetto al ritmo generale del lavoro), che non risente del tempo trascorso e che, se da un lato è forse esagerato considerarla tra le pellicole più belle del secolo, dall’altro va riconosciuta la sua capacità di sintesi e di ispirazioni per molte generazioni di cineasti successive, che da qui avrebbero attinto a piene mani nel seguito. Di sicuro, peraltro, non è un’esagerazione pensarlo come un film su uno dei serial killer più impressionanti mai visti al cinema, in grado di rivaleggiare con qualsiasi altro, ed in grado anche di rendere quel male espressione universale delle angosce che viviamo ogni giorno.

Disponibile in streaming sulle piattaforme Netflix e Chilli.

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“Ora capisco perchè piangete” era la frase più importante di Terminator 2 https://lipercubo.it/archivio/ora-capisco-perche-piangete.html Thu, 10 Oct 2024 09:21:04 +0000 https://lipercubo.it/?p=93417 L’immaginario pop ha da tempo consolidato l’idea del Terminator come il robot molto scaltro, intelligente e crudele, destinato a porre fine al genere umano. Una questione che riporta all’abuso della cultura pop da parte di certe letture della realtà un po’ troppo radicali, spesso affini a complottismo e rigurgiti anti-tecnologici (per non dire peggio). Come già avvenuto in Matrix e in Essi vivono, il film viene spezzettato e macinato in meme che fanno perdere il riferimento ed il punto di partenza della storia, diventando materiale per barzellette che non fanno ridere e (pseudo)notizie che vorrebbero farci piangere.

Ora capisco perchè piangete è la frase che il Terminator buono, dopo aver distrutto l’infido T-1000, pronuncia al giovane John Connor, che a quel punto si è legato emotivamente ad un robot che gli ha salvato più volte la vita, e che vorrebbe fermarne la proclamata autodistruzione. La tragedia di Cameron si lega alla necessità di sopravvivenza del genere umano, naturalmente: se Terminator non concludesse la propria missione gettandosi tra le fiamme, il futuro potrebbe risultare globalmente compromesso, minacciato dagli androidi che prenderanno il sopravvento sugli uomini. La storia impone che i terminator si estinguano, per quanto doloroso possa sembrare per le nuove generazioni. John, ad un certo punto, non può fare a meno di esprimere il proprio stato d’animo con una lacrima che scende sul proprio viso. Il Terminator disobbedisce pure all’ultimo ordine disperato del ragazzo, ti ordino di non andare, a testimonianza del fatto che ha acquisito una propria indipendenza di giudizio, il che non si ripercuote necessariamente (è bene ribadirlo) in conseguenze negative per l’uomo.

Ora capisco perchè piangete è una frase struggente quanto ricolma di significati: in primis andrebbe notato come la macchina interpretata da Schwarznegger abbia capito, cioè sia riuscito ad imparare qualcosa dagli uomini, attivando quello che oggi chiamiamo “apprendimento macchina” (machine learning). In secondo luogo, i terminator di Cameron sono tutt’altro che mono-dimensionali, tutt’altro che cattivi per definizione, ma sono estremamente ambivalenti: nel primo episodio del film, infatti, il terminator cattivo era interpretato dallo stesso attore che nel secondo episodio diventa dalla parte degli uomini. Questo avviene perchè, a livello di intreccio, il robot è stato programmato e riprogrammato per questa evenienza. Non si può fare a meno di notare, a questo punto, quel barlume di ingenuità narrativa del distinguere tra buoni e cattivi sulla base dell’aspetto,  ma a ben vedere questo permette al film di avere vari seguiti narrativi e di giocare perennemente su questa ambiguità di fondo: cosa vuol dire buono? Cosa vuol dire cattivo? Se riprogrammassimo un androide crudele per accompagnare gli anziani ad attraversare la strada, sarebbe possibile? Ricorderebbe di essere stato cattivo? Potrebbe sentirsi in colpa per aver agito in quel modo e dover andare dallo psicoanalista?

