Un cantante francese gira negli ospizi per fare le proprie serate, in prossimità di Natale: ma il furgone su cui viaggia si guasta, e l’uomo è costretto a farsi ospitare da un cordiale ex umorista…
In breve. Exploitation belga di buona fattura, ricco di richiami impliciti al primo Wes Craven ed al cinema di genere “estremo” di moda negli anni 70 (I spit on your grave è il riferimento più corposo). Tutti i ruoli dei personaggi sono stravolti, e l’apparente normalità degenera nel terrore con la “naturalezza” di una piece teatrale dell’assurdo.
Se fai cinema horror senza pretese, è facile che tu venga tacciato di superficialità, specie se non riesci a dare una giustificazione accettabile a quanto rappresenti sullo schermo: ancora ricordo Grotesque e la sensazione non troppo positiva che mi ha suscitato (buona forma ma pochissima sostanza). In parte, Calvaire sembra suggerire le stesse sensazioni, anche perchè – nella sua brutale essenzialità – parte dai presupposti più classici che possano esistere (il protagonista si perde in un bosco, il furgone si guasta, esce fuori poco dopo lo psicologicamente instabile di turno). Ma se si riesce ad andare oltre i primi 20 minuti senza cedere alla tentazione di vedere un altro film, si troveranno numerose, ed interessanti, sorprese; il cinema del belga Du Welz è niente affatto banale, e molto ben congegnato. I riferimenti al cinema horror classico non mancano, in particolare riguardo l’exploitation anni 70. Una struttura rigida e piuttosto prevedibile di per sè, in cui il regista è riuscito (in collaborazione con Romain Protat) ad inserire vari elementi di novità, tanto da renderlo alquanto originale.
https://www.youtube.com/watch?v=1owrlQlLExY
I limiti, in questo caso, sono dettati dalla struttura stessa del film, e da un ritmo claustrofobico che spaventa, avvince e cattura per buona parte della narrazione, forse con qualche pecca nel ritmo giusto nella seconda metà. Lo spettatore che cerchi effetti speciali strabilianti, non sopporti la violenza anche accennata o diversamente si aspetta uno splatter puro, rimarrà deluso e dovrà guardare altro.
Caratteristica di Calvaire sta nel fatto che i personaggi vivono una duplice identità, tracciata in linee piuttosto essenziali, ma altrettanto efficaci: l’effetto straniante deriva molto da un alto dalla figura del protagonista, dipinto come un menefreghista per cui sarà quasi impossibile simpatizzare, e dall’altro dal villain di turno, uomo fragile che, racconta, ha perso il proprio senso dell’umorismo dopo essere stato lasciato dalla moglie. Eppure tutti i personaggi gravitano attorno a Marc, per una forma di attrazione nei suoi confronti Ed è proprio qui che scatta un meccanismo interessante a livello narrativo: il passato oscuro di Bartel viene “rivissuto” attraverso Marc, lentamente identificato dal proprietario dell’albergo con la moglie persa.
E se può sembrare ovvia queste identificazione che, agli occhi di un folle, arriva a far rivivere in replay le crudeltà fisiche e psicologiche subite dalla donna, meno ovvio è che tutti gli abitanti del villaggio (con la sola eccezione di Boris, forse) “vedano” in Marc la donna, l’unico elemento femminile della zona nonchè morboso oggetto del desiderio di molti. I riferimenti a Cane di paglia e I spit on your grave si sprecano e sono leciti, con la differenza che in questa sede manca completamente l’elemento vendetta, in favore di una pietas nichilista che esalta la natura ambigua, imprevedibilmente folle dell’essere umano.
Sulla natura animalesca dell’uomo e sul lato oscuro, evidentemente, è stato già scritto e detto fin troppo sullo schermo: l’elemento di novità di Calvaire (il nome “mistico” del film sembrerebbe derivare da un preciso riferimento alla crocifissione) sta proprio nel fatto che al posto della solita scream queen c’è un uomo, costretto suo malgrado ad interpretare una donna – con cui condivide la fragilità di fondo – che non ha mai conosciuto, solo perchè il mondo sembra identificarlo in essa. La stessa morbosa ambiguità che troviamo, in toni differenti, all’interno uno dei più sottovalutati film di Cronenberg (M Butterfly), che condivide con Calvaire il “gioco di ruolo” sessuale accettato dal protagonista, accecato da pulsioni sessuali e da pretese d’amore.
Menzione particolare per la colonna sonora, praticamente un unico macabro tema eseguito al piano da uno dei protagonisti, capace di creare uno siparietto grottesco – quasi da teatro dell’assurdo – nonchè un preciso omaggio al film del 1968 Una sera… un treno.
