I quattro dell’Apocalisse sono il baro Stubby (Fabio Testi), la prostituta Bunny (Lynne Fredrick), un folle e un ubriacone; essi si trascinano tra panorami desolati e territori inospitali, condividendo il viaggio con Chaco (Thomas Milian), un bandito messicano infido e crudele che farà impazzire il più debole dei quattro, trasformando il viaggio in un incubo…
In breve: uno dei tre western diretti da Lucio Fulci, molto rivalutato al giorno d’oggi anche se altrettanto diluito in interminabili sequenze: la buona interpretazione di Milian fa salire la media, gli altri personaggi rasentano la sufficenza. Secondo dei tre western diretti da Fulci (gli altri due: “Le colt cantarono la morte…e fu tempo di massacro” e “Sella d’argento“), si tratta di una storia piuttosto cupa nella quale il difetto principale è dovuto alla sceneggiatura stessa, che ricalca vagamente gli stereotipi del genere rielaborati in modo “anarchico” – e vagamente sconnesso – dal regista romano. Nonostante alcuni spunti originali ed accattivanti come i fanatici incappucciati, l’uomo “che parla coi morti” e la lezione di stile dei classici americani, siamo piuttosto lontani dal capolavoro: questo film è la conferma che il western, già di per sè complesso da realizzare nella sua limitatezza scenografica, fu forse il genere meno “adatto” alla verve artistica del regista romano. In effetti nonostante si creino degli ottimi presupposti nella prima parte dell’opera, il tutto si smarrisce clamorosamente nella seconda, tra dialoghi un po’ fuori luogo, qualche falla narrativa ed una sceneggiatura poco solida.
A poco serve, quindi, la figura di Chaco, un bandito crudele che non possiede, all’interno della trama, nè lo spazio narrativo nè la dimensionalità che verrà ad esempio riservata a Milian in “Milano odia..“, oppure – per restare sullo stesso regista – nel capolavoro “Non si sevizia un paperino“. Ispirato da una serie di racconti dello scrittore Francis Brett Harte, ambientato in scenari apocalittici con le consuete sparatorie, aggressioni di banditi senza futuro e rapine in villaggi sperduti, “I quattro dell’Apocalisse” ha dunque diversi elementi che faranno riconoscere il tocco di personalità di Fulci (la tortura dello sceriffo a colpi di lama, oltre ad una scena di cannibalismo che fu una delle tante “bombe” con cui il regista fece “deflagrare il genere“), anche se altri momenti – pur concepiti con una certa poesia e sensibilità, come il finale straziante – possono risultare semplicemente noiosi agli occhi dello spettatore moderno.
Credo che il problema principale, come scrivevo prima, sia dovuto alla limitatezza dell’ambientazione, alla necessità di dare certe dinamiche alla storia, che rendono il tutto piuttosto debole sia come impianto scenografico che come interpretazione (Fabio Testi è poco credibile nel complesso, anche se il suo personaggio sembra piuttosto promettente). Del resto western di genere davvero imperdibili a livello di “terrorismo” di genere – penso a Se sei vivo spara – ce ne sono pochi in giro, e “I quattro dell’Apocalisse” mi sento di consigliarlo solo al pubblico di appassionati di Fulci, suggerendo a tutti gli altri un qualsiasi giallo o un horror del periodo d’oro.
Cosa rimane degli attimi trascorsi piacevolmente assieme ai nostri amici, oppure ai nostri cari? Dove viene fisicamente riposto il passato che scorre inesorabile? Sono le tematiche affrontate dal cult “L’invenzione di Morel“, girato dal regista Emidio Greco, tratto dal romanzo omonimo di Adolfo Bioy Casares e presentato a Cannes nel 1974.
“L’invenzione di Morel” è stata una piacevole scoperta che ho fatto grazie a “Fuori Orario” di Enrico Ghezzi su Rai Tre qualche anno fa: si tratta di uno dei più atipici ed alienanti sci-fi che abbia mai visto, realizzato con pochi mezzi tecnici ma con altrettanta intensità. In esso si narra di un naufrago che approda su un’isola deserta, e che scorge quasi immediatamente delle persone distinte che sembrano risiedere sul posto: tra gli altri scorge Faustine (Anna Karina), la prima che cerca di avvicinare ma che, stranamente, sembra non considerarlo affatto. La cosa ancora più strana è che, penetrando in una enorme villa, il naufrago (Giulio Brogi) si rende conto che tutti i suoi inquilini lo ignorano: deciso a scoprire la verità su quella paradossale situazione, assiste ad una riunione indetta dal padrone di casa, Morel (John Steiner), il quale rivela di un esperimento che avrebbe eseguito a loro insaputa durante i loro sette giorni di permanenza.
