Da che mondo è mondo, i pirati fanno AAARRR mentre parlano. Vi siete mai chiesti il perchè? In questo articolo proverò a svelarvi l’arcano, in modo che possiate dare finalmente un senso a questa giornata (piovosa, almeno qui).
Nell’immaginario televisivo nostrano a fare il verso “AAARRRR” è il Capitano Horatio McCallister dei Simpson: non un pirata, ma comunque un “vecchio lupo di mare” stereotipato. Nell’immaginario popolare dei marinai sono in effetti molto comuni versi quali: “arrr”, o “harr”, “ahoy” oppure “aye”, o ancora Rrrr!”, Yarrr!, Arrr, Argh, Ahaaaarr e Yargh. Ma per quale motivo?
La questione assume una certa importanza – tanto che l’Urban Dictionary ha dedicato ad arrr una voce specifica.
Secondo un post di Reddit dedicato a questo importantissimo argomento, un verso del genere farebbe parte del modo di parlare degli inglese del West Country, tanto da farlo sembrare un paese frequentato da pirati per antonomasia (can confirm, I live here and everyone sounds like pirates), con particolare riferimento alla lingua cornica (Cornish) ed alla sua presunta cadenza.
A quanto pare il grugno tipo “Arrr” – con tutte le varianti viste in precedenza – fa la propria comparsa nel cinema nel 1934, con il film L’isola del tesoro (Treasure Island), tratto dall’omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson, per poi rifare la propria comparsa nel racconto del 1940 “Adam Penfeather, Buccaneer” di Jeffrey Farnol. Ha consolidato poi la propria fama mediante il classico del 1950 L’isola del tesoro della Disney, un film che dovrebbe essere rimasto inedito ad oggi (è molto più noto il cartone animato uscito in seguito) e di cui è disponibile il seguente frammento su Youtube – purtroppo senza alcun “aarrr” al suo interno.
L’opera comica The Pirates of Penzance, non presenta riferimenti ad arrrr nello specifico, per quanto molti personaggi tendano a marcare la presenza delle “r” nelle parole che pronunciano i vari pirati, come ad esempio “hurrah!” e “pour the pirate sherry“.
Andando a guardare qualche altra informazione a livello storico, si scopre dell’esistenza della giornata internazionale “Parla come un pirata” (19 settembre), ovvero la International Talk Like a Pirate Day (ITLAPD) inventata nel 1995 da John Baur (nome piratesco: Ol’ Chumbucket) e Mark Summers (o Cap’n Slappy), due americani dell’Oregon.
Se associate automaticamente il BDSM alle frustate e ai completini in pelle, siete abbastanza fuori strada – o meglio, non è che le frustate ed il piacere procurato dal dolore non ci siano, ma il BDSM significa molte cose, è di fatto uno strano acronimo o sigla che sta per, rispettivamente, Bondage & Disciplina, Dominazione & Sottomissione oppure, ancora, Sadismo & Masochismo.
Quanto piacciono i film BDSM
Stando alle statistiche di Pornhub, tanto per citare un dato relativamente attendibile, all’epoca dell’uscita del trailer del film “50 sfumature di grigio” ci fu un’impennata di ricerche relative a questo mondo nel sito, e (per quello che ne sappiamo) per una piccola maggioranza erano persone di sesso femminile a volerne sapere di più. Il senso di dominazione sul partner (o sulla partner, a seconda dei casi) è, in alcuni casi, benzina per riaccendere e fare fuori la monotonia dei rapporti, e naturalmente l’immaginario del cinema non poteva esimersi dal prendere in considerazione questi aspetti.
Koirat eivät käytä housuja
50 sfumature di grigio
Il cinema BDSM, in sostanza, va molto al di là del film che tutti hanno visto senza ammetterlo, ovvero 50 sfumature di grigio: formalmente un vero e proprio inno ai piaceri della sottomissione e dei rapporti squilibrati, uscito nell’anno 2015. Non proprio un film pregevole, a dirla tutta, ma ebbe se non altro il merito di riportare quelle atmosfere ad una dimensione “pop”.