Duane Bradley, ragazzo di provincia dalla faccia pulita, si presenta in un motel di New York portando con sè uno zainetto ed una grossa cesta di vimini: cosa è venuto a fare nella Grande Mela?
In breve. Tra i b-movie del genere horror per eccellenza: sangue, violenza, trama più solida della media e vari elementi che lo hanno reso, nel tempo, un oggetto di culto. Gli appassionati non potranno prescindere da questa chicca (per quanto non esente da difetti), gli amanti generalisti dell’horror possono sempre visionare per curiosità.
“Basket case” di Frank Henenlotter (regista noto principalmente per via di questo film e di Brain damage) è probabilmente uno dei b-movie dell’orrore più solidi e famosi mai realizzati negli anni Ottanta. Il suo feeling, il suo ritmo ben scandito, il suo splatter artigianale e gli spruzzi di sangue (probabilmente fatti con una “peretta”) hanno finito per fare scuola, e non ci sono dubbi che i lavori della Troma (ad esempio) ne possano essere stati pesantemente influenzati. Un esempio di b-movie per fama, gloria e giusti meriti, anche per il fatto che riesce a mantenere viva l’attenzione dello spettatore senza banalizzare, ma anzi accattivandosi la curiosità e dosando con grande cura tutti gli elementi.
In pochi hanno notato che si tratta di un horror artigianale che, a suo modo, analizza le relazioni umane (amore, gelosia, possessione) sfruttando un’apparenza meramente organica e gore: il risultato appare pienamente convincente, anche se probabilmente, al netto di tutto, riesce più ad incupire che a spaventare sul serio lo spettatore. Si potrebbe parlare di una sorta di proto-body horror, per via della presenza della creatura nella scatola che finisce, inevitabilmente, per avere un’ovvia valenza simbolica (orrore esteriore versus interiore).
Beninteso che, in questo discorso, si rimane comunque lontani dalle introspezioni sul tema effettuate qualche anno dopo da David Cronenberg, si tratta un horror artigianale ottantiano nello stile, nella sequenzialità e nella costruzione dei personaggi, in cui vive qualche momento davvero tragico che forma una strana coppia – neanche a dirlo – con l’andamento scanzonato, irriverente e volutamente trash del resto. Secondo alcuni, del resto, è proprio questo dualismo l’unica cosa che finisce per essere l’aspetto negativo di “Basket case“, fermo restando che si tratta di una pellicola “di genere” per pubblico “di genere”, non sono mai stato troppo d’accordo. L’accostamento mi pare ben realizzato, il tema di fondo è decisamente spaventoso, e la verità, per quanto faccia sorridere di riflesso, si sa trasformare e diventa (fin troppo) serio nella seconda parte. Una prassi di molti horror, per la verità, quella di accostare il comico al tragico. Il tutto, c’è da specificare, in un contesto di recitazione abbastanza infimo ed una qualità visiva piuttosto bassa, per non parlare del doppiaggio in italiano non esattamente da Actor’s Studio.
Del resto rimangono innumerevoli gli elementi di culto della pellicola: il mazzetto di dollari ostentato da Duane – secondo il regista si trattava dell’intero budget del film! – gli inevitabili tagli che misero sul mercato una versione “fully uncut” ed una che esaltava (censurando tutto il gore) solo l’aspetto ironico del film, i credits per buona parte fake – dato che il cast era particolarmente esiguo, la chirurgia improvvisata nel salotto di casa, gli inquilini casinari del motel, le urla nella notte, le smorfie indimenticabili di Terri Susan Smith versione “ragazza della porta accanto“, senza dimenticare naturalmente il contenuto del cestino (la vera miccia che “accende” la pellicola). La creatura venne animata parzialmente in stop motion (cosa un po’ insolita per un film di questo tipo) oppure, ove possibile, con un guanto deformato mosso direttamente dal regista – tanto per dare l’idea del livello di artigianalità che, è bene specificare, non degenera mai in un eccesso che lo avrebbe reso solamente ridicolo.
Probabilmente uno dei film del genere più “puramente” b-movie, non il miglior horror anni 80 (questo è sicuro) ma certamente una delle pellicole che meglio bilancia artigianalità e qualità, con un finale in crescendo ed un epilogo tragico che non potrà, a mio avviso, lasciare indifferenti.
Come già in altri casi: “Basket case” per molti, ma non per tutti.
Trovare una spiegazione per INLAND EMPIRE sarebbe come voler fare un buco nel muro con un cucchiaino: difficile, non impossibile e da pianificare solo in caso di reale necessità. Del resto già il titolo – reso un po’ malamente come “L’impero della mente” piuttosto che un più letterale “Impero Interiore“, risulta piuttosto ostico e “spaventoso” per il pubblico mainstream, per il quale tutto deve essere razionale, lineare, comprensibile, happy-end incluso. Guai ad azzardare di inscenare, per esempio, uno pseudo-serial televisivo fatto da attori con la testa di coniglio.