“Noi stiamo recitando anche in questo momento: tutti i nostri atti sono rimasti registrati. Avrei potuto dirvi, appena arrivati: vivremo per l’eternità…”
Nella propria folle e romantica filosofia di vita, Morel ha fatto in modo che i momenti trascorsi assieme alla donna amata ed ai suoi amici più cari venissero immortalati da una macchina-registratore in modo talmente fedele da renderli replicabili ed indistinguibili dalla realtà. A tale scopo ha creato il macchinario – appunto, la sua “invenzione”, che registra tutto quello che accade attorno alla stessa e lo ripete all’infinito, omaggiando così la piacevolezza di quegli attimi e cercando di renderli eterni per i presenti.
Così il povero naufrago-evaso si trova, suo malgrado, a vivere dentro quel mondo fatto di mere proiezioni: persone artificiali che hanno già vissuto e che non possono, loro malgrado, interagire con lui. Del resto sulla solitudine del singolo che sfida la morte verso l’eternità, espressa dal trovarsi letteralmente “dentro un’opera d’arte” (in quel caso un quadro) sarà un’idea di Sacchetti e Fulci qualche anno dopo nel celebre ed inquietante “…e tu vivrai nel terrore! L’aldilà”. Allo stesso modo il naufrago è coinvolto in un mondo creato da un altro essere umano, talmente realistico da sembrare vero.
Praticamente impazzito dopo aver scoperto la verità, e consapevole di essere innamorato di una semplice immagine, il naufrago tenta di manipolare la macchina allo scopo di entrare anche lui nella proiezione, in modo da poter essere notato da Faustine. Alla fine si accorgerà che la macchina sta distruggendo il suo corpo reale, e spaccherà disperatamente il marchingegno, mentre il suo corpo sta visibilmente invecchiando: quelle persone, infatti, sono vissute molti anni prima del suo arrivo.
“Noi tutti vivremo in quella fotografia… sempre!”
Uno dei capolavori, forse tra i più sottovalutati, della storia della fantascienza italiana.
In breve. Thriller psicologico in pompa magna, molto ben realizzato ed interpretato (ed è anche uno dei film di Scorsese più oscuri di sempre). Alla prova dei fatti vagamente ermetico, e non sempre capito dal pubblico. Twist finale magistrale: unico nel suo genere.
1954: Edward “Teddy” Daniels, un agente federale dal passato tormentato, indaga sulla scomparsa di una paziente da un manicomio criminale. Girato in quattro mesi nel 2008, Shutter Island è uscito due anni dopo; si tratta indubbiamente uno dei film più noti e cupi di Martin Scorsese, oltre ad essere l’ultimo ad essere stato girato dal regista su pellicola.
Il film è basato su una storia vera?
No, “Shutter Island” non è basato su una storia vera. Se la storia è avvincente e ricca di suspense, sia il romanzo che il film sono completamente di finzione e non sono basati su eventi o persone reali. La trama e i personaggi sono il frutto dell’immaginazione dell’autore e del regista. Il tutto è basato sul libro L’isola della paura di Dennis Lehane (uscito del 2003, ed. Piemme), come abbiamo scritto non si basa su una storia vera (anche se tutto, in effetti, lo farebbe pensare), per quanto la suggestione dell’isola sia tratta da un ricordo dell’autore, Lehane: la visita, da ragazzino, ad un carcere di Boston Harbor.
Trama del film Shutter Island: ecco il riassunto in breve
1954: Edward “Teddy” Daniels e il suo collega Chuck Aule salgono su un traghetto diretto a Shutter Island, la sezione dell’Ashecliffe Hospital riservata ai criminali psichiatrici. Sono lì per avviare l’indagine sulla scomparsa di una paziente, Rachel Solando, che è stata incarcerata per aver ucciso per annegamento i suoi tre figli. Nonostante sia tenuta in una cella chiusa a chiave sotto costante supervisione, è riuscita misteriosamente a scappare dall’ospedale e forse addirittura dall’isola.
