Salvatore

  • ANOMALIA MESSAGGIO: clicca qui per ricevere il tuo pacco

    ANOMALIA MESSAGGIO: clicca qui per ricevere il tuo pacco

    Le email di spam spesso utilizzano frasi come “fattura non pagata”, “denuncia autorità giudiziaria”, “consegna in sospeso”, “hai violato la policy”, per manipolare le emozioni e le reazioni dei destinatari. Questa tecnica si basa su diversi bias cognitivi e meccanismi psicologici studiati in dettaglio in vari ambiti della psicologia e della scienza comportamentale: il bias di urgenza (per indurre le persone ad agire rapidamente senza riflettere), l’autorità percepita (aspetto su cui Eli Roth ha diretto il programma How evil are you?, sulla falsariga dell’esperimento di Milgram, per quanto lo stesso sia da tempo oggetto di discussione). Gli spammer possono usare informazioni personali o dati che sembrano credibili per far sembrare il messaggio autentico, sfruttando il bias di conferma. In altri casi gli spammer possono promettere qualcosa in cambio di un’azione rapida (“clicca qui per ricevere il tuo pacco“), inducendo il destinatario a sentirsi obbligato a rispondere. Se puoi convincere una persona a farti un versamento o a raggiungerti in qualche luogo in cui non la troverai, a fare click su qualsiasi cosa o a convincersi di qualsiasi cazzata, nulla di strano che tu possa convincerlo a fare di peggio.

    Il discorso è complesso – e facilmente banalizzabile, del resto: si rischia di fare appello a tutta quella psicologia fagocitata dal marketing che è fin troppo di frequente oggetto di semplificazioni clickbait. Del resto da tempo studiosi come Stuart Sutherland hanno sottolineato quanto l’obbedienza all’autorità sia radicata nell’animo umano, spesso in modo del tutto insospettabile: molti, ad esempio, tendono a conformarsi alle indicazioni di figure autoritarie per paura delle conseguenze, ma anche per desiderio di approvazione sociale, o magari per la semplice (ed irrazionale) percezione che l’autorità sia sempre e comunque legittima e competente.

    L’esperimento di Milgram, ad esempio, in cui alcune persone erano indotte a compiere atti crudeli su altre persone sulla base del principio di autorità, dimostra teoricamente che le persone sono sorprendentemente disposte a obbedire agli ordini , anche nel caso in cui violassero i loro principi, purché gli stessi provengano da una figura percepita come autoritaria. E c’è un aspetto ancora più interessante nello studio, per quanto non accettato universalmente dalla comunità scientifica (per un fatto di metodo, ovviamente): che se fosse vera l’ipotesi dell’esperimento, cioè che le persone si conformano alla crudeltà per convenienza o paura o autorità percepita, lo farebbero anche per un’attiva identificazione con una fonte che riesce a spacciare azioni crudeli per gesti virtuosi. Il che forse potrebbe essere un inizio di spiegazione del perchè non votiamo alle elezioni, o peggio ancora perchè votiamo politici crudeli che, in troppi casi, spacciano credibilmente il menefreghismo per virtuosismo.

  • “Ora capisco perchè piangete” era la frase più importante di Terminator 2

    L’immaginario pop ha da tempo consolidato l’idea del Terminator come il robot molto scaltro, intelligente e crudele, destinato a porre fine al genere umano. Una questione che riporta all’abuso della cultura pop da parte di certe letture della realtà un po’ troppo radicali, spesso affini a complottismo e rigurgiti anti-tecnologici (per non dire peggio). Come già avvenuto in Matrix e in Essi vivono, il film viene spezzettato e macinato in meme che fanno perdere il riferimento ed il punto di partenza della storia, diventando materiale per barzellette che non fanno ridere e (pseudo)notizie che vorrebbero farci piangere.