In breve: un Lynch estremamente criptico per uno dei film più complessi e lunghi mai girati dal regista. La sostanza non manca, la forma eccelle come sempre ma l’impressione è che ci sia troppa “carne al fuoco”.
Del resto Lynch, da tempi non sospetti, fa il meno possibile per rivolgersi al pubblico ordinario di maggioranza: quello tutto popcorn, risate grasse, mostri finti ed eroi rassicuranti. Ancora una volta non fa che “divertirsi” a disorientare il proprio pubblico, proponendo due (tre?) storie diverse innestate nei modi meno prevedibili, e provocando un curioso feedback: molto spesso, infatti, le sue opere precedentemente “maledette” vengono regolarmente rimpiante a discapito di quelle attuali. E’ quello che accade quando molti recensori rivalutavano Mulholland Drive oppure il capolavoro “Strade perdute”, mandando le peggiori maledizioni contro INLAND EMPIRE, accusandolo di essere troppo distante dal pubblico, troppo soggetto a molteplici interpretazioni ed eccessivamente vaporoso nella sua struttura. Del resto da sempre proporre un’opera “difficile da capire” autorizza la critica, mediante un meccanismo che non ho ancora troppo chiaro, a far partire un tiro al bersaglio moralistico alla ricerca di difetti, trascurando malignamente qualsiasi valutazione di contenuti e di forma (vedi le reazioni negative all’uscita di Inferno di Dario Argento, ad esempio).
“…come nel buio di un teatro, prima che la scena si illumini”
Se la trama di INLAND EMPIRE è nella sua componente realistica piuttosto semplice: Nikki Grace, un’attrice sposata con un uomo piuttosto influente e pericoloso, riesce ad ottenere un ruolo (quello di Sue) in un film importante. Si tratta di un soggetto ripreso da un lungometraggio abbandonato a causa dell’omicidio dei due vecchi protagonisti, dal titolo “47” . Dopo qualche tempo finisce a letto con il coprotagonista Deron Berk (che interpreta Billy, ed è suo amante sia nel film girato che nella storia raccontata, a quanto pare), scatenando così una serie di allucinazioni spaventose. Nel frattempo le riprese del film proseguono senza sosta, mescolando spesso e volentieri quello che accade nella fiction con quello che avviene realmente tra Deron e Nikki. Sono le “conseguenze delle proprie azioni“, in concreto, ad essere il traino di tutto l’ intreccio di INLAND EMPIRE. La protagonista subisce infatti queste sconnesse visioni, in cui è impossibile capire cosa sia reale e cosa immaginato: incubi che sono dovuti al senso di colpa per quello che ha fatto (ammesso che l’abbia fatto davvero, o soltanto pensato), e alla reazione a catena che quel gesto ha causato (i rapporti difficili col marito Piotrek, forse anche la perdita di un figlio). Ciò nasconde la doppiezza (o la molteplicità) contraddittoria del carattere della mite Nikkie, che mostra progressivamente una natura ambigua e addirittura violenta. Lynch riesce a boicottare l’essenza hollywoodiana rigirando la frittata non sul fornello di una cucina, ma direttamente nella centrifuga di una lavatrice, inserendo una marea di riferimenti simbolici che lo rendono forse facilmente accusabile di fare cinema “per adepti”.