Il film si svolge sull’ambivalenza della figura di Teddy, che si ridefinirà più volte nel corso della trama fino ad un imprevedibile finale.
Lo spiegone del film
La scelta precisa di un “genere” per Shutter Island è difficoltosa: c’è il noir, c’è il thriller, ci sono in parte anche l’horror e le atmosfere claustrofobiche tipo, ad esempio, The Experiment. Fino alla fine lo spettatore è assalito dai dubbi: chi è davvero Teddy Daniels? Anche lo spettatore più razionale tenderà a “dare ragione” ed empatizzare con il suo personaggio fino alla fine, sostenendo la sua (tutto sommato credibile) teoria del complotto: l’uomo infatti sospetta che gli infermieri ed il personale del manicomio abbiano favorito l’evasione di Rachel Solando, una paziente evasa in circostanze misteriose e, da allora, svanita nel nulla. Eppure l’isola è un ambiente ristretto, in cui è difficile muoversi, e da cui non sembra esserci modo di fuggire: come stanno davvero le cose? La risposta è contenuta (pre-avviso: adesso c’è uno spoiler) in quel finale sorprendente, quel twist che spezza ogni speranza e riporta il pubblico alla cruda realtà: Teddy in realtà ha problemi psichiatrici di sdoppiamento della personalità e dissociazione, e gran parte di ciò che ha vissuto è avvenuto soltanto nella sua mente. (fine spoiler)
Shutter Island, visto oggi, appare quasi rarefatto nella sua atmosfera, anche se le continue allucinazioni del protagonista (ad un occhio allenato, per la verità) faranno più volte sospettare quella che è, alla fine, quell’unica inesorabile verità. Probabilmente, visto oggi, è anche vagamente scontato da smantellare nella sua costruzione da giallo puro, ma questo non cambia la sua valutazione complessiva che rimane, senza dubbio, positiva.
Edward, il poliziotto tutto d’un pezzo
Del resto la figura di Edward oscura qualsiasi dubbio o domanda, tanto è compatta, coinvolgente e nitida: un poliziotto tutto d’un pezzo, in cui è scontato immedesimarsi, apparentemente irreprensibile e stereotipico del federale cinematograficoUSA – con tanto di vizio dell’alcol.
Blooper o errori nel film? Non proprio
Questo film, del resto, è anche un raro caso in cui non solo il twist finale stravolge l’intero senso della storia, ma anche gli errori di continuità (che in realtà sembrano essere tratti dai sogni allucinati di Edward) sono voluti, funzionali e frequenti, oltre ad essere prettamente legati alla spiegazione finale. Non ha senso, pertanto, sindacare sugli stessi e “scandalizzarsi” che Scorsese abbia potuto girarli, dato che sono funzionali ad una narrazione tra realtà e fantasia – che non tutti, evidentemente, hanno inquadrato nel modo corretto.
Sempre in bilico tra follia e realtà
Nello scorrere di Shutter Island, del resto, si gioca spesso sul filo dell’inintellegibile, del non percepito a prima vista. Vedi ad esempio la questione degli anagrammi dei nomi (e dello stesso titolo: l’anagramma di Shutter Island potrebbe essere “verità e bugie” -“truths and lies” – così come verità-negazioni – “truths/denials“). Più in generale le apparenze non sono quello che sembrano, ed il limite tra follia e realtà è sempre sottile, sfumato, sulla falsariga di thriller ambigui come Seven o Identità. Nella narrazione sono comunque presenti riferimenti a casi storici realmente accaduti (i fatti di sangue nel campo di concentramento di Dachau nel 1945, liberato dall’esercito americano), ed il feeling generale è tanto realistico da lasciare spiazzati, alla fine della visione, e quasi malinconicamente delusi dalla stessa.
La citazione cult del film: vivere da mostro o morire da uomo per bene?