Ora capisco perchè piangete denota anche, in definitiva, una capacità di empatia da parte della macchina, cosa che effettivamente chiede chi si rivolge a ChatGPT come se fosse il proprio psicologo.

È altamente plausibile (per quanto si tratti ancora di un cantiere aperto) che la questione annessa all’etica delle macchine non sia decidibile, che significa: in informatica il concetto di “problema non decidibile” si riferisce a una classe di problemi per i quali non esiste (e mai potrà esistere, se è corretta l’ipotesi) un algoritmo o un programma che possa risolverli in modo generale, indipendentemente dall’hardware o dal tempo a disposizione. In altri termini un problema è considerato “decidibile” se esiste un algoritmo o una procedura che, quando applicati a qualsiasi istanza del problema, restituiscono una risposta corretta (sì o no) entro un certo limite di tempo. Ad esempio, il problema di verificare se un numero intero è pari o dispari è decidibile, poiché si può scrivere un algoritmo molto semplice che restituisce la risposta corretta. Capire se una macchina sia buona o cattiva, invece, che problema è? In quanto tempo posso rispondere con certezza sì o no?

https://twitter.com/sarbathory/status/1709668102739235151

Un esempio classico di problema non decidibile è il “problema dell’arresto” (Halting Problem): questo problema chiede se, dato un programma e un input, il programma si arresterà (terminerà) o continuerà a eseguire all’infinito per quell’input specifico. Alan Turing dimostrò già nel 1936 che non esiste un algoritmo generale che possa risolvere il problema dell’arresto per tutti i casi possibili. Per estensione il problema di stabilire se un’intelligenza artificiale (IA) possa o meno danneggiare l’umanità o meno non è un problema decidibile, almeno nel senso della teoria dell’informatica teorica. In un certo senso non vale a molto chiederselo, almeno fin quanto la teoria non avrà affinato i propri mezzi. Il che significa non avrà trovato un modo per quantificare l’etica, per misurare l’intelligenza in assoluto (in un ambito non ristretto come quello di una partita a scacchi dove, si è visto, algoritmo batte umano).

Tale problema coinvolgerebbe infatti una serie di fattori complessi, etici e comportamentali non (ancora) misurabili, che vanno oltre la capacità di essere risolti da un semplice algoritmo o da una procedura meccanica. Lo stesso semplice dilemma del capire se una macchina possa o meno superare l’intelligenza umana è ambivalente, per quanto studiosi come Kanheman abbiamo ribadito che certe previsioni nel lungo periodo (come stabilire la profittabilità di un’azienda in 5 anni), ad esempio, vengono fatte con maggiore precisione di qualsiasi esperto da semplici algoritmi statistici o numerici. Ma sono ambiti differenti, molto, e le generalizzazioni servono a poco. Meglio quindi, ad oggi, porla in altri termini, e considerare prematura la domanda.

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The Poughkeepsie Tapes: l’horror virale per eccellenza https://lipercubo.it/archivio/the-poughkeepsie-tapes.html Tue, 24 Sep 2024 10:21:06 +0000 http://lipercubo.it/?p=44213 Durante un’ispezione nella cittadina di Poughkeepsie, la polizia ritrova una quantità impressionante di videocassette girate dal serial killer Edward Carver. La storia viene raccontata mediante la proposizione di alcuni di quei nastri, caratterizzati dalle più feroci efferatezze.

In sintesi. Guilty pleasure di quelli sopra la media, sia per il realismo delle immagini che per il tipo di storia. Al netto delle riprese in VHS il cui effetto sembra ottenuto in post-produzione, e che possono non piacere a tutti, rimane tra i migliori finti-documentari horror mai realizzati.