Tre sono gli elementi essenziali di INLAND EMPIRE: il grammofono che suona “Axxon N“, la “lost girl” (una prostituta) che piange guardando la TV e la famiglia di conigli antropomorfi, in cui il capofamiglia racconta di avere un “terribile segreto” da nascondere. Altro elemento essenziale è il valore profetico di alcuni personaggi, tra cui l’inquietante vicina che dice di sapere che l’attrice avrà una parte, e che la trama del film avrà a che fare con una relazione amorosa e con un omicidio. Laura Dern ha testimoniato in un’intervista che non conosceva i dettagli della storia durante le riprese, tant’è che Lynch ha cambiato le carte in tavola senza preavviso più volte, mettendo in scena i consueti doppi – nello specifico, due attori che recitano due parti – e mostrando un’immedesimazione profonda, che non fa capire se i due stiano recitando o vivendo sul serio le situazioni. INLAND EMPIRE inscena sottili analisi psicologiche, forse un po’ troppo cariche di richiami ad “altro” : “We are like the spider. We weave our life and then move along in it. We are like the dreamer who dreams and then lives in the dream. This is true for the entire universe“, è stato riferito come “indizio” da Lynch più volte, ed è tratto dal testo religioso-filosofico Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad. I richiami non sono mai, comunque, vuotamente auto-referenziali: alcuni magistrali primi piani, che fanno paura solo a guardarli, servono a dipingere magistralmente la confusione dei personaggi ma si presentano troppo spesso come semplici suggestioni. Non mancano, poi, momenti satirici contro la TV plastificata attuale: penso al serial coi conigli ed alle risate nei momenti più inopportuni, oppure all’intervistatrice che fa battute dal sapore trash ammiccando ad una relazione clandestina tra i due attori prima che la stessa avvenga. Se a questo aggiungiamo una punta di acredine nei confronti di Hollywood – basta ascoltare i primi mielosi dialoghi di “On High in Blue Tomorrows” per intuirlo – ci rendiamo conto che INLAND EMPIRE è un film “di nicchia”, fuori da qualsiasi standard anche del cosiddetto “buonsenso” (tre ore di film). E che tutto sommato, forse, il film che stavano girando non era poi così male, visti gli sviluppi successivi…
“È tutto ok, stai solo morendo”
L’impero interiore è, probabilmente, quello che tormenta un po’ tutti i protagonisti, vessati chi da difficoltà sentimentali (i due attori che vivono un’attrazione reciproca che nascondono malamente, e che esaltano attraverso la propria arte), chi da altre di natura economica (la prostituta con la faccia “censurata” all’inizio, oppure l’assistente alla regia Henry che ripete una frase dal sapore beckettiano: “sembra solo ieri … che riuscivo a badare a me stesso“). I conigli, poi, sembrano rappresentare in modo grottesco la famiglia di Devon (o Billy?), cosa visibile nel momento in cui Nikki (o Susan?) prova a telefonare a casa loro, con tanto di risate registrate anche lì. Un regno fantasioso e contorto in cui tutto diventa possibile, e che mescola vari livelli di realtà ed immaginazione. INLAND EMPIRE non è un capolavoro, e mi guardo bene dal dirlo: Lynch in questa circostanza ha giocato troppo sul disorientamento, su continui flashback (o flash-forward?) che appaiono pero’ disposti quasi a casaccio, e diventa difficile superare i tre quarti dell’opera senza volersi prendere quantomeno una pausa. Se da un lato è chiaro (?) che si vuole rappresentare il turbine di emozioni in conflitto della protagonista (una favolosa Laura Dern assieme ad un Justin Theroux ed un Jeremy Irons altrettanto all’altezza), forse è meno scontato pensare, ad esempio, che le nove “amiche immaginarie” rappresentino le multiple personalità di Nikki/Susan. Ciò diventa piuttosto evidente nei momenti in cui la donna, visibilmente turbata, schiocca le dita contemporaneamente alle proprie alter-ego che sembra vedere soltanto lei. Un espediente non certo innovativo ma molto efficace, utilizzato anche, ad esempio, da John Carpenter e James Mangold. Mentre quindi in “Strade perdute” Ghezzi aveva scomodato il nastro di Moebius per spiegare efficacemente l’intreccio, in questa circostanza non credo basterebbe un cunicolo spazio-temporale per capire qualcosa in più, ammesso che abbia senso provarci. Se la trama non scorre e non si hanno riferimenti, c’è poco da fare: il film non gira alla perfezione, il regista lascia troppe cose sul vago e, a mio parere, rischia di far degenerare l’opera in un vuoto contenitore. Un container di emozioni reali, di personaggi vivi, di certo non plastificato, sicuramente di spessore e girato con originalità, ma troppo carico di astrattismo e di “esercizi di stile” senza uno sbocco chiaro.
Sceneggiatura: Steve MacManus, Kevin O’Neill, Richard Stanley
Cast: Dylan McDermott, Stacey Travis, John Lynch
Anno: 1990
La terrà tremerà, e le masse avranno fame; ogni genere di dolore vi attende. Nessuna carne sarà risparmiata.
Personaggi di Hardware
Come previsto la legge sul controllo delle nascite è stata approvata, ed entrerà in vigore dal primo dell’anno.
Moses è il protagonista, piuttosto atipico, di questa storia: per quanto non abbia nulla di apparentemente diverso dal protagonista maschile che vediamo in media dentro quasi ogni film, mostra alcuni lati oscuri della propria personalità. Inevitabile: il mondo è corrotto, cambiato, irreversibilmente inquinato, cinico, insopportabile, e non si poteva non includere un qualche contagio emotivo. Possiede una mano meccanica, una protesi che gli è stata impiantata a causa di un incidente e che riesce a muovere autonomamente.
