Salvatore

  • L’invasione degli ultracorpi e lo specchio capovolto

    L’invasione degli ultracorpi e lo specchio capovolto

    Una malattia mentale misteriosa sembra aver contagiato varie persone: il sospetto che ci sia qualcosa di reale all’interno di una apparente psicosi colletiva convince sempre di più un medico della città.

    Dr. Miles Bennell/Kevin McCarthy (Photo by Allied Artists/Getty Images)

    Se c’è una cosa che spesso fa riflettere nei vecchi film d’annata è la sostanziale (più ingenua, poco elaborata, a volte spicciola, senza dubbio differente da oggi) percezione della realtà, percezione che sceneggiatura e regia, in primis, dovevano aver avuto. Difficile del resto trovare un film di fantascienza più archetipico di questo, in tal senso – quanto meno tra i titoli più pop: un film che si apre lateralmente con il botto, e ci mostra quello che sarà il protagonista della storia, considerato pazzo per qualcosa che ha detto, o teme di aver visto. Certamente le diagnosi di pazzia di oggi sarebbero parecchio diverse, ed è anche corretto che ci sia una maggiore sensibilità sul tema psichiatrico in generale, tanto che viene da pensare che un film come Il corridoio della paura non uscirebbe mai oggi, o uscirebbe tra interminabili polemiche sui social.

    L’etichetta di “pazzo” oggi andrebbe attribuita con una certa cautela, giustamente: a differenza di quanto avvenisse all’epoca quando, più e più volte, veniva utilizzato come escamotage narrativo per creare i presupposti di miriadi storie del genere (viene in mente Invaders from Mars, un prodotto ottantiano in cui venivano criticati l’eccessivo disincanto e l’apatia del mondo degli adulti, così come avviene anche in Nightmare). Il folle di questo film è un folle che soffre di insonnia, letteralmente, perchè non accetta il conformismo generale e si mantiene sveglio per evitare di essere ghermito dagli alieni durante il sonno.

    Un ultracorpo si guarda allo specchio (DALL E)

    La sequenza iniziale del protagonista che afferma una verità clamorosa che il pubblico ancora non conosce, e che non viene creduta, è archetipica, per forza di cose, e crea frustrazione o apprensione in chi guarda, nonostante siamo ancora ai primissimi fotogrammi e l’unico antefatto che abbiamo visto è una macchina della polizia. Creare più sospensione di così era impossibile, dato che nulla ancora si è ancora visto: cosa è successo di preciso?

    Il film prosegue sulla falsariga di un flashback di ciò che è il protagonista che dice di essere un medico afferma di aver visto, in un crescendo di tensione e di persone comuni che ritrovano prima dei corpi clonati di se stessi e poi, addirittura, dei giganteschi baccelli (pods) in cui tali cloni vengono coltivati, nelle serre come nel terreno agricolo. Gli ultracorpi (traduzione di body snatchers, letteralmente ruba-corpi o pod people, nel gergo che poi sarebbe stato reso celebre dal film più famoso di Don Siegel) stanno invadendo la terra, e si nascondono tra gli esseri umani mediante questo singolare e memorabile stratagemma.

    Quando sarà finito, che faccia avrà? Rispondimi! Che faccia avrà?

    Il dottor Bennel è l’eroe archetipico che si accorge, primo e unico fra tutti, del pericolo a cui l’umanità è esposta, facendo quasi tutto di propria iniziativa e ponendosi come simbolo del risveglio delle coscienze dall’apatia. L’invasione degli ultracorpi resta una fantascienza essenzialmente mentale, misteriosa e concettuale, che si sviluppa come un noir (la voce del protagonista che racconta i fatti a titolo di narratore onniscente) e per cui non si vede nulla di propriamente fantascientifico in quanto tale. L’attributo “mentale” non è casuale, in ogni caso, perchè fin dalle prime mosse vediamo un personaggio raccontare della propria cugina che non riconosce più il proprio padre: una sindrome di identificazione errata rara quanto realmente esistente (sindrome di Capgras).