Histoire d’O
Ovviamente non finisce qui e, a dirla tutta, non sarebbe nemmeno il caso di fermarsi qui: i migliori film del genere, come sempre, ci aspettano dietro l’angolo. Un esempio classicone potrebbe essere ad esempio Histoire d’O: anche se il trailer su Youtube non rende esattamente l’idea, è un film per iniziarsi alla pratica BDSM e fa capire una cosa fondamentale – nel BDSM, e perché si possa chiamarlo tale, non c’è alcuna costrizione, coercizione o plagio, come potrebbe sembrare agli utenti terrorizzati lì fuori. Semplicemente, la figura sottomessa dello schiavo (slave) è felice del proprio ruolo, e definisce apertamente la relazione in questi termini con una figura di padrone (master) che definisce il tutto a sua volta, e completa il cerchio.
La storia del film racconta esattamente questo: la giovane fotografa “O” viene iniziata, di comune accordo con l’amante, all’interno di un castello a Roissy, dove subisce varie pratiche sessuali sado-masochiste, al termine delle quali sarà identificata come schiava per sempre. L’interpretazione del film fu proposta a vari attori e registi famosi (Alejandro Jodorowsky, Anulka Dziubinska, Brigitte Fossey, Christopher Lee), che non accettarono per motivi diversi – tra cui il fatto che la parte doveva essere considerata “sconveniente”, per l’epoca – e alla fine furono Corinne Cléry e udo Kier ad essere i protagonisti, per la regia di Just Jaeckin.
Altro film che divenne un cult a fine anni 90, e che racconta di un poliziotto che indaga su un potenziale snuff movie (i film in cui la violenza ripresa è autentica e non simulata; in questo, e per i suoi accenni al sado-masochismo, Videodrome rimane uno dei saggi più completi sul tema, assieme probabilmente a Snuff 102).
Schramm
Un horror thrille girato con il realismo dello snuff, molto più spaventoso di qualsiasi horror abbiate mai visto; contiene anche un accenno alla dimensione masochista – molto esplicita e difficilmente filmabile, se vogliamo – che vive il protagonista, un tassista frustato ai suoi ultimi giorni di vita. Recensione qui su questo blog.
La frusta e il corpo
La frusta e il corpo prese in considerazione il sadomachismo già a inizio anni ’60, quando il tema era sicuramente molto più tabù di quanto non fosse oggi. Sicuramente è uno dei film più importanti di Mario Bava, forse il capolavoro assoluto del regista che qui affronta, in chiave gotica, del morboso rapporto tra il barone sadico Menliff e la cognata Nevenka.
Quando si pensa al cinema indipendente probabilmente vengono in mente i prodotti cosiddetti d’essai, oppure pellicole il cui significato diventa profondamente meditativo, riflessivo, in altri tempi avremmo scritto “non commerciale”. Eppure le realtà di questo genere vivono una propria bellezza per via del fatto che non solo non si “piegano” alle logiche di mercato, bensì propongono l’autenticità del pensiero dell’artista. Nonostante questo, in molti sono portati a pensare che si tratti di prodotti necessariamente di un certo genere (ad esempio horror o thriller), oppure di una predefinita “corrente di pensiero”, etica o politica. Le cose non stanno così, di fatto: basti pensare, ad esempio, ad uno dei più celebri film con il popolare attore Jim Carrey (“Se mi lasci ti cancello“): una pellicola molto sui generis – nel quadro si una storia d’amore tra due persone, si tratta di persone che si fanno cancellare i ricordi dolorosi mediante una nuova tecnologia – eppure decisamente “popolare” tra il pubblico.