The Poughkeepsie Tapes sarebbe uno shockumentary-mockumentary come tanti, se non fosse per alcune caratteristiche che lo rendono unico, in effetti. Il primo motivo di interesse riguarda la caratterizzazione del killer. In primis possiede determinate parafilìe: da un filmato vediamo che è un looner o feticista dei palloncini, per cui lo scoppio del pallone rappresenta l’estasi dell’orgasmo, ma anche quella della morte. Da un altro filmato viene esplicitata una forma di sadismo del genere master-slave. Il personaggio di Ed viene ritratto nel suo beffardo essere anti-sociale, tanto abile tecnicamente quanto spietato come killer. Come nel cult Henry – Pioggia di sangue è affetto da turbe violente di natura socio-psicologica, ed il film presenta la visione dei suoi delitti dalle VHS trovate dalla polizia, alternata dalle interviste a chi si era occupato del caso. Ed è imprendibile, almeno in apparenza, tanto che la sua storia viene anche sfruttata per lanciare un messaggio contro le conclusioni facili indotte dalla pena di morte (un’altra persona scambiata per lui). Niente male, insomma, per un sotto-genere di horror che, in altri casi (Snuff 102, ad esempio), è più incentrato sulla pornografia delle immagini che sulla sostanza, e che – in questa sede – si richiama a vari film analoghi in cui la storia viene fatta credere come realmente accaduta.

La sopraffazione di Ed riguarda, come suggerito dalla voce narrante, un trauma – o una serie di traumi regressi – in ambito relazionale, che l’uomo compensa nel modo più violento, infierendo sulle vittime e “specchiandosi” nei video che gira come protagonista assoluto, feroce quanto tormentato. Tale caratterizzazione è non soltanto ben definita, ma anche estremamente teatralizzata, come è possibile vedere mentre si riprende, durante alcune torture, nei panni del Medico della peste. Un personaggio della Commedia dell’Arte spaventoso e dal caratteristico “becco”, il che sembra lenire il suo senso di colpa ed aiutarlo e vestire dei panni adeguati rispetto a come potrebbe essere nella realtà. In altri casi comparirà con una tuta anti-contaminazione ed una maschera antigas, anche qui probabilmente a simboleggiare il suo sdoppiamento di personalità. Oltre ad essere un abile manipolatore (cosa evidenziata dalla sindrome di Stoccolma di cui sarà affetta una delle vittime) rimane anonimo, uno della folla, ed è questo che lo rende in definitiva perfettamente inquietante.

In secondo luogo, Ed è anche un abile regista (di riflesso lo è anche Dowdle, ovviamente), in grado di posizionare la telecamera che usa per filmare i delitti in più modalità: in soggettiva tipo Halloween, ma anche mediante singolari angolature sfalsate, che conferiscono un certo senso di inquietudine e fanno sembrare il tutto uno snuff vero. Nulla a che vedere con film analoghi come The Blair Witch Project, comunque, in cui la scelta di non mostrare la strega finiva per sembrare più di comodo che stilistica, senza contare il sottotesto che – se nel succitato era praticamente assente – qui è fortemente radicato nella realtà degli Stati Uniti, paese in cui le storie di serial killer sono iper-amplificate dai media e tanto frequenti da aver scatenato vere e proprie psicosi.

The Poughkeepsie Tapes è anche privo della componente di ostentata amatorialità che accomuna (purtroppo) i prodotti di questo tipo, essendo diretto e sintetico nel suggerire sviluppi e sotto-trame nella storia: ad esempio il killer che si finge solidale con la madre di una delle vittime, riprendendo la scena e filmando la reazione della donna mentre capisce, lentamente, chi abbia davanti. L’orrore del film, peraltro, è spesso di natura simbolica quanto gore: l’inserimento della testa dell’uomo nel cadavere della donna mediante taglio cesareo suggerisce un qualcosa di esoterico, ad esempio – ma questo non viene nè ostentato nè mostrato più dello stretto necessario, evidenziando una buona capacità di sintesi da parte del regista Dowdle (autore anche dello script). Una dote vera e propria, oserei scrivere, per un sotto-genere che andava di moda anni fa come torture porn (in cui l’agonia delle vittime viene ripresa in camera fissa ed in modo lungo, insistito e spesso ostentato), inaugurato nel mainstream da film come Hostel e reso celebre da svariati (quanto, a volte, inutili e fini a se stessi) epigoni.