    Il caso non è isolato: poco dopo il medico protagonista si imbatte in un ragazzino che non riconosce o diffida della propria madre, manifestando la paura di essere catturato a sua volta. Ciò che viene presentato come patologia mentale è in realtà afferente al reale, e sarà compito dell’eroico (quanto incompreso) protagonista occuparsene per salvare il mondo. La recitazione composta e teatrale degli interpreti contribuisce alla costruzione di un film invecchiato benissimo, se rivisto oggi, tratto dal romanzo di Jack Finney del 1955 sempre con lo stesso nome, L’invasione degli ultracorpi: un cardine della fantascienza paranoica di ogni tempo e luogo.

    In termini sociologici L’invasione degli ultracorpi aiuta a leggere la realtà in cui vivevamo, già ai tempi in cui uscì. Ad esempio vale la pena di osservare, tra le altre cose, come i primi cento casi di nevrosi riferiti nel film siano attribuiti ad una causa precisa: “preoccupazione, nervi scossi” (secondo il cauto doppiaggio italiano), “preoccupazioni per ciò che sta succedendo nel mondo” (secondo una traduzione più precisa dalla lingua originale). Profezie che raccontano di come le tragedie globali possano influenzare le vite dei singoli (gli stessi che poi, per intenderci, non vanno neanche a votare perchè “tanto non cambia nulla“) che se riviste minuziosamente oggi (eravamo negli anni cinquanta, in piena Guerra Fredda) più che profezie sono racconti auto-riferiti, al limite profezie che si autoavverano. Un genere umano che si sente in colpa per i danni che provoca ai propri simili, rimasto radicato a superstizioni e credenze, contrapposizioni sterili e tutto ciò che ne consegue, e che ha smarrito il senso civico e di partecipazione alla vita vivendo passivamente i propri giorni. Secondo la lettura del regista Don Siegel, per amor di cronaca, nessuno per la verità aveva mai pensato “ad un qualunque simbolismo politico. Nostra intenzione era attaccare un’abulica concezione della vita”, una frase di culto a cui i soliti critici politicizzanti, ne siamo certi, attribuiranno lo stesso, comunque la giri, una valenza politica. Si attacca concettualmente, con quest’opera, la stessa indolenza che si raccontava anni dopo in un film quale 2022 I sopravvissuti, fantascienza post-umana e distopica tanto da sembrare reazionaria, per certi versi.

    La straordinaria regia di Don Siegel si evidenzia in tantissime sequenze di culto: la scoperta dei baccelli alieni nella serra di uno dei personaggi, i momenti da film romantico in cui emerge la nobiltà d’animo del protagonista contrapposta alla passività del resto del mondo, la sequenza di culto in cui il medico e la donna assistono dalla finestra alla distribuzione dei baccelli tra la popolazione, che si muove esattamente all’arrivo della polizia convergendo passivamente verso la stessa. Sono scene difficili da dimenticare, che restano impresse e ci ricordano di restare umani, per quanto questo messaggio sia ormai stato corrotto e banalizzato, nella realtà di oggi, da qualcosa che se non è un germoglio alieno potrebbe assimilarsi a qualcosa di simili (l’indifferenza, il cinismo ostentato).

    L’invasione degli ultracorpi rappresenta inoltre la disgregazione sistematica della fase dello specchio lacaniana: il momento in cui ogni bambino forma il proprio Io, una fase gioiosa che avviene solitamente sorridendo alla propria immagine riflessa. Qui viene capovolto e degenerato il concetto: ogni uomo ritrova un replicante alieno a propria immagine e somiglianza in cui, ovviamente, non può riconoscersi. L’alieno non solo lo imita nella forma biologica, ma ambisce addirittura a prendere il suo posto, a usurparne il trono. È l’uomo che non sa più riconoscersi nell’Altro e ne diffida passivamente, e sono i presupposti da cui era nato un altro cult d’epoca, uscito qualche anno prima, La cosa da un altro mondo (1951, reso poi celebre da John Carpenter negli anni ottanta).