Lo spirito più cyberpunk del film è probabilmente espresso (al netto delle sequenze di combattimento uomo -macchina, che sono comunque numerose, molto scure come tonalità e quasi sempre cruente) dalla scena della doccia con Jill, in cui viene esibito chiaramente il dettaglio della protesi dell’arto destro, innestato per sempre nel suo organismo. Shades è la controparte di Moses, abbastanza sulla falsariga di un personaggio puramente gibsoniano (ha una dipendenza da allucinogeni) e ne rappresenta una sorta di co-protagonista.
Jill è un’artista creativa e indipendente, che lavora su particolari sculture meccaniche guidata da un’idea singolare: usare ferraglia trovata in giro per il mondo e farle assumere forme organiche, più vicine possibili a quelle degli esseri viventi. Che la meccanica fatta di ferraglia riciclata possa costituire una forma umana, o quantomeno biologica, è il sogno più profondo dell’era in cui è ambientato il film, ammesso ovviamente che i confini tra i due non siano nel frattempo diventati labili. Il personaggio esprime per tutto il film creatività e sensualità in eguale misura, facendone sfoggio in diverse occasioni. È un personaggio significativo anche perchè, in un momento specifico del film, afferma di non volere figli, ergendosi come anti-eroina indipendente e suscitando il fastidio di Moses.
Lincoln è il vicino di casa di Jill, cinico e maschilista, ossessionato dalla donna al punto di aver installato un telescopio a infrarossi in casa per spiarla: vede tutto, è un panottico umano in piena regola e si spingerà ad andare più volte a casa sua. Per quanto possa sembrare un personaggio secondario è, in effetti, uno dei più carichi di significato del film, in quanto rappresenta lo spettatore, il suo guardare per definizione, che sarà punito da un Super Io meccanizzato e implacabile nel modo più atroce. È il simbolo di ciò che i social network, per certi versi, sono diventati per noi oggi: pura ossessione voyeur regolamentata dalla tecnocrazia.
Il misterioso Nomade è, ancora una volta, un personaggio simbolico: si nutre della situazione contingente, vaga nel deserto a caccia di frammenti di androidi da rivendere sul mercato e guadagnarci. Rappresenta probabilmente l’istanza più ambientale del film, se vogliamo, in quanto è causa della storia, la apre e la chiude agendo da autentico mastro burattinaio. Viene interpretato dal cantante dei Fields of the Nephilim, Carl McCoy .
Mark 13: forma bio-meccanica auto-indipendente dotata di intelligenza artificiale
Trama
È Natale a New York, ed è ora di ricongiungersi con amici e parenti: l’unico dettaglio è che ci troviamo in un prossimo futuro, l’America è diventata un gigantesco deserto e la civiltà è quasi regressa allo stato primordiale. In un mondo contaminato dalle scorie nucleari, dal disastro climatico e da una politica sempre più cinica e indifferente, si muovono vari personaggi: un misterioso nomade a caccia di pezzi di robot da rivendere al mercato nero, un viaggiatore dotato di una protesi meccanica (una mano fatta di metallo), una scultrice che crea lavori su commissione sfruttando ferraglia di seconda mano, un proto-hacker che scopre che alcuni dei pezzi di androide che possiede sono, in realtà, armi militari avanzate. Stiamo parlando di Hardware di Richard Stanley, fantascienza d’epoca datata 1990: una fantascienza che deve parecchio all’horror, e che dall’horror prende ispirazione per le ambientazioni, il mood ed il ritmo generale (Stanley è fan dichiarato di Dario Argento, e racconta di essersi ispirato ai suoi film della prima era, oltre che a Deliria di Michele Soavi). Non mancano le suggestioni legate agli innesti metallici nei corpi umani, cosa che può avvenire in senso sia benevolo che malevolo: tali suggestioni sembrano pesantamente condizionate da alcune sequenze di Tetsuo, uscito nelle sale qualche mese prima di Hardware.
Hardware che non è, peraltro, uno dei film di fantascienza più noti al mondo, ma rientra a pieno titolo (e nel miglior senso possibile) nel panorama dei b-movie: le tematiche che tratta sono ancora attualissime, vivide, per quanto si possa parlare di una singolare retro-fantascienza, che deve parecchio al thriller/horror a livello di forma. I temi che tocca sono tipici della sci-fi più di concetto, le allegorie sono numerose ma non si tratta neanche della fantascienza filosofico-saggistica alla Cronenberg, per intenderci. Il tema del film è quello della rinascita, vista in modo originale attraverso gli “occhi”, la “percezione sensoriale” digitalizzata di un androide costruito segretamente come arma militare, che viene inavvertitamente riassemblato per poi rinascere, auto-alimentarsi, rigenerarsi e auto-ripararsi. È l’epitomo della tecnologia che non muore mai, è la macchina che non sente dolore, esegue freddamente il proprio compito, con esito inevitabilmente positivo: sia che si tratti di salvare una vita umana con la chirurgia robotizzata che, al contrario, di uccidere gelidamente un essere umano. È la macchina che – quando finalmente si spegne – induce il nostro sollievo, per quanto non possa aver razionalmente provato dolore nel morire.