La frase più significativa del film, del resto, nella sua lucida follia (“Cosa sarebbe peggio: vivere da mostro o morire da uomo per bene?”) è legata ad un doppio significato: vivere da mostro, infatti, significherebbe accettare il proprio senso di colpa. Morire da uomo buono, al contrario, comporterebbe l’asportazione di parte del cervello mediante lobotomia, proprio perchè la cura non ha mai funzionato.
Il paradosso di Shutter Island
Due scelte soffocanti dai tratti esistenzialisti, che evidenziano certi limiti della mente umana e definiscono il paradosso definitivo della pellicola, oltre a sancirne ufficialmente la bellezza. Non esiste un vero e proprio legame esplicito e voluto tra quella frase e un famoso brano dei Metallica, ma è comunque evocativo e significativo ricordarne il testo:
When a man lies he murders
some part of the world
These are the pale deaths
which men miscall their lives
All this I cannot bear to witness any longer
cannot the Kingdom of Salvation
take me home (Metallica)
tradotto:
Quando un uomo mente, uccide
qualche parte del mondo
Tali sono le pallide morti
che gli uomini chiamano “vita” per sbaglio
Tutto questo non posso più sopportarlo
possa il Regno della Salvezza
non portarmi più a casa
Il dilemma del protagonista, del resto, potrebbe essere riassunto da quell’ultima criptica frase, la quale – a parte evocare il testo di To live is to die dei Metallica – definisce il senso di quanto abbiamo visto, in definitiva: un film nel film, un roleplay ultra-realistico – difficile da vedere con scetticismo, sia per il protagonista che per buona parte degli spettatori. A livello di spiegazione del finale, inoltre, non abbiamo risposte nette, ma il modo in cui l’uomo si consegna agli infermieri farebbe pensare che abbia scelto di farsi lobotomizzare come unico possibile antidoto al loop di dolore che prova.
Shutter Island è in definitiva un grande thriller, forse uno dei migliori mai girati in quegli anni – come pochi ne sono stati girati, e che vanta tantissimi, più o meno fiacchi, tentativi di imitazione.
Anni ’40. Shlomo preavvisa gli abitanti del suo villaggio shtetl, in Europa dell’Est, che i soldati nazisti stanno arrivando. Per salvare tutti il protagonista lancia l’idea di costruirsi un treno, fingere di auto-deportarsi e fuggire in Palestina. Metà degli abitanti si travestirà da soldato tedesco e l’altra metà da deportato…
In breve. Uno dei migliori film mai realizzati sull’ olocausto, in un perfetto equilibrio tra tragico e comico: da non perdere.
Si può trattare in modo ironico o satirico l’olocausto, senza retorica o cattivo gusto, e senza scadere o degenerare? A guardare “Train de vie” del regista rumeno Radu Mihăileanu, sembrerebbe proprio di sì: questo film gioca un ruolo essenziale nella cinematografia del genere, solitamente propensa a presentare solo storie tragiche (come è giusto che sia, in fondo), ma focalizzando la visuale sull’ottica di un protagonista (una vittima o, più raramente, un carnefice). Ed è davvero incredibile come anche oggi, nella giornata della memoria, questo piccolo gioiello non venga quasi mai citato.
Molti film sull’Olocausto, al di là di eccezioni molto specifiche, possiedono come difetto la capacità involontaria di sminuire o alleggerire i fatti, presi come sono da un meccanismo di “voler sembrare” in un certo modo (ad esempio il film di Benigni La vita è bella lascia più il segno di un tragedia personale piuttosto che collettiva, mentre La settima stanza di Márta Mészáros si focalizza sul contraddittorio misticismo della protagonista, tralasciando deliberatamente da parte, per dire, la tragedia in atto ed il rapporto ambiguo tra chiesa e nazismo). Si ammette infatti, di voler concentrare l’attenzione esclusivamente sul protagonista e i suoi drammi personali, per restituire la massima empatia con il pubblico: ma ciò, di fatto, finisce troppo spesso per mettere in secondo piano lo scenario che, nel caso del nazismo, è invece fondamentale. Train de vie non solo fa questo, ma lo rende oggetto di satira (il che non implica, ricordiamo, che la cosa debba fare ridere: semmai, alla fine, provoca l’effetto contrario).