    La morale del film è a questo punto tutt’altro che inconsistente: il mondo appare diviso da diffidenza reciproca, dove ogni buon americano diffida dal proprio vicino o parente rifiutando di riconoscerlo. Questo esasperato disconoscimento avrebbe una causa psico-somatica in qualsiasi altro contesto, ma non qui: Don Siegel mostra un medico razionalista quanto guidato da una premonizione, che nota qualcosa di strano nel mondo che risulta familiare e terrorizzante al tempo stesso. Non un azzardo pensare, a questo punto, agli ultracorpi come elementi perturbanti per eccellenza. Non è un azzardo pensarci anche perchè, a ben vedere, la sostituzione progressiva degli alieni agli uomini avviene durante il sonno, il che rappresenta lo stesso piano immaginifico in cui si muoveva Freddy Krueger, spaventoso a livello onirico quanto, anch’esso, non creduto dai più nella realtà.

    Del resto anche quel finale – solo apparentemente nichilistico – riserva un barlume di speranza: messa alla strette la sua stessa sopravvivenza, l’umanità può ancora trovare un modo per rigenerarsi e tornare umana. Atteggiamenti e parole che pesano, viste oggi, sia pur viziate da esigenze di produzione che all’epoca imposero un finale ottimistico per piacere al grande pubblico. Nel finale originale, il film si chiudeva sulla sequenza in autostrada in cui il dottore è perseguitato dagli ultracorpi e, rimasto solo, cerca di fermare gli automobilisti che non credono alla sua storia. La frase che concludeva il film nelle intenzioni del regista è “you’re the next!“, voi siete i prossimi, mentre il finale in ospedale e l’antefatto vennero di fatto imposti dalla produzione dell’epoca.

  • Topi presi a martellate, slapstick e Descartes

    Episodio: Sex and Violence – Ep. 1.2 (“Monty Python”, 1969)

    Il secondo episodio del Flying Circus va in onda il 12 ottobre 1969, registrato nel mese di agosto dello stesso anno. Se nell’episodio precedente era ricorrente il maiale, questa volta tocca alla pecora. L’episodio è un collage di elementi separati tra di loro, che qualcuno riconduce alla tecnica narrativa del flusso di coscienza e che, in realtà, si è già spinta oltre ogni limite. Già in questa seconda puntata, infatti, vediamo personaggi ed elementi affacciarsi in contesti che gli sarebbero estranei (un cowboy nella Londra di oggi, un ring all’interno di uno studio televisivo), con un effetto di straniamento comico realmente da manuale.

    In particolare nel primo sketch (Flying Sheep) troviamo un pastore ed un business man inglese che osservano uno strano fenomeno: un gruppo di pecore – guidate da una particolarmente ambiziosa, ci raccontano – che si sono messe in testa di poter volare (con risultati disastrosi, ovviamente). Segue un singolare siparietto (French Lecture on Sheep-Aircraft, che utilizza la tecnica del grammelot) di John Cleese e Michael Palin, che impersonano due eccentrici artisti francesi che spiegano – con l’ausilio di un collage realizzato da Gilliam – come una pecora possa volare. Poco dopo, si ricollegano a modo proprio il gruppo di signore già visto nell’episodio precedente, che questa arrivano a citare Descartes. Successivamente, è la volta dell’uomo con tre natiche (A Man with Three Buttocks), una parodia di talk show che ridicolizza le manie gossippare e voyeuristiche della TV già all’epoca. Il presentatore, inizialmente in imbarazzo per l’argomento trattato, sembra più curioso di guardare le tre chiappe dell’ospite che di condurre in maniera accattivante.

    Un secondo presentatore ci introduce al fenomeno del momento (Musical Mice): Ken Ewing, in grado di suonare “The bells of St. Mary” prendendo 23 topolini a martellate. Il successivo sketch è tra i migliori della puntata: Marriage Guidance Counsellor racconta di un consulente matrimoniale che accoglie un marito geloso della procace consorte (ed è la prima volta che compare nello show Carol Cleveland, l’unica donna del gruppo). L’intera scena si basa su uno spassoso paradosso: mentre Arthur Pewty racconta la propria storia con dovizia di particolari, il consulente seduce la donna e se la porta a letto (e a nulla serve la figura di un cowboy che invita l’uomo a combattere).