    Ora capisco perchè piangete è la frase che il Terminator buono, dopo aver distrutto l’infido T-1000, pronuncia al giovane John Connor, che a quel punto si è legato emotivamente ad un robot che gli ha salvato più volte la vita, e che vorrebbe fermarne la proclamata autodistruzione. La tragedia di Cameron si lega alla necessità di sopravvivenza del genere umano, naturalmente: se Terminator non concludesse la propria missione gettandosi tra le fiamme, il futuro potrebbe risultare globalmente compromesso, minacciato dagli androidi che prenderanno il sopravvento sugli uomini. La storia impone che i terminator si estinguano, per quanto doloroso possa sembrare per le nuove generazioni. John, ad un certo punto, non può fare a meno di esprimere il proprio stato d’animo con una lacrima che scende sul proprio viso. Il Terminator disobbedisce pure all’ultimo ordine disperato del ragazzo, ti ordino di non andare, a testimonianza del fatto che ha acquisito una propria indipendenza di giudizio, il che non si ripercuote necessariamente (è bene ribadirlo) in conseguenze negative per l’uomo.

    Ora capisco perchè piangete è una frase struggente quanto ricolma di significati: in primis andrebbe notato come la macchina interpretata da Schwarznegger abbia capito, cioè sia riuscito ad imparare qualcosa dagli uomini, attivando quello che oggi chiamiamo “apprendimento macchina” (machine learning). In secondo luogo, i terminator di Cameron sono tutt’altro che mono-dimensionali, tutt’altro che cattivi per definizione, ma sono estremamente ambivalenti: nel primo episodio del film, infatti, il terminator cattivo era interpretato dallo stesso attore che nel secondo episodio diventa dalla parte degli uomini. Questo avviene perchè, a livello di intreccio, il robot è stato programmato e riprogrammato per questa evenienza. Non si può fare a meno di notare, a questo punto, quel barlume di ingenuità narrativa del distinguere tra buoni e cattivi sulla base dell’aspetto,  ma a ben vedere questo permette al film di avere vari seguiti narrativi e di giocare perennemente su questa ambiguità di fondo: cosa vuol dire buono? Cosa vuol dire cattivo? Se riprogrammassimo un androide crudele per accompagnare gli anziani ad attraversare la strada, sarebbe possibile? Ricorderebbe di essere stato cattivo? Potrebbe sentirsi in colpa per aver agito in quel modo e dover andare dallo psicoanalista?

    Ora capisco perchè piangete denota anche, in definitiva, una capacità di empatia da parte della macchina, cosa che effettivamente chiede chi si rivolge a ChatGPT come se fosse il proprio psicologo.

    È altamente plausibile (per quanto si tratti ancora di un cantiere aperto) che la questione annessa all’etica delle macchine non sia decidibile, che significa: in informatica il concetto di “problema non decidibile” si riferisce a una classe di problemi per i quali non esiste (e mai potrà esistere, se è corretta l’ipotesi) un algoritmo o un programma che possa risolverli in modo generale, indipendentemente dall’hardware o dal tempo a disposizione. In altri termini un problema è considerato “decidibile” se esiste un algoritmo o una procedura che, quando applicati a qualsiasi istanza del problema, restituiscono una risposta corretta (sì o no) entro un certo limite di tempo. Ad esempio, il problema di verificare se un numero intero è pari o dispari è decidibile, poiché si può scrivere un algoritmo molto semplice che restituisce la risposta corretta. Capire se una macchina sia buona o cattiva, invece, che problema è? In quanto tempo posso rispondere con certezza sì o no?

    https://twitter.com/sarbathory/status/1709668102739235151

    Un esempio classico di problema non decidibile è il “problema dell’arresto” (Halting Problem): questo problema chiede se, dato un programma e un input, il programma si arresterà (terminerà) o continuerà a eseguire all’infinito per quell’input specifico. Alan Turing dimostrò già nel 1936 che non esiste un algoritmo generale che possa risolvere il problema dell’arresto per tutti i casi possibili. Per estensione il problema di stabilire se un’intelligenza artificiale (IA) possa o meno danneggiare l’umanità o meno non è un problema decidibile, almeno nel senso della teoria dell’informatica teorica. In un certo senso non vale a molto chiederselo, almeno fin quanto la teoria non avrà affinato i propri mezzi. Il che significa non avrà trovato un modo per quantificare l’etica, per misurare l’intelligenza in assoluto (in un ambito non ristretto come quello di una partita a scacchi dove, si è visto, algoritmo batte umano).