Le caratteristiche principali dei film cosiddetti “indipendenti”, tra i quali annoveriamo quindi un’infinità di sfaccettature, sono quindi due: sono a volte realizzati con pochi mezzi tecnici (ma spesso con competenze artistiche di grande livello) e, al tempo stesso, viene lasciata totale libertà espressiva al regista, che non deve rendere conto a nessuno dei contenuti del suo film. In questo modo capita spesso che i film indipendenti siano fuori dal comune per i significati indotti o comunque per lo spirito generale, che oltre ad avvalersi spesso di attori non noti finisce per lanciare una “frecciata” culturale per combattere il conformismo generale. È questo che finisce, alla fine, per spaventare il grande pubblico “generalista”, che invece preferisce farsi guidare nelle sue scelte dai produttori, i quali insistono morbosamente sui medesimi temi e generi per avere mera garanzia di rientro economico. Tutto questo finisce per generare una sorta di circolo vizioso, che il cinema indipendente cerca di spezzare proponendo prodotti magari fuori dalla righe ma – in molti casi – qualitativamente di grande valore. Ovviamente, a dirla tutta, esistono film di qualità e scadenti sia in una “corrente” che nell’altra, ma il punto è che non sempre i prodotti di valore riescono a trovare il giusto spazio.
Storicamente un grande impulso ai film indipendenti si ebbe a metà degli anni ottanta con le prime videocamere, e più recentemente con i modelli digitali, che hanno permesso a schiere di giovani registi di evitare i costi proibitivi delle pellicole tradizionali, dei noleggi delle attrezzature, della stampa dei negativi, etc. Anche la cosiddetta post-produzione è molto più economica e veloce, grazie al significativo aumento delle prestazioni dei PC, all’introduzione dei DVD e al contemporaneo sviluppo di software semi-professionali sempre più sofisticati (utilizzati per il montaggio, la correzione del colore, i titoli di testa etc.), spesso completamente free o a costi davvero irrisori. La crescente popolarità degli “indie” ha costretto recentemente gli studi di Hollywood a creare delle piccole filiali per poter entrare a loro volta in questo nuovo mercato. Di conseguenza, oggi, non è più così netta la differenza fra ciò che è realmente indipendente e ciò che non lo è: per fare un esempio, il succitato Eternal Sunshine of the Spotless Mind–Se mi lasci ti cancello, del 2004, considerato un film indipendente, vanta un cast che non sfigurerebbe in un grande blockbuster, la sceneggiatura di un autore pluripremiato, e un budget iniziale di decine di milioni di dollari. D’altra parte, attori di fama internazionale sono molto attratti dal fenomeno indie, tanto da arrivare ad autoridursi il compenso pur di prendere parte ai progetti più interessanti.
(tratto parzialmente da Wikipedia, rielaborazione di Salvatore Capolupo)
La dimensione horror ha sempre fatto parte dell’immaginario legato ai fumetti, ed è stato consacrato da varie pellicole cult negli anni 80 e 90 (basterebbe pensare a riguardo, ad esempio, a Creepshow, che omaggiava apertamente il mondo dei fumetti low cost di genere horror, e si basava su micro-episodi dalla sceneggiatura abbastanza simile a questo formato). Ad oggi, il mercato si è decisamente espanso e non è più da considerarsi una nicchia, anche perchè non serve neanche più andare alle fiere del fumetto per procurarsi certi fumetti horror e, di fatto, anche nelle librerie se ne trovano per tutti i gusti.
Quelli che vorrei segnalare in questo articolo sono alcuni dei titoli che mi sono particolarmente piaciuti in questi anni, scoperti un po’ per caso.
Black Hole
Uno dei miei fumetti horror preferiti, dai tratti cupi ed esistenzialisti ed in cui l’horror è metafora di malattia infettiva: i “mostri” sono bocche che si spalancano nei corpi delle persone, come orifizi inattesi e spaventosi oltre che sessualmente allusivi. Charles Burns, statunitense classe 1964, mostra tutto il suo talento. In Italia è edito dalla Coconino Press e potete riscoprirlo e acquistarlo qui.
Jacula
Ideato da Barbieri, Cavedon e Cambiotti, rientra di diritto nelle riscoperte assolute del genere horror italiano, che in questi caso strizza molto l’occhio al sottogenere erotico. Questa mini-saga racconta di Jacula, una vampira che vive a fine Ottocento e che si ritrova ad essere insolitamente immune ai raggi del sole. Ogni sua storia è sovrapposta, in modo più o meno credibile, con qualche tematica di tipo erotico, con diversi punti di contatto con il genere della commedia all’italiana.