Il cuore della trama ruota attorno all’androide, inizialmente scambiato per un semplice addetto alla manutenzione, che si rivela essere il feroce MARK 13 da combattimento. Un androide che si trova in casa della vittima e che si “sveglia” dal torpore per ricominciare ad uccidere: incredibile come quella che era soltanto una suggestione d’epoca possa tramutarsi, oggi, quasi in una minaccia concreta. Nei tempi di Alexa e dei robot avanzati della Boston Dynamics, questo ed altro. Il riferimento al Vangelo di Marco è il tocco di tecno-misticismo del film, il quale assume un significato profetico e, ancora una volta, allegorico: “La terra tremerà e le masse avranno fame; questi dolori vi aspettano, e nessuna carne sarà risparmiata.” è un chiaro riferimento all’intreccio, alla più classica delle profezie autoavveranti: il mondo è allo sbando, ma questo solo perchè siamo stati noi a volerlo.
Hardware è una gemma avvenieristica novantiana, un unicum assoluto al netto di un doppiaggio italiano forse un po’ grossolano, ma che resta di culto anche perchè il regista non esita a esporre le proprie riflessioni, soprattutto nella parte conclusiva del film, dove MARK 13 diventa una metafora del potere oppressivo, del potere che manipola l’opinione pubblica e sacralizza l’idea di utilizzare gli automi per il controllo delle masse. L’idea alla base del film, peraltro, presuppone un’invasione di androidi finanziati dal governo su larga scala per ridurre la presenza umana e porre un limite alla sovrappopolazione mondiale, all’epoca una delle più grandi preoccupazioni che l’intreccio ha contaminato, neanche a dirlo, con le paure appena vissute da Guerra Fredda. Estremizzando, si potrebbe immaginare un mondo a venire interamente presenziato dalle macchine, in cui l’uomo possiede un ruolo sempre più marginale e che realizza la filosofia accelerazionista formulata in particolare da Nick Land, nella sua accezione più apocalittica. Come al solito, la fantascienza di ieri è diventata neanche troppo difficilmente l’eventuale ipotesi di complotto di domani.
MARK 13 è, dal canto suo, un androide quasi più feroce di Terminator, subdolo e imprevedibile, un insetto letale che ti ritrovi in casa e non riesci a mandare via, e sei ancora più terrorizzato dall’idea di ucciderlo a tua volta. Hardware esprime l’eterna lotta uomo-macchina con spirito pioneristico e coraggioso, e facendo ricorso a scene quasi sempre nella semi oscurità, scelta che ha reso cult l’opera e, per dirla tutta, abbastanza insopportabile per alcuni spettatori. Una lotta che, come sappiamo, continua implicitamente fino ad oggi, e che abbiamo probabilmente interiorizzato da allora.
La TV del futuro
In Hardware – Metallo letale troviamo un mondo contaminato dalle radiazioni, per cui le trasmissioni del futuro si sono adeguate all’andazzo: telegiornali che annunciano la morte di centinaia di persone come se nulla fosse, si vedono pubblicità kitsch di carne non radioattiva e predicatori religiosi che si augurano pubblicamente di poter schiacciare tutti gli hippie e i beatnik. Ancora una volta, profezia del passato che si auto-avvera nel presente, nella realtà in cui viviamo, col virtuale del film che è diventato in gran parte realtà. La rielaborazione mediatica fatta da Stanley vede tra gli altri Iggy Pop che interpreta un grottesco speaker radiofonico che ironizza cinicamente sulla sorte sciagurata del genere umano.
Da un punto di vista tecnologico, questa fantascienza di inizio anni Novanta presenta varie primizie tecnologie: si lavora ancora con i circuiti in voga fino agli anni Ottanta, ma si prevedevano sia le videochiamate che la vera e propria domotica, ovvero elettrodomestici programmabili dall’uomo. Per certi versi MARK 13 assume quasi la valenza di un elettrodomestico “impazzito” perchè ritenuto innocentemente tale. L’interpretazione della sua crudeltà innata, a mio parere, non va intesa in senso letterale, semplicistico ed esternalizzante: non è la macchina che si ribella all’uomo, bensì è l’uomo ad averne sottovalutato la portata.
Le macchine non hanno alcuna fantasia, eseguono schemi fissi.