    The Wacky Queen racconta della Regina Vittoria e del suo incontro con il poeta Alfred Lord Tennyson, risalente al 1880 ed in stile slapstick puro (Chaplin, Stanlio & Ollio: molte situazioni, come lo steccato dipinto, sono prese direttamente da lì). Working-class playwright introduce un nuovo elemento, quello dell’inversione delle caratteristiche dei protagonisti, che sarà anch’esso tipico dell’umorismo surreale dei Python: vediamo un figlio che torna a casa a trovare i genitori, con una situazione è diversa da quella che potrebbe sembrare. Il padre infatti è un commediografo, mentre il figlio è andato via di casa per inseguire il sogno di lavorare in una miniera di carbone. L’autoritaria figura paterna, peraltro, entra subito in contrasto col figlio perchè si ubriaca a suon di romanzi. E visto che l’uomo con nove gambe è appena scappato, è la volta dello scozzese a cavallo, altro personaggio parodistico che tornerà spesso in episodi successivi. Prosegue puntata The Wrestling Epilogue, un brevissimo e surreale talk show, in cui un cardinale ed un professore si confrontano (su un ring, a suon di wrestling) sul tema dell’esistenza divina. Segue un breve segmento animato con la sequenza del passeggino cannibale, ed una celebre opera d’arte usata come ocarina. Si conclude la puntata con The Mouse Problem, anche qui un esempio del meccanismo di sostituzione classico dei Monty Python: si rimpiazza l’elemento di difficoltà sociale (sessualità, alcool, droghe) con qualcosa di concreto, cioè un topo. Il risultato è una parodia degli show-verità con intervista all’interessato (tipicamente dal tono didascalico o moralista) in cui l’uomo racconta di come abbia deciso di diventare un roditore. Seguono gli esempi dei personaggi storici che avrebbero voluto essere dei topi, e l’immancabile opinione (sgarbata e fuori luogo) dell’uomo della strada.

    Sex and Violence è, alla luce dei contenuti, certamente uno degli episodi più riusciti che abbiano realizzato.

    Le 45 puntate del Flying Circus sono disponibili, in inglese sottotitolato in italiano, all’interno di un bel cofanetto in 7 DVD, che trovate facilmente su Amazon: Monty Python’s – Flying circus (complete series).

  • Berberian Sound Studio: meta-horror concreto e accattivante

    Gilderoy è un fonico inglese inviato a Roma per lavorare ad un film. Una volta sul posto, si rende conto che qualcosa non va: l’atmosfera è tesa, il rimborso del suo viaggio tarda ad arrivare e la pellicola non è ciò che si aspettava.

    In breve. Meta-horror semplice ed originale, relegato ad una dimensione surrealista. Un terrore che si trova ad essere, atipicamente, di parola: difficile da raccontare quanto affascinante.

    Il curioso titolo del film fa riferimento al mezzosoprano Cathy Berberian, cantante lirica virtuosa e moglie del musicista (pioniere dell’elettronica sperimentale) Luciano Berio. Quest’ultimo pare abbia molto influenzato lo stile di Strickland, che racconta la storia mediante una sequenza minimalista (e dai tratti surreali) di scene. In esse è facile seguire la storia ma è difficile, al tempo stesso, cogliere il senso della condizione kafkiana del protagonista. Ad ogni modo Berberian Sound Studio non compare mai nei titoli di testa: all’inizio vediamo infatti il nome del film oggetto della storia, Il vortice equestre che sembra essere, fin dall’inizio, una storia di stregoneria. Non viene volutamente chiarita la cosa, a questo punto, ed il film nel frattempo prosegue con quest’aura di mistero e di curiosità indotta.

