Un gruppo di ragazzi ad Amsterdam si reca nei pressi di Bratislava assieme ad un amico conosciuto sul posto, e…
In breve. Un film crudo quanto sottovalutato nel suo genere, passato un po’ nel silenzio nonostante sia realistico, truculento, ben sceneggiato ed altrettanto ben recitato. Tarantino mette soltanto il nome, Eli Roth pensa al resto.
Ci sono svariati punti che meritano di trovare spazio per questo primo episodio di una delle migliori saghe horror mai realizzate negli ultimi anni: anzitutto c’è la tradizione dell’orrore classico, e la conoscenza del cinema di genere anni 70 da cui, per Eli Roth, è impossibile prescindere. Persino la dinamica, per certi versi, richiama per certi aspetti un rape ‘n revenge di quel periodo, senza dimenticare quel tocco di violenza estetizzante che qui diventa il vero protagonista.
C’è la tradizione del torture-porn, roba di cui la maggioranza degli spettatori neanche sospetta l’esistenza, e che ha ispirato questo piccolo omaggio al cinema underground, pur essendo sostanzialmente un prodotto mainstream. C’è la componente voyeuristica imprescindibile per un horror moderno, quella che Peeping Tom osò negli anni 60 in modo pioneristico, e che vive di decine di riflessi famosi e sempre piuttosto “avanti” per l’epoca (penso a Videodrome, ma dovrei citare almeno [REC] e Marebito). Quella stessa componente che spinge lo spettatore a coprirsi gli occhi a più riprese durante “Hostel“, salvo poi voler spiare da un piccolo spiraglio in mezzo alle dita.
Insomma, non credo di esagerare se scrivo che in Hostel c’è semplicemente tutto: si scandagliano le paure moderne, e anzichè proporre i soliti clichè si indaga su una sorta di leggenda metropolitana, che racconta di persone molto ricche che si procurano a pagamento giovani indifesi per poterne disporre a piacere, fino alla morte. Per la verità la storia è reale, ed esisterebbe addirittura un sito che offre questo macabro “servizio”, con la differenza che sembra che sia legale in Tailandia poichè le vittime partecipano volontariamente, ovvero si sacrificano per fornire sostentamento alle proprie famiglie. L’idea, oltre a scatenare un vespaio di polemiche sul cattivo gusto, fece girare le scatole alle autorità slovacche che videro con fastidio la rappresentazione di aspetti talmente negativi legati al proprio paese.
“L’idea mi diede immediatamente la nausea” – ricorda Roth – “Ma allo stesso tempo era vera. La gente ha un gusto morboso e crudele. Non vi è limite a ciò che ha voglia di fare a qualcun altro per il proprio piacere e questa è la cosa più terribile, ciò che mi colpisce più di tutto”. E in effetti il sito (racconta Roth su HorrorMagazine) “presentava il tutto come se i futuri killer fossero dei benefattori, come se rendessero un servizio alle vittime con la loro bizzarra assicurazione sulla vita”.
Dal punto di vista prettamente tecnico, Hostel è diviso in una prima parte che serve a costruire un fondamento alla storia, e la seconda che vede l’esplosione di violenza, tortura e sopraffazione su vittime inermi. Un ambientazione in cui non tutti gli spettatori si sentiranno a proprio agio, ma che colpirà in positivo chi ama un certo tipo di cinema. Tra le chicche del film, un piccolo cameo intepretato da Takashi Miike, il regista di Audition, con il quale esiste una vaga somiglianza strutturale.
“Chi ha avuto questa idea ha pensato che ‘là fuori’ ci sia qualcuno per cui prostituzione, alcol e droghe non contano più nulla ed è pronto ad ammazzare qualcuno per superare la noia che domina la sua vita” (E. Roth, fantascienza.com)
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