The Poughkeepsie Tapes rimane avvolto da una coltre di mistero che persiste fino ad oggi, dato che (secondo IMDB) non è mai stato fornito alcun chiarimento ufficiale sul film; una cosa che, in questi casi, è uno standard ai confini del buffonesco, con il regista o qualcuno della produzione che, prima o poi, fa un’intervista e/o rilascia una dichiarazione della serie: “ehi, era solo un film, non era uno snuff movie“. Ad oggi potrebbe essere creduto, ovviamente a torto, uno snuff con reali omicidi al suo interno; ma basta dire che si tratta di un buon prodotto low budget, e tanto basta. Il personaggio dell’inquietante killer è interpretato, per la cronaca, da Ben Messmer, che lo rende teatrale, molto credibile e particolarmente spaventoso, soprattutto perchè non ha nulla di artefatto e sembra seriamente affetto dalle peggiori turbe psichiche.

Un film del genere, passato in sordina all’epoca e mai distribuito nelle sale italiane (ha avuto più di un problema di distribuzione, e solo da qualche anno esiste in DVD), non può ragionevolmente rientrare tra i film consigliati, ma può essere visto per provare sensazioni diverse dal solito, ed affacciarsi fuori dal mainstream verso i meandri dell’horror realistico: in fondo potrebbe essere un buon inizio.

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Venerdì 13: il capolavoro di Sean Cunningham https://lipercubo.it/archivio/venerdi-13-s-cunnigham-1980.html Wed, 18 Sep 2024 04:21:07 +0000 http://recensionihc.info/?p=4093 Venerdì 13 giugno 1980: un gruppo di teenager si reca a Camp Crystal Lake, un campeggio che sta per riaprire dopo che, 20 anni prima, era stato commesso un efferato delitto ai danni di una coppia di giovani…

Uno dei film slasher più popolari: imprevedibile, cinico e crudele. Non il primo, dato che il modello di riferimento sembra essere Reazione a catena di Mario Bava (1971), senza contare che un villain “parente” era stato presentato da John Carpenter con Halloween l’anno precedente. Siamo di fronte al primo vero successo commerciale del genere: l’assassino colpisce con inaudita ferocia, il sangue si dosa con cura, il volto del killer si vede solo alla fine e, al di là di qualche sbavatura, si tratta di un film di enorme valore storico. Buona prova di regia di Cunnigham, ottimi momenti di tensione e (forse) troppa oscurità ed attesa prima della rivelazione finale.

“Il bambino… è morto anche lui? Il bambino… Jason! È ancora lì…”

La critica non fu mai troppo buona verso questa opera, ed è bene ricordarlo anche oggi – anche per sottolineare il senso della rivalutazione (solo parziale, per la verità) a cui si è arrivati. Gene Siskel non solo definì il regista “una delle creature più spregievoli che abbiano mai infestato il movie business“, ma arrivò a pubblicare l’indirizzo privato di Betsy Palmer incoraggiando i detrattori a scriverle il loro disappunto (una cosa molto english, in effetti). Non pago, dedicò una puntata del suo programma (assieme al critico Roger Ebert) sostenendo che il film spingesse il pubblico a fare il tifo per l’assassino, e che in questo si manifestasse la sua essenza: oggi sembra scontato scriverlo, ma è proprio così – ed è sintomatico del fatto che il film funzioni. Non solo: c’è una discreta probabilità (ma bisognerebbe fare una ricerca approfondita, in tal senso) che il feeling di “tifare per il cattivo” (tipico di certi Nightmare, in effetti) sia stato inventato da questo film, invertendo la tendenza delle vecchie pellicole exploitation in cui il cattivo era semplicemente rivoltante o spregevole per il grande pubblico, e mai avresti potuto stare dalla sua parte.