    Tale problema coinvolgerebbe infatti una serie di fattori complessi, etici e comportamentali non (ancora) misurabili, che vanno oltre la capacità di essere risolti da un semplice algoritmo o da una procedura meccanica. Lo stesso semplice dilemma del capire se una macchina possa o meno superare l’intelligenza umana è ambivalente, per quanto studiosi come Kanheman abbiamo ribadito che certe previsioni nel lungo periodo (come stabilire la profittabilità di un’azienda in 5 anni), ad esempio, vengono fatte con maggiore precisione di qualsiasi esperto da semplici algoritmi statistici o numerici. Ma sono ambiti differenti, molto, e le generalizzazioni servono a poco. Meglio quindi, ad oggi, porla in altri termini, e considerare prematura la domanda.

  • Perchè ChatGPT usa sempre le stesse parole

    Sembra che ChatGPT stia abusando del verbo inglese (apparentemente desueto) to delve (letteralmente scavare, fare ricerche): per la verità, c’è da dire, i termini più ricorrenti nelle sue risposte sono stati riassunti già da qualche mese. Su Reddit, ad esempio, un utente ha notato che ricorrevano spesso:

    1. “It’s important to note” -> È importante notare
    2. “Delve into” -> Approfondire/Indagare su
    3. “Tapestry” -> Tela/Tessuto/Tessitura (a seconda del contesto potrebbe variare)
    4. “Bustling” -> Affollato/Animato
    5. “In summary” or “In conclusion” -> In sintesi or In conclusione
    6. “Remember that….” -> Ricorda che…
    7. “Take a dive into” -> Tuffarsi in/Esplorare in profondità

    e che il termine altrettanto comune è realm (regno), che viene segnalato da un post di un utente su Linkedin.

    Su questo aspetto il Chatbot non sembra molto propenso a parlare, quando gli chiedi qualcosa:

    Mi dispiace, non ho la capacità di effettuare ricerche dirette nel mio corpus o di conteggiare le occorrenze di termini specifici come “to delve”. Tuttavia, posso dirti che “to delve” è un verbo in inglese che significa “approfondire” o “esaminare attentamente”. Se hai bisogno di ulteriori informazioni su un certo argomento o su come utilizzare questo termine in contesto, non esitare a chiedere!

    Se invece rigiriamo la domanda chiedendo di individuare quali siano i contesti in cui potrebbe usare “to delve” e compagnia, ne risulta un curioso collage multi-linguistico:

    1. Ricerca accademica: “Il dottorando ha deciso di dedicare un intero capitolo della sua tesi a delving nel campo della neuroscienza cognitiva.”
    2. Investigazione giornalistica: “Il giornalista ha deciso di delving nella corruzione politica per scoprire la verità nascosta dietro lo scandalo.”
    3. Studio letterario: “Nel romanzo, l’autore delves nei recessi più oscuri della psiche umana, esplorando temi di alienazione e solitudine.”
    4. Analisi storica: “Gli storici hanno passato anni a delving negli archivi alla ricerca di documenti che potessero svelare i segreti della società medievale.”
    5. Ricerca scientifica: “I ricercatori stanno delving nei meccanismi molecolari che causano la resistenza agli antibiotici.”
    6. Esame dei dati: “Gli analisti stanno delving nei dati finanziari per individuare eventuali anomalie che potrebbero indicare frodi.”
    7. Esplorazione culturale: “Il viaggiatore ha deciso di delving nella cultura locale, imparando la lingua e partecipando alle tradizioni.”
    8. Approfondimento psicologico: “Lo psicologo ha aiutato il paziente a delving nei suoi ricordi d’infanzia per affrontare le sue paure e ansie.”
    9. Esplorazione musicale: “Il compositore ha deciso di delving nei suoni della natura per creare una nuova opera sperimentale.”
    10. Approfondimento filosofico: “Nel suo saggio, l’autore delves nelle questioni etiche e morali che circondano il concetto di giustizia sociale.”

    Questi sono solo alcuni esempi di come il verbo “to delve” possa essere utilizzato in diversi contesti.