    Strickland dirige, atipicamente, un thriller visto da “dietro le quinte”, in particolare dall’ipotetico studio di doppiaggio di un horror italiano anni ’70: luogo in cui, in modo impeccabile, vengono mostrati (ed omaggiati) i trucchi del mestiere degli effettisti dell’epoca. Il tutto assume quasi la parvenza di un rituale religioso, un rispetto omaggio ai maestri del genere (da Mario Bava in poi) e, per assurdo, quasi a discapito dell’intreccio, il quale assume un’importanza molto contenuta (quanto giustificata, tutto sommato). Le scene gore e splatter, ad esempio, vengono fatte sentire (e non mostrate!) in modo quasi documentaristico; delle urla delle streghe torturate nel fake horror Il vortice equestre vediamo solo le smorfie di dolore delle doppiatrici. E per qualche straniante motivo, inducono tensione e fanno paura lo stesso. Il senso dell’ambizioso progetto di Strickland rimane criptico per molti minuti: il tutto fino alla rivelazione che, probabilmente, ogni personaggio si stava già rivedendo nel film stesso.

    Berberian Sound Studio (…o forse Il vortice equestre!) viene diretto con classe e conoscenza del genere dal regista, grazie all’uso abbondante di dettagli e primi piani, ironizzando sui modi composti del protagonista contrapposti a quelli burberi di tutti gli altri. Dal punto di vista degli appassionati del genere, poi, viene mostrato l’ingegnoso riutilizzo di martelli, padelle e coltelli, qui usati per distruggere ortofrutta di ogni tipo (ovviamente per simulare il suono delle scene più macabre: cadute rovinose, capelli strappati, torture con ferri roventi e via dicendo).

    È tutto finto, lo sappiamo bene, ma è difficile non farsi percorrere da un brivido lungo la schiena mentre vediamo Gilderoy attraversare questo mondo che non conosceva, e soprattutto (scena molto emblematica) trafiggere con malcelato gusto un cavolo, mentre sonorizza una delle scene più complesse (e mentre, forse, il confine tra la sua follia e lucidità sembra essere stato smarrito per sempre).

    Nel mentre, vengono evidenziati i rapporti esclusivamente conflittuali tra i personaggi (basati quasi sempre su rapporti di potere, soldi, sesso e prepotenza), personaggi che sono quasi tutti sulfurei e misteriosi oppure, al contrario, cinici e zoticoni. Dell’horror incluso nella trama, Il vortice equestre (che a più riprese e per varie assonanze richiama Suspiria) non scorgiamo ancora nulla. Vediamo solo un gruppo di produttori, tecnici o registi privi di scrupoli, abili solo a procacciare nuove doppiatrici (non certo per meriti artistici), e cercare nervosamente di finire il doppiaggio di un film che degrada, lentamente, in una spirale mostruosa, della quale è impossibile scorgere l’inizio e la fine. Quasi un nastro di Moebius, a questo punto, nel quale anche il mite Gilderoy sembra destinato a smarrirsi per sempre.

    Un meta-horror, quindi, perchè racconta la storia del genere usando le situazioni e gli strumenti dello stesso, doppiato pazientemente scena dopo scena, di cui all’inizio non vedevamo nulla – salvo improvvisamente accorgerci che lo stavamo già guardando.

    E qui l’omaggio, oltre ai maestri dell’horror nostrano come Argento e Fulci (senza dimenticare Angoscia di Bigas Luna ed il Lamberto Bava di Demoni), si deve a John Carpenter ed alle sue intuizioni meta-cinematografiche, ovvero Il seme della follia, film che viene omaggiato abbastanza chiaramente in una sequenza: quella in cui Gilderoy vede se stesso aggredito dal killer, e da allora inizierà a non parlare più in inglese. Ulteriore peculiarità di Berberian Sound Studio, infatti, è che si tratta di un horror di parola nel senso stretto del termine – e viene in mente l’analogo Pontypool, a questo punto – che viene anche recitato in due lingue: italiano ed inglese, che ogni personaggio parla più o meno fluentemente (per necessità di trama, ovviamente, non per vezzo). Un dettaglio, quest’ultimo, molto interessante ed originale, che se da un lato ha contribuito a rendere unico questo film, dall’altro, probabilmente, ha frenato un po’ la sua fama, soprattutto rispetto al pubblico che (senza doppiaggio e/o sottotitoli in italiano) non vuole saperne di vedere film.

    Reazione curiosa, tutto sommato, per un film che racconta una storia ambientata proprio in una cabina di doppiaggio.