Non è banale discutere il capitolo introduttivo della saga di Jason Woohres, del resto, non fosse altro che gli episodi usciti negli anni sono stati troppi e troppo diluiti, e sembrano aver fatto di tutto, negli anni, per disinnescare anche i fan più incalliti. Eppure l’idea di fondo era straordinaria, per quanto tipica di un filone – quello degli slasher / teen horror con (doppio) finale shocking: Un Natale rosso sangue, Silent night, bloody night, Sleepaway Camp. La paura che induce l’inquietante Jason – fuori dall’umano e dotato di forza incredibile, capace di resuscitare un numero indefinito di volte, e sul quale si ironizzò in celebri parodie horror come il primo Scary Movie (cichi-cichi, ciaca-ciaca) – si affianca alle debolezze, paradossali, che lo caratterizzano: la paura di una madre ossessiva e dell’acqua (quest’ultima sarà più evidente nel successivo spin-off con Freddy Krueger, Freddy VS. Jason). In questo film, comunque, il “ragazzone” è tutt’altro che esplicito, anche perchè il vero protagonista è solo un’ombra, una mano inquietante e sadica e che si rivelerà solo alla fine. Contrariamente a quello che potremmo aspettarci, in questa sede non vi è traccia di quello che è noto come l’assassino con la maschera da hockey, che comparirà dal secondo episodio in poi.

Jason venne concepito, curiosamente, prima come vittima che come carnefice, e ci volle l’intervento del produttore esecutivo Steve Miner (che passò alla regia nei successivi due episodi) per farlo diventare uno dei più famosi killer della storia del cinema. Il film viene ricordato per sequenze cult memorabili, come quella in cui un ragazzo viene trafitto da un coltello attraverso il letto, mentre la storia scorre in modo lento, inesorabile e mai prevedibile. Non mancano accenni di exploitation classici dei teenage horror – lo strip-monopoli (!), la ricerca di marijuana, qualche scena di sesso e nudi prevalentemente femminili mai davvero indispensabili. Non mancano tòpos classici che si rivedranno in molte altre salse, tra cui lo “scemo del villaggio” che esorta i giovani a scappare via, che splatter recenti come Dead Snow riprenderanno con precisione millimetrica. Il vero tributo, citato solo negli anni recenti, comunque, rimane il nostrano Mario Bava ed il suo celebre film, assai simile per certi aspetti, Reazione a catena: l’ascia piantata in testa di una vittima è probabilmente una delle scene più emblematiche di tale ispirazione.

Indimenticabile la colonna sonora, costituita da un tema classico da giallo alla Psyco e che non avrebbe certo sfigurato nei capolavori di Hitchcock; a riguardo del celebre tema vocalizzato della colonna sonora, Harry Manfredini raccontò di aver voluto evocare la frase “kill… kill kill, mom… mom mom“, effetto che ottenne applicando un delay alla propria voce in un microfono. Nella versione italiana, invece, Camp Crystal Lake diventa invece l’orripilante “Lago Campo di Cristallo”, che suona così male da far venire la voglia di vedere il film in lingua originale.

In definitiva il primo Venerdì 13” disturba per la sua essenzialità, per il suo lugubre cinismo e per il fatto che molti aspetti rimangano insoluti: uno schiaffo alla razionalità che rispetta appieno lo scopo di un thriller/horror, ovvero quello di esasperare le paure, e di esporle al pubblico senza riguardi.