    L’uso di intercalari, ad ogni modo, è davvero molto comune e riconoscibile con ChatGPT, che da un lato ha imposto uno standard basato su un corpus, lo ricordiamo, di cui nessuno sa davvero nulla, dall’altro non sembra aver problemi a citare apertamente. In questo caso, infatti, se chiediamo quali siano gli intercalari più usati da ChatGPT troviamo:

    Ecco alcune frasi comuni che potresti trovare nelle mie risposte in italiano:

    1. “È importante notare che…”
    2. “In sintesi,…”
    3. “In conclusione,…”
    4. “Ricorda che…”
    5. “Per riassumere,…”
    6. “Per comprendere meglio,…”
    7. “Considera che…”
    8. “È fondamentale sottolineare che…”
    9. “Un aspetto da tenere presente è…”
    10. “Va notato che…”

    Queste sono solo alcune delle espressioni comuni che potresti incontrare nelle mie risposte. La scelta dell’espressione dipende spesso dal contesto e dall’obiettivo della comunicazione.

    Il che suggerisce la presenta di numerosi strati di elaborazione, di livelli di filtraggio con criteri diversi e di potenziali randomizzazioni nelle risposte per cercare di diversificare i discorsi (test eseguiti con ChatGPT 3.5 il 2 aprile 2024).

  • Spaghetti hacker!

    Spaghetti hacker è un libro di culto nel panorama informatico italiano del 1997 (ed. Apogeo). Un panorama che non correva alla stessa velocità dei colleghi degli Stati Uniti, all’avanguardia in ambito informatico grazie a corposi finanziamenti per la tecnologia che, almeno sulla carta, andavano concepiti in ottica guerra fredda per controbattere al vertiginoso equivalente sovietico nell’ambito. E se ARPANET nasce in un chiaroscuro, per cui i “capi” del progetto erano militari o quantomeno seriosi dirigenti statunitensi non propriamente progressisti, mentre chi ci lavorò attivamente era mediamente un convinto contestatore del Sessantotto, l’Italia sicuramente non conobbe lo stesso sviluppo in ambito tecnologico.

    Il libro si incentra essenzialmente sulla storia della diffusione dell’informatica tra i non addetti ai lavori e non professionisti nel nostro paese: parliamo di poche migliaia di smanettone informatici che in alcuni casi, racconta il libro, si costruivano da soli i modem per accedere e provavano a comporre un mitologico numero verde (rimasto attivo e inutilizzato per un certo periodo) che forniva da tanto sospirata connessione ad Internet. Erano tempi particolarmente bui: e non soltanto perché non avevamo smartphone in tasca già connessi ad Internet, ma perché quegli stessi smanettoni si trovarono appiccicati addosso l’etichetta di hacker, accusati delle peggiori nefandezze (terrorismo, pedofilia, pirateria informatica) in un periodo periodo in cui i vuoti normativi abbondavano e non esisteva sostanzialmente alcuna legge specifica che si potesse applicare all’informatica. Oggi, forse, ce ne sono anche troppe, ma moltissime derivano dallo stesso mood: legislatori chiamati a legiferare su tecnologie che non conoscevano troppo, con tutti i limiti (e i tragici equivoci) del caso.

    Quando programmo, spesso mi vedo seduto come una specie di mago Merlino con cappello a cono in testa, lo schermo si trasforma in una specie di sfera di cristallo, nella quale appaiono visioni che si possono capire, divinare attraverso formule magiche incomprensibili. […]

    L’unica ragione “politica” per la quale mi interesso di hacking e di phreaking è che sono profondamente incuriosito verso le tecnologie informatiche, forse sono presuntuoso e anticonformista se dico che questo tipo di tecnologia diventerà talmente importante in futuro al punto da modulare la libertà di ogni singolo individuo.

    (Accendin0)

    Spaghetti hacker è un gustoso sunto dal sapore libertario, non recentissimo ma pur sempre attuale, che paventa la censura di Internet come una vera e propria catastrofe, come suggeriva gran parte della cultura hacker che si sviluppò non solo in Italia nel periodo. Un qualcosa che visto oggi fa sorridere, visto che sono gli utenti stessi di Internet che invocano la censura su determinati contenuti, con una leggerezza ed una no chance che avrebbe lasciato allibito coloro i quali hanno portato Internet in Italia, sia pure spesso comoda artigianali, non ufficiali o (in alcuni casi) non completamente legali.