Dissacratorio, diretto e abbastanza facile da reperire (molti mercatini dell’usato mettono a disposizione quei numeri a prezzi stracciati), è sicuramente un fumetto di culto ed è assolutamente imperdibile per tutti i fan del cinema di genere.
Hellraiser – La brama della carne
Un piccolo capolavoro edito dalla Bao Edizioni, che riprende le tematiche della saga cinematografica ultra-splatter e la declina in modo piuttosto fedele alla storia originale. Fino a qualche tempo fa era reperibile anche in ebook, ad oggi sembra disponibile solo in edizione cartacea e, anche qui, è abbastanza facile da reperire.
Un fumetto molto interessante e sottovalutatissimo, di fatto: Psycho Pathia Sexualis è un fumetto antologico a cura di Miguel Ángel Martín (noto anche per Brian the brain). In questo caso abbiamo un’antologia di brevi racconti che illustrano pratiche masturbatorie e parafilie di ogni genere, storie di serial killer (John Wayne Gacy e Edward Gein vengono citati), il tutto con uno stile totalmente cinico e distaccato. Non è un horror nel senso gotico o più stretto del termine, ma certamente fa riflettere sugli orrori della società di oggi. Funny fact: in Spagna il fumetto ebbe il patrocinio del ministero della Cultura, in Italia (tanto per cambiare) venne censurato e messo sotto sequestro da parte della magistratura per un certo periodo. Nel 2001, l’editor Jorge Vacca venne assolto per non sussistenza del fatto.
SPLATTER (Rizzoli Lizard)
La rivista di Paolo Di Orazio è sempre stata uno dei punti di riferimenti assoluti del genere: edito dalla casa editrice ACME, almeno inizialmente, è stato successivamente ripreso e ripubblicato in tempi recenti. Un vero e proprio magazine, quindi, che ospitava anche servizi e speciali oltre a riportare fumetti con micro-storie horror anche qui estremamente debitrici al genere americano anni 80 e 90. Molto discusso perchè nel numero Primi Delitti (1989) riuscì a vendere circa 12.000 copie, ma venne sostanzialmente censurato e fu accusato di istigazione a delinquere durante un’interrogazione parlamentare, circostanza che finì per causarne, di fatto, la temporanea chiusura.
I Griffin (Family Guy) sono una delle serie più celebri a livello mondiale e più amate dai fan; le loro citazioni cinematografiche sono frequentissime, ed è anche per questo che non hanno faticato ad entrare nella cultura pop. Ma come è nata questa serie e come si è evoluta?
Le origini: Larry & Steve
Nella prima versione di Peter e Brian (all’epoca Larry & Steve) la coppia cane/padrone si presentava in questi termini decisamente diversi, e solo su spinta della Fox i due personaggi sarebbero diventati quelli che i fan conoscono.
L’episodio pilota di Larry & Steve fu ideato da Seth MacFarlane e venne prodotto da Hanna & Barbera, caratterizzato da tipiche situazioni slapstick e privo, almeno in prima istanza, delle istanze satirico-demenziali che poi diventarono un marchio di fabbrica dei Griffin. L’episodio fu finanziato inizialmente con 50.000 dollari, molto poco se si pensa che di solito gli investimenti per una serie sono di almeno tre ordini di grandezza superiori.
Griffin vs Monty Python
Istanze demenziali che sembran derivare almeno in parte dal feeling dei Monty Python, con le medesime sceneggiature basate sul paradosso, sul flashback scollegato dalla trama, su elementi parodistici e sull’esagerazione. Quello che cambia, tuttavia, sembra essere lo spirito che anima le due creazioni: da un lato un’evoluzione dello humour inglese nella direzione suggerita dal teatro dell’assurdo di Ionesco, dall’altro la demenzialità di film come Hot shots! o Una pallottola spuntata che