Il telescopio
Hardware potrebbe tranquillamente definirsi un film retro-futurista: questo per via del curioso connubio tra tecnologie elettro-meccaniche e scenari futuribili, i quali oggi appaiono più minacciosi che mai. Questo perchè la rovina del mondo è stata determinata dalla siccità che ha reso mezzo mondo un deserto, dal cambiamento climatico che ha costretto i tassisti della città a dotarsi di barche, da una guerra nucleare che ha contaminato radioattivamente la terra: sono le preoccupazioni che viviamo ogni giorni, inesorabili, a cui assistiamo spesso inermi, deprivati dell’idea di una qualsiasi reazione.
Il voyeurismo di Hardware
La società di Hardware non è solo degradata, oscura e post-apocalittica: è anche una società in cui guardare è un piacere feticistico che sostituisce, in molti casi, il contatto fisico interpersonale. Le radiazioni rendono i contatti tra estranei poco consigliabili (lo vediamo quando Jill accoglie sss inizialmente con diffidenza, sottoponendolo a scansione), per cui guardare con un telescopio come fa il personaggio di sss evoca due aspetti: quello legato al voyeurismo e al cybersesso, naturalmente, ma anche ad una forma di stalking della vittima, che qui viene “profetizzato” nel momento in cui il vicino guardone bussa al videocitofono di Jill mostrando solo un occhio, dopo essersi eccitato a spiarla nell’intimità.
Sono aspetti, peraltro, destinato ad auto-avverarsi ancora nel nostro presente: le webcam che subiscono attacchi informatici e diventano strumenti per spiarci nell’intimità, il sesso a distanza offerto dalle sex worker nel periodo della pandemia, la minimizzazione mediatica della complessità delle problematiche politiche, sociali e ambientali in nome della divina audience (che oggi rivive sulla pelle di ognuno, rendendoci narcisisti sui social network).
Interpretazione e spiegazione del film
Non sembra casuale, a questo punto, che il Super Io robotico (figurativamente rappresentato dall’androide MARK 13 programmato per sterminare il genere umano, iniettandolo un veleno che uccide all’istante) faccia giustizia sull’Es perverso e corrotto del voyeur, mentre l’Io di Jill assiste inerme alla macabra esecuzione. È la rivalsa simbolica della tecnocrazia sul genere umano, ormai sregolata ad ogni latitudine (da quella politica a quella sociale e sessuale), e si erge a spaventoso monito sulle nostre esistenze fino ad oggi. Possiamo – e dovremmo – accettare il progresso tecnologico, perchè opporsi significa ignorare gli aspetti positivi e più progressisti, concedendoci tragicamente in pasto alla macchina.
Al tempo stesso, poi, non possiamo ignorare le profezie macabre di Stanley, costruendo un mondo nuovo in cui l’umano abbia il proprio posto nel mondo senza mai cedere agli istinti egoistici di dominio sull’altro, alle pulsioni guerrafondaie di ogni ordine e grado nonchè, naturalmente, alla distruzione programmatica dell’ambiente in nome del capitalismo.
Cos’è il robot Mark 13
Mark 13 è un’arma robotica progettata per la guerra, che si trova accidentalmente attivata e riattivata in un mondo desolato e decadente. È un monito potente a fare attenzione alla tecnocrazia, che squillava con vigore già all’epoca.
Il Mark 13 è un’entità robotica aggressiva e apparentemente inarrestabile, creato con lo scopo di uccidere l’uomo per ridurne la capacità di riproduzione, anche grazie ad una specifica legge per il controllo delle nascite. Il robot incarna la paura dell’eccesso tecnologico e delle conseguenze negative della creazione di armi avanzate che possono sfuggire al controllo umano.
C’è anche l’idea paranoica – che oggi è diventata ipotesi di complotto, ancora una volta – che il governo abbia deciso di risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale ricorrendo ad una serie di robot killer, i quali possano dare fine al genere umano e rimpiazzarlo con macchine (come nella visione apocalittica espressa dal primo Nick Land, per intenderci). L’unica salvezza, ovviamente, è non perdere la propria umanità. Nel tentativo di accelerare l’evoluzione sociale attraverso una catastrofe pianificata, il governo concepisce il Mark 13 come un’arma di distruzione di massa in grado di annientare le masse sovraffollate.
Questo robot letale viene attivato in modo deliberato e guidato verso le zone più densamente popolate del pianeta, dove svolge un ruolo chiave nell’implementazione del genocidio, e il sospetto viene alimentato da uno dei personaggi mediante un versetto biblico (Marco, 13:20; nessuna carne sarà risparmiata, citazione che possiamo leggere all’inizio del film).