    Il libro rifiuta l’equiparazione che venne fatta dalle normative dell’epoca per cui a momenti la pirateria informatica era più punita di un omicidio, evidenziando più volte come quelle leggi fossero frutto delle pressioni di lobby di informatica nascenti che avevano tutte l’interesse a farsi tutelare legalmente nelle loro attività. Con vari riferimenti mitologici, soprattutto soprattutto varie hacker che diventavano “quelli bravi col computer”, che andavano a lavorare nelle multinazionali (in molti casi per due soldi), e che venivano assunti da capi che neanche capivano troppo quello che facevano. Una delle prime leggi in ambito informatico italiano è nota come legge Serafini, e anche se non esiste traccia sul web della legge viene citata più volte nel libro in questione.

    Sono tante le tecniche che vengono descritte e per cui sono state rilasciate varie testimonianze anonime (le migliori sono tutte nella fine del libro a mio avviso): si parla di hacker molto giovani che praticavano con disinvoltura cellular phreaking, ovvero la tecnica che consentiva la duplicazione di un numero di telefono (quella che oggi si chiamerebbe clonazione del numero) e che consentiva di utilizzare un telefono altrui a insaputa del proprietario. Oppure ancora le prime BBS che si diffondono in Italia, per cui era nell’ordine delle cose che tutti provassero ad intrufolarsi in quelle degli altri, per segnalare bug del sistema UNIX e per consentire ai sysadmin (amministratori di sistema) di migliorare gli stessi sistemi tecnologici le stesse infrastrutture che abbiamo utilizzato (e continuiamo ad utilizzare) fino ad oggi.

    Perché il punto fondamentale è capire che – al di là della facciata burocratica, tesa a determinare sempre e comunque un colpevole – le violazioni degli hacker sono diventate progresso, piaccia o meno, magari non subito, magari non sempre, ma in molti casi lo sono diventate perchè hanno evidenziato limiti tecnologici e hanno costretto i programmatori ad aggiornarsi, a rimanere sul pezzo, a proteggerci meglio tutti dalle incursioni. Perché l’unico modo per vincere era quello di partecipare a quello strano gioco, che rimaneva comunque confinato nell’ambito del digitale ed in cui soprattutto non c’era l’obbligo di pubblicare le cose a proprio nome, ma era prassi consolidata nascondersi dietro nickname asessuati e spesso tratti dai romanzi di Sterling o di Gibson (vere e proprie bibbie di riferimento per tutti gli hacker dell’epoca). Spaghetti hacker rimane un libro storico che farebbe, ancora oggi, venire i brividi a qualunque politico abbia seriamente parlato di censura di Internet.

    Gran parte del libro utilizza terminologia tecnica dell’epoca e cerca di spiegare come si lavorasse con l’informatica alla fine degli anni 80 e durante tutti gli anni 90: si lavorava in modo artigianale e quasi sempre sistemi open source, che permettevano di essere smantellati e manipolati e piacere con conseguenze a volte nefaste, altre semplicemente divertenti. E questo l’elemento che abbiamo ereditato per l’internet di oggi: in bilico perenne tra divertente e di cattivo gusto, tra illegale e ironico, tra tutto e niente, un lascito colossale e dai confini labili per tutte le generazioni successive di troll, molestatori, ricercatori universitari di giorni e hacker di notte, utenti in fissa con l’anonimato, programmatori C++, smanettoni di ogni ordine grado.

    Già ai tempi di War Games (film del 1983), del resto, era pressappoco consolidato nella cultura di massa cosa fosse un wardialing (comporre più numeri di fila in automatico, fino ad individuarne uno target con determinate proprietà), era pressappoco risaputo che un ragazzino sapesse telefonare gratis sfruttando la linguetta di una lattina (il primo a sfruttare quelle tecniche era stato Kevin Mitnick, condannato negli USA per questa come per altre attività digitali illecite). Ma non solo: era implicito perchè uno volesse penetrare nel sistema di un produttore di videogame (per accaparrarsi l’ultimo titolo in uscita prima degli altri). Vallo a spiegare ad un italiano che accendeva a malapena una televisione e considerava il telecomando la più grande innovazione degli ultimi anni.

    Era altresì noto alla maggioranza dei nerd ottantiani cosa fosse un supercomputer, il tutto mentre le suggestioni da apocalisse nucleare contagiavano viralmente (diremmo oggi) l’opinione pubblica (siamo in piena Guerra Fredda), in un mix confondente di panico, allarmismo e cautela che forse forse non si è esaurito nemmeno oggi. Non solo: si sapeva, quantomeno nei college americani, cosa fosse una backdoor, forse addirittura cosa fosse una realtà virtuale (il supercomputer del film War Games considera, a tutti gli effetti, la guerra simulata come grottescamente equivalente ad una reale). Siamo all’inizio degli anni Ottanta, l’informatica è in fermento, e così iniziano a diffondersi i computer ad uso domestico che entusiasmano gli smanettoni di ogni ordine e grado. In Italia non fu proprio così, ma nonostante tutto qualcosa si mosse.