  • Nero criminale di Pete Walker è il thriller settantiano semi-dimenticato

    Edmund e Dorothy Yates sono una coppia condannata a 15 anni di manicomio: trascorso questo periodo, rientrano a casa ed apparentemente riprendono una vita normale. La figlia e la figliastra, rispettivamente, rientreranno presto a contatto con loro…

    In breve. Un cupo thriller settantiano in crescendo, che vira verso l’exploitation fino ad una conclusione grottesca e delirante; abbastanza sottovalutato da pubblico e critica, contiene spunti interessanti ed è, per certi versi, considerabile un cult.

    Questo film di Pete Walker, regista inglese di b-movie prevalentemente horror, si pone sulla scia dei thriller sugli psicopatici che uscirono all’epoca: basterebbe citare Il mostro della strada di campagna, uscito qualche anno prima, con cui questo lavoro presenta qualche affinità. Se ne caso del film di Fuest si poteva parlare di pre-slasher, in questo di Walker gli omicidi servono a porre il problema sociale del reintegro nella società dei malati di mente.

    Rinunciando all’etica del politically correct, Walker mostra la storia di una coppia condannata per cannibalismo, che vive internata in un manicomio quindici anni per poi essere rimessa in libertà: la coppia ha una figlia naturale che non li conosce, ed una figliastra che se ne prende cura e fa di tutto per nasconderglieli. Per quanto si scoprirà, Dorothy Yates in realtà non è mai guarita; il marito, mite ed apparentemente sano ma preda di incontrollabile devozione coniugale, continua a coprirne le efferatezze; la figliastra è vittima, nonostante tutto, dei propri legami affettivi e coniugali. Ci sarebbe abbastanza perchè un film del genere scatenasse il putiferio in termini di discussioni, eventuali accuse di reazionarietà (il messaggio del film sembra chiaro: il reintegro dei malati è inutile e dannoso) e richieste di censura e messa al bando; cosa che non sembra essere successa, probabilmente perchè si sono sempre evidenziati i limiti della produzione, che è da onesto b-movie e non particolarmente sorprendente sul piano degli effetti speciali o della narrazione/ritmo. Se uscisse oggi, un film come Nero criminale provocherebbe polemiche taglienti e distruttive a cominciare dall’ambiguità brutale della traduzione del titolo (dal sapore vagamente razzista, per quanto puramente accidentale).

    Eppure “Nero criminale” rimane un film di discreta qualità, pur nei suoi limiti di genere, che sa presentare una lucida discussione sul tema, sfruttando il linguaggio dell’horror ed una narrazione gradevole, con buone interpretazioni ed una punta di biasimo, inevitabile, nei confronti delle istituzioni. Non c’è dubbio che dai personaggi di questo film, a cominciare dall’inquietante madre-criminale nonchè veggente – che sembrerebbe, stranamente per un film del genere, possedere reali poteri sovrannaturali – esca fuori un quadro pessimista sull’uomo e sulla sua natura. Lo dimostra l’episodio dello psichiatra, il personaggio in cui il pubblico tenderà ad identificarsi e che ne uscirà piuttosto male.

    Le due figlie della coppia possiedono polarità opposta e funzionano grandemente: la prima sembra accomodante, vuole voler evitare il discorso e vivere in un comodo conformismo, puntando ad una propria vita “normale”. La seconda è puramente antisociale, difficile e dall’attitudine violenta, che scoprirà casualmente un’insano feeling con i genitori che la sorella le aveva tenuto, di fatto, nascosti. Non si vedrà granchè a livello di sangue, è bene specificarlo: questo nonostante le tematiche exploitation e nonostante, soprattutto, si capisca quasi sempre quello che sta succedendo: Walker dosa con cura le scene di violenza, e questo contribuisce a creare un clima di terrore a volte accennato e forse più intenso di quello esplicito. Inutile sottolineare, poi, che sia Craven (che usò spesso l’horror come rappresentazione dei mali sociali e della criminalità) che soprattutto Hooper (con la sua famiglia cannibale e le ormai celebri cene grottesche e cannibaliche) si possano trovare forti punti di contatto con queste tematiche.