Musicisti presenti nel film
Tra gli ospiti speciali del film ci sono alcuni musicisti:
Iggy Pop: il disc jockey radiofonico nel film.
Lemmy Kilmister: il tassista che sfoggia “Ace of spades” nell’autoradio.
Carl McCoy: Il frontman della band goth Fields of the Nephilim appare nel film nella veste del Nomade post-apocalittico.
“Pleasantville” è un film del 1998 diretto da Gary Ross. La trama del film ruota attorno a due adolescenti, David e Jennifer, interpretati rispettivamente da Tobey Maguire e Reese Witherspoon, che vengono magicamente trasportati all’interno di un programma televisivo in bianco e nero degli anni ’50 chiamato “Pleasantville”.
Nel mondo di Pleasantville, tutto è perfetto, ordinato e apparentemente privo di conflitti. Tuttavia, quando David e Jennifer arrivano, iniziano a influenzare il mondo circostante introducendo idee e cambiamenti che sfidano il conformismo e la rigidità della società dell’epoca. Col passare del tempo, il colore inizia a emergere nel mondo in bianco e nero del programma televisivo, simboleggiando l’apertura alla diversità, all’individualità e all’esplorazione della sessualità.
Il film affronta temi come l’importanza dell’individualità, la sfida alle norme sociali, l’accettazione delle differenze e la comprensione dell’importanza della conoscenza e dell’esperienza. La trama serve anche da metafora per esplorare il cambiamento sociale, il razzismo, la sessualità e l’evoluzione culturale.
Cast
Il cast principale di “Pleasantville” include diversi attori noti. Ecco alcuni dei membri del cast e i personaggi che interpretano nel film:
Tobey Maguire: David / Bud Parker
Reese Witherspoon: Jennifer / Mary Sue Parker
Joan Allen: Betty Parker / Joan Allen
William H. Macy: George Parker / William H. Macy
Jeff Daniels: Bill Johnson / Jeff Daniels
Don Knotts: TV Repairman / Don Knotts
J.T. Walsh: Big Bob
Paul Walker: Skip Martin
Marley Shelton: Margaret Henderson
Jane Kaczmarek: David e Jennifer’s Mother
Giorgio Cantarini: Lover’s Lane Guy
Jenny Lewis: Christinains / Girl in Car
Marc Blucas: Basketball Hero
Questi sono solo alcuni dei membri del cast del film “Pleasantville”. Ognuno di loro contribuisce alla rappresentazione dei vari personaggi nel mondo in bianco e nero di Pleasantville e nel mondo a colori che evolve man mano che la storia si svolge.
Sulla regia
Il regista del film “Pleasantville” è Gary Ross. Il film è stato scritto e diretto da lui ed è stato rilasciato nel 1998. Gary Ross è noto anche per aver diretto altri film come “Seabiscuit – Un mito senza tempo” e “Hunger Games”.
Spiegazione del film (spoiler alert)
Il finale di “Pleasantville” è ricco di significati e simbolismi che riflettono le tematiche del film. Verso la fine del film, il mondo di Pleasantville è passato da uno stato in bianco e nero a uno a colori, simboleggiando la trasformazione sociale e culturale che si è verificata nella comunità. Questo cambiamento è avvenuto a causa dell’influenza delle nuove idee, della conoscenza e dell’apertura alla diversità introdotti dai protagonisti, David e Jennifer.
Il passaggio al colore rappresenta l’abbattimento delle barriere sociali e culturali che limitavano l’espressione individuale, la sessualità e la creatività. Rappresenta anche l’accettazione delle emozioni umane complesse e dei conflitti che prima erano repressi. Questa trasformazione simboleggia il progresso e il cambiamento necessari per una società più inclusiva e aperta.
Inoltre, il cambiamento nei colori riflette anche il processo di crescita personale e di scoperta attraverso l’esperienza. I personaggi nel film imparano a essere veramente se stessi, a esplorare la loro individualità e a connettersi con gli altri in modi autentici. La diversità di idee e identità viene finalmente abbracciata.
In sintesi, il finale di “Pleasantville” trasmette un messaggio di speranza, cambiamento e progresso, sottolineando l’importanza dell’apertura mentale, dell’accettazione delle differenze e dell’esplorazione personale.
Omonimie
“Pleasantville” è il titolo di una canzone dell’artista indie pop Dodie Clark. Tuttavia, la canzone non è stata inclusa in uno dei suoi album ufficiali, ma è stata pubblicata come singolo indipendente nel 2013. La canzone riflette sul tema della ricerca dell’innocenza e della purezza in un mondo complesso e spesso confuso. La canzone potrebbe non essere molto conosciuta a meno che tu sia un fan dell’artista o del genere musicale indie pop.
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