    È un clima che conosciamo bene, a ben vedere: oggi si parla molto di cyberbullismo ma per la sensibilità d’epoca sarebbe stato considerato eccessivo parlarne, ad esempio. Naturalmente per capire questo aspetto è necessario considerare che gli utenti erano erano tre o quattro ordini di grandezza di meno: se oggi parliamo di decine di milioni di utenti su Internet, infatti, all’epoca erano al massimo qualche decina di migliaia di utenti BBS e simili. L’accento della criminalizzazione del mezzo trasmissivo si vide soprattutto – raccontano gli autori – per chi duplicava i software nelle BBS, per cui gli autori sostengono e smontano, per quanto possibile, le potenziali accuse di ricettazione per chi lo praticava (non per altro: una copia non è una sottrazione ad altri, è “solo” una copia). La storia di Internet la conosciamo, e tutti ricordiamo i casi in cui l’autorità, spesso sfruttando una normativa carente e ambigua, si introducevano nelle case dei ragazzini sequestrando tutti i computer, i monitor e le stampanti, e non semplicemente i dati (che sarebbero stati l’autentico potenziale oggetto di analisi).

    In Italia non si ebbe affatto lo sviluppo indicato nella maggior parte dei libri: per vedere le prime connessioni ad Internet abbiamo dovuto aspettare l’inizio degli anni anni 90. nonostante spaghetti hacker se un libro dotato fa vedere in maniera molto chiara come nascono la gran parte dei fenomeni tecnologici in Italia. Gli autori sono un informatico o un giurista (Chiccarelli e Monti, rispettivamente) che propongono una lettura snella, agevole e dal sapore libertario di quella che poi sarebbe diventata la cultura hacker a tutti gli effetti. Ponendo dilemmi che non si sono risolti neanche oggi, dopo aver trascorso un periodo di forte criminalizzazione delle attività hacker in generale, con una tecnologia di connettività che nel nostro paese si sviluppava poco e male (e si prestava alla speculazione di pochi), e che soltanto con le prime linee ISDN ad inizio Duemila inizierà a diventare un fenomeno di massa a tutti gli effetti.

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  • Memorie trovate in una vasca da bagno è un trattato di paranoia collettiva

    Stanislaw Lem è noto soprattutto per aver scritto il romanzo da cui Tarkovsky ha tratto Solaris, film notoriamente complesso che afferisce alla fantascienza filosofica e che, forse, ne rappresenta una delle massime espressioni. Se la scrittura di Lem finisce per essere spesso volentieri ridotta a Solaris, senza nulla togliere non si può fare a meno di notare come la sua previsione letteraria sia molto più vasta, e comprenda titoli generalmente poco valutati o conosciuti al grande pubblico.

    Memorie ritrovate in una vasca da bagno rientra esattamente in questo novero: recentemente edito in Italia da Oscar Mondadori, si tratta di un lavoro che opera essenzialmente sulla dimensione del linguaggio. E lo fa proponendo dei singolari neologismi dal sapore grottesco, come ad esempio kartya per indicare la carta. il contesto è quello di un uomo del futuro che guarda retrospettivamente il nostro presente, immaginando una epidemia globale di natura diversa da quella che ci si potrebbe aspettare: non rivolta contro gli organismi, come avvenuto realmente con il Covid-19, bensì orientata a polverizzare tutta la carta presente sulla terra. Il cielo sulla città si oscurò per le nubi di carte di dissolta – scrive Lem nell’introduzione della storia – per 40 giorni 40 notti cadde una pioggia nera, e fu così che eventi torrenti di fango cancellarono dalla faccia della terra la storia dell’umanità. Il soggetto che viene cancellato non è pertanto, nichilisticamente parlando, l’essere umano: come se fosse consapevole che l’uomo alla fine cade sempre in piedi, nei tempi in cui viviamo è diventato quasi scontato profetizzare una qualche apocalisse biologica. Memorie in una vasca da bagno racconta una storia storia di una anonimo agente che si trova all’interno di quello che dovrebbe essere il Pentagono, barricato nella propria burocrazia e totalmente chiuso ai contatti con l’esterno. Il personaggio si muove spaurito e disorientato come un qualsiasi personaggio kafkiano, a ben vedere, all’interno di un mondo asettico e incomprensibile, la cui natura è puramente burocratica, formale, ed in cui vari personaggi moriranno davanti ai suoi occhi senza una spiegazione plausibile.