    Nero criminale è in definitiva un buon film di genere anni 70, annoverabile tra i b-movie d’epoca e, per questo, con tutti i limiti ed i difetti di questo tipo di produzioni; uscito in un periodo in cui il genere era al proprio apice, del resto, sarà facile trovare titoli anche decisamente più incisivi ma questo, a mio avviso, merita comunque un occhio. Se l’horror non sempre è riuscito a dispensare messaggi significativi alla società, limitandosi a curare al più l’aspetto prettamente narrativo, “Nero criminale” rappresenta una notevole eccezione a questa regola, e si presenza come un film da riscoprire. Con occhio critico, s’intende, ma pur sempre da riscoprire.

  • Gummo: il saggio sull’orrore dell’animo di H. Korine

    Un tornado in Ohio uccide numerose persone e le rispettive famiglie: quella che si vede è la storia dei sopravvissuti.

    In breve. Ispirato all’idea di girare un film su dei ragazzini sopravvissuti ad un terremoto, si basa su un’atmosfera post-apocalittica ineditamente di provincia: dopo un tornado, una piccola comunità prova a ricostruire le proprie esistenze sulle macerie. Ma che riescano davvero a farlo, è tutto da vedere.

    Opera prima di Harmony Korine (già noto per Kids), qui regista ed autore della sceneggiatura, Gummo racconta a suon di death-black metal le solitarie ed alienanti vite dei sopravvissuti ad un tornando in Ohio, ridotto ad un deserto di degrado, noia, spazzatura, nichilismo e perversione. La trama racconta, in modo frammentato, la crudele vita a cui sono costretti i vari ragazzini protagonisti, in particolare due: il cinico Tummler (nomen omen: significa “agitatore” o ribelle in lingua Yiddish) ed il mite Solomon (Jacob Reynolds, che compare pure sulla locandina ed è diventato noto per questo personaggio).

    Girato in soli 20 giorni con un budget di poco più di un milione di dollari, peraltro da un cast di attori non professionisti in larga prevalenza (solo cinque avevano in minimo di esperienza), si ispira apparentemente ai fatti realmente accaduti a nell’Ohio (Xenia) nella metà degli anni ’70, sfruttando parecchie luci fluorescenti che servono a conferire un particolare feeling ossessivo, a tratti giallastro e con parvenza di snuff in molte sequenze.

    Una narrazione che procede sulla falsariga del flusso di coscienza, ereditando qualche meccanismo narrativo da Slacker (uscito 6 anni prima) e ponendosi quasi come una sua rielaborazione degradata. Se nel film di Linklater, infatti, il ritmo era concatenato ad un susseguirsi di eventi continui (quantomeno nello spazio), mentre il montaggio rivestiva un ruolo secondario, in quello di Korine esce fuori una componente più spezzettata e frenetica, ancora più realistica e cruda – tanto da far pensare ad un mockumentary (falso documentario).

    Gummo è anche decisamente grottesco a partire dai passatempi e dalle movenze dei singoli personaggi, tanto goffi quanto – spesso di puro ripiego – inutilmente crudeli. Uno scenario che evoca il post-apocalittico, almeno come scenario, dotandolo di una parvenza di pesante realismo, tanto da far sospettare allo spettatore che addirittura le morti degli animali siano snuff (nonostante le apparenze a nessun animale, come dichiarato il regista, è stato davvero fatto del male in questo film). Come se non bastasse, molte sequenze sono tanto sconnesse da apparire surreali ed illogiche, con personaggi che vivono in un proprio, rispettivo micro-mondo in cui è quasi impossibile rapportarsi con gli altri in modo socialmente normale. Neanche fossimo all’interno di un teatro di strada dell’assurdo, insomma, ed il soggetto non fosse stato concepito da Beckett o, meglio ancora, da Bernhard. Gran lavoro è stato fatto su questo frangente, ed anche se visto oggi per la prima volta Gummo rimane un film indimenticabile, di quelli che turbano e fanno sentire sporchi pur esercitando una chiara funzione catartica (se non vi piacciono i paroloni: guardarlo può essere, a suo modo, rigenerante per lo spirito).