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Doppelgänger: il tema del doppio nella fantascienza di fine anni 60 https://lipercubo.it/archivio/doppia-immagine.html Tue, 17 Sep 2024 20:21:07 +0000 http://recensionihc.info/?p=7862 Uno scienziato scopre un nuovo pianeta nel nostro sistema solare: la cosa viene coperta dal massimo riserbo e si organizza una spedizione conoscitiva in fretta e furia. I due astronauti selezionati scopriranno una realtà davvero singolare sul nuovo pianeta…

In due parole. Un classico della fantascienza di fine anni 60, diretto da Robert Parrish e scritto dai produttori Gerry e Sylvia Anderson. Si sviluppa in una storia semplice e piuttosto suggestiva che ha a che fare col tema del “doppio”: si immaginano due mondi paralleli che scambiano i rispettivi “cloni” da una parte all’altra dello spazio. Oggi probabilmente fa sorridere, per l’epoca fu un bel colpo.

Un esempio di fantascienza classica piuttosto ordinaria, costituita su un intreccio diretto, discreti effetti per l’epoca e pochi e semplici personaggi, che non perdono occasione per mostrare caratteristiche topiche molto ben riconoscibili: l’astronauta americano sicuro di sè, lo scienziato avulso dai compromessi, la moglie infida, il capo senza scrupoli.

Sembrerebbe un campionario di caratteri talmente ovvio da indurre di smettere la visione dopo massimo mezz’ora: eppure, alla fine dei conti, Doppelgänger conquista. E lo fa sulla falsariga delle teorie scientifiche dell’epoca, evidentemente: già a metà anni 50 effettivamente si riuscì a riprodurre antiprotoni ed antineutroni. Ovviamente il concetto, per rendere la narrazione più accattivante, viene esteso alle esistenze dei vari personaggi, vite private incluse, che si ritrovano in un mondo riflesso a milioni di chilometri di distanza, dalla parte opporta rispetto al sole. Riflesso, in effetti, di nome e di fatto, visto che avviene uno scambio di persona: l’astronauta della Terra finisce sul pianeta Terra “gemello”, vive in particolare un momento di disorientamento e poi scopre di riuscire a leggere soltanto attraverso uno specchio.

Il riflesso dell’altro (o di noi stessi) – ne Il signore del male di John Carpenter gli specchi avevano una valenza di porte dimensionali, ad esempio – diventa qui una scusa non tanto per scomodare improbabili simbolismi, quanto per mostrare psichedelia, senso di confusione, avidità e mancanza di scrupoli di certi individui. L’esito della nuova missione, atta a stabilire la verità, sarà tutt’altro che scontato, per quanto resti allo spettatore qualche dubbio sulla sostanza di quello che si è visto, a maggior ragione che il film sembra piuttosto “rigido” dal punto di vista scientifico. “Doppia immagine nello spazio” è certamente un cult nell’ambito del cinema di fantascienza, ma francamente credo che la pellicola sia surclassata da numerosi epigoni: basti pensare al celebre “Il pianeta delle scimmie” (1968), capace di provocare i brividi ancora oggi basandosi su una sorta di simile “dualità”, per quanto non tra uomini-specchio bensì tra scimmie ed umani. Teoria, quella di “Doppia immagine”, forse curiosa per l’epoca, ma anche tra le meno flessibili a disposizione degli sceneggiatori, che si ritrovano necessariamente vincolati a “telefonare” un po’ la vicenda, rendendola un po’ scontata a mio vedere (ogni pianeta riflette i comportamenti dell’altro, proprio come due mondi paralleli). Interessante, ad ogni modo, il fatto che la specularità del “mondo parallelo” sia visibile dalle immagini invertite sullo schermo: uno stratagemma semplice e geniale, a suo modo, per rendere l’idea anche agli spettatori meno esperti.

Del resto si azzarda, ma non troppo: basti pensare a Le orme (che uscirà solo 5 anni dopo), in effetti, con la sua fantascienza frammista di allucinazioni, thriller e tensione – che è comunque molto più “pluri-genere” di quanto non sia Doppelgänger – per capire come ci si potesse spingere oltre realizzando film di questo tipo, rendendoli già all’epoca realmente memoriabili. Altri dettagli sul film si trovano sulla rivista Terre di confine.

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