C’è una mentalità che degenera, un modo malato da rappresentare: e pochi film lo sanno fare come “Train de vie“. Si sa ironizzare su una tragedia senza sminuirne la portata, giocando su un equilibrio delicatissimo e, soprattutto, facendolo in modo credibile: e nel frattempo uno dei protagonisti si chiede quanto potrà mai costare un biglietto per la Palestina, oppure “se deportarsi da soli ti sembri da sani di mente”.
Train de vie è una successione incalzante di eventi, che alternano tradizioni yiddish (una parodia del tedesco con dentro l’umorismo, si dice all’inizio, ed è un po’ questa la chiave di lettura più vere dell’opera) ad imperdibili siparietti parodistici: i personaggi che si dividono in fazioni politiche o religiose, del resto, è degno di un film dei Monty Python. il finale, poi, è un’autentica sorpresa, che solo la visione completa del film potrà far gustare appieno.
Train de vie può essere considerato, senza mezzi termini, un capolavoro del genere, proprio perchè mostra uno scenario verosimile, possiede una visione globale della cultura e della società dell’epoca, con la capacità di fare satira efficace in chiave anti-nazista, ma rifiutando al tempo stesso qualsiasi collocazione aprioristica in una religione o un’ideologia. Buona, ed incalzante, colonna sonora di Goran Bregovic.
Io fuggivo, credendo che si potesse fuggire da ciò che si è già visto… troppo visto.
Un medico londinese si reca assieme alla figlia presso un suo brillante ex-studente: arrivati nel suggestivo paesino, strani morti sembrano verificarsi in modo del tutto inspiegabile…
In breve. Due anni prima di Romero John Gilling mette in scena una buona storia di morti viventi, legata strettamente alla tradizione voodoo. Elegante nella forma e piuttosto fluido nella trama – per quanto non proprio strabiliante visivamente – si tratta di uno dei film più inquietanti e meglio realizzati del periodo.
“Ho sognato morti che resuscitavano… e tutte le tombe erano vuote“
“La lunga notte dell’orrore” è una produzione diretta da John Gilling per la Hammer, anno di grazia 1966: essa si sviluppa come un tipico horror gotico “all’inglese” riportando alcuni punti di contatto con l’omologo – di 22 anni prima – Ho camminato con uno zombie, per quanto in questa nuova circostanza si leghi la dimensione “morti viventi” non alla residenza su un’isola esotica bensì all’importazione da parte di un ambiguo nobile locale. Lo zombie assume quindi, in questo film, la valenza di una sorta di instancabile “manovale” che il villain, come vedremo, sfrutta ferocemente all’interno della propria miniera. Per farlo egli ha imparato il voodoo presso qualche oscura località esotica, ed il suo essere infido ma apparentemente ineccepibile lo rende senza dubbio un personaggio molto affascinante (raffinatezza ed efferatezza estrema, del resto, sono tratti caratteristici a cui si richiamerà il moderno Ubaldo Terzani).
Il medico Sir James Forbes, dal canto proprio, nell’eleganza classica da un lord inglese lucido e razionalista, verrà progressivamente travolto dalla dimensione ed inquietante mistica del voodoo, per quanto all’inizio la relegasse a banali superstizioni del posto; di fatto, è un trionfo della dimensione orrorifica in una pellicola di culto, gradevole da riscoprire ancora oggi, semplicemente irrinunciabile per gli appassionati del genere e che non risente troppo dell’età che ha. Ovviamente non c’è da aspettarsi un delirio di splatter e gore, per quanto i morti viventi siano piuttosto ben realizzati ed assumano, forse per una delle prima volte nella storia, il colorito violaceo, l’andamento barcollante e gli occhi bianchi che impareremo a conoscere negli anni successivi. Gli effetti speciali di questo film non sono certamente eccezionali, anzi vivono di quell’orgogliosa artigianalità di cui non tutti vanno fieri; nonostante questo la storia si regge in piedi molto dignitosamente, e conferma uno dei maggiori picchi di idee e buoni script di quel periodo. Questo è riscontrabile anche nei dialoghi molto curati che, come sappiamo, non sono tipicamente un punto di forza di questo tipo di film.
Per quanto privo della carica rivoluzionaria ed ultra-gore delle opere di Romero, in definitiva, The plague of the zombies è senza dubbio uno dei migliori horror sui morti viventi mai realizzati.
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