    Decisamente marcata, e non poteva essere diversamente, la componente horror di Gummo, certo non legata al folklore, allo splatter o ai classici villain-tritacarne bensì, in modo decisivo, all’orrore insito nell’animo umano: tanto più che si tratta di personaggi dai tratti primordiali, quasi elementari, spesso al limite della follia, in grado comunque di fare più di una considerazione straziante o esistenzialista. Nella sequenza forse più incisiva e spaventosa della pellicola, ad esempio, assistiamo al monologo davanti allo specchio di Tummler (un suicidio simulato), seguito da una sorta di rituale satanico, intermezzato da un anonimo che si incide a sangue il logo della band thrash metal Slayer.

    Caro mondo, sono confuso dalle oscure elucubrazioni del mio cervello. Ho cercato… ho cercato in tutti i modi di farcela in questo schifoso mondo, ma credo che il primo errore sia stato quello di nascere. Non ho nessun senso di colpa per il mio suicidio. Ho provato… alla vostra maniera, ho sempre lavorato fin da quando avevo 13 anni. Lavorare per vivere non è mai stato un problema per me. Il problema è che sono circondato dall’oscurità. È buio! È buio! È buio! Ora mi punto la pistola alla testa e sparo.

    Una narrazione in cui non si risparmia qualche considerazione sensata (La vita è bellissima, davvero: lo è. Piena di bellezza e di illusioni. La vita è grandiosa), sarcastica (…senza la vita saresti morto) o caratterizzata da una rassegnata ironia di fondo (Conoscevo un ragazzo dislessico, ma era anche strabico: così è venuto fuori bene, tutto sommato). L’ironia corrosiva del regista, peraltro, è abbastanza chiara sia dalla conclusione (la ragazza in disgrazia convinta di essere madre di un bambolotto, e che canta sconnessamente “Gesù mi ama“) che dalla geniale comparsata dei due ragazzini africani, che fingono di raccogliere fondi per curare il cancro e progettano come spenderli: “Ehi, stiamo facendo un mucchio di soldi. Non è meglio che andare a scuola? Così ci compriamo gli insegnanti e non dobbiamo più andare a scuola. Ci compriamo pure la gente? Sì, ci compriamo tutti. Avremo un sacco di amici, e se ci rompiamo ci compriamo degli amici nuovi. Tutti quelli che vogliamo: diventeremo ricchi. E ci compreremo anche delle belle donne“. Menzione particolare per la figura del ragazzo vestito da coniglio (Jacob Sewell), un simbolo che si presta a varie interpretazioni (finge di farsi cacciare da due coetanei vestiti da cowboy, e si indugia sulla sua morte apparente per diversi fotogrammi), salvo poi liberare inaspettatamente la propria sessualità nella sequenza in piscina con le due ragazze bionde. Musica di sottofondo: Crying di Roy Orbinson, che dopo tutto questo bel black metal è un contraltare liberatorio e profondamente originale: un film coi contro-fiocchi, ammesso che sia lecito ed opportuno fargli un complimento del genere.

    Di fatto, Korine lascia parlare parecchio i suoi personaggi, senza degenerare in masturbazioni mentali intellettualoidi: a volte in forma di dialoghi auto-conclusivi e connotati da humour nero, ma anche nella forma di monologhi concepiti come deliranti risposte ad un’immaginaria intervista – e qui interviene una componente introspettiva, caratterizzata da riprese di tipo amatoriale, veri e propri filmini in 16mm alternati con riprese tradizionali.

    Lo sai cosa faccio domani?

    Cosa?

    Vado in un manicomio.

    In un manicomio?

    Mi troverò una bella pazza furiosa.

    Non c’è speranza di redenzione per i protagonisti, peraltro, tanto da nullificare il mantra conclusivo di Slacker (“Ma più il dolore aumenta, piu’ questo istinto per la vita in qualche modo si riafferma.“) e rendere Gummo (che nello slang è usato per per riferirsi ad individui, generalmente razzisti, concepiti da un incesto) un film indipendente dai tratti molto cupi, privo di compromessi con il “grande pubblico” (ma mai pesante o vuotamente “di nicchia”) e, per quanto suoni stereotipato leggerlo: un film per pochi ma buoni, come davvero pochissimi sono stati realizzati.

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