    Da un punto di vista generale potrebbe essere una raffigurazione efficace nel mondo in cui abbiamo vissuto negli ultimi anni: da un lato primo di certezze e di autentica comunicazione, comunicazione che si è diluita in mille giocattoli digitali che alla fine dei conti – quasi sempre – lasciano il tempo che trovano. Nonostante questo la cosa più semplice è stata quella di barricarci nella burocrazia, cos’è che è il rifugio tipico delle persone persone insicura perché lei rappresenta come una epidemia di paranoia generalizzata. Se ci sentiamo su un’app di dating e ti propongo di vederci, ad esempio, lo faccio innanzitutto perché la carta non esiste più, e la lettera che avrei voluto scriverti non posso materialmente mandartela in alcun modo. Visto che la data non esiste ma nel digitale è sempre che le cose vanno anche benone, ma ognuno di noi presenta la propria burocrazia interna, impone agli altri di adempiere a riti di burocrazia sociale che il più delle volte l’Altro (in senso prettamente lacaniano) percepisce come totalmente inutili. Questo alla fine dei conti genera  frustrazione, ma che importa: l’anonimo protagonista della memoria trovata in una vasca da bagno bagno scorge una mensa aziendale in cui si intrufola, nella quale si mangia piuttosto male e soprattutto soprattutto nessuno parla con i colleghi: sono tutti presi dal risolvere problemi di crittografia, algoritmi, problemi matematici che sono da sempre un modo naturale per tutelare la propria propria sanità e sentirsi utile a qualcosa in questo mondo.

    Anche la parte puramente tecnologica non serve granché: scrive Lem “venivano detti cervelli elettronici con la stessa esagerazione, comprensibile solo alla luce della prospettiva storica, per cui motivati costruttori dell’Asia minore avevano una ritenuta della sacra torre di Baa-Bel toccasse il cielo.” Anche qui il ruolo dell’invenzione linguistica è fondamentale, probabilmente per questo che l’opera merita maggiore attenzione di altre perché esibisce una doppia Tura con grottesca dei linguaggio che rende la lettura particolarmente accattivante. La nostra epoca è il tardo Neogene, per Lem, per cui il mantenimento dell’intero patrimonio conoscitivo del medio e tardo neogene era affidato alla cosiddetta kartya. A quell’epoca non esistevano né la metamnestica né la tecnica di cristallizzazione delle informazioni. […] La kartya non solo regolava coordinava tutte le umane attività collettive, ma determinava anche, in modo per noi difficilmente comprensibile, i destini degli individui (come nel caso della cosiddetta kartya d’identità)

    Tutto questo presuppone una visione del mondo relativamente senza troppa speranza, ma probabilmente la via d’uscita esiste: nella conclusione della introduzione a questo mondo distopico, l’ennesimo partorito dalla fantasia dell’autore, si scrive che la credenza assume un ruolo fondamentale. Credere in qualcosa e il primo passo per realizzarlo, perché la profezia che si auto-avvera è sempre in agguato: l’uomo termina una guerra che sa di poter causale egli stesso, un fallimento che finirà nell’ennesimo autoboicottaggio, si appoggia a stampelle digitale che gli servono tanto e non quanto a risolvere le sue giornate. Più che altro a far finire prima possibile per le giornate e sprofondare di nuovo nell’oblio. O 1000 burocrazia sociali più o meno immaginarie da assolvere, ogni giorno, fino alla fine dei giorni e fino all’estinzione della carta, lo strumento perfetto per crogiolarsi nel dolore esistenziale in una stanzetta autoreferenziale, o per l’ennesimo modulo da compilare.

    O se preferite finchè poi, alla fine – scrive Lem –  la finzione diventa credenza, e la credenza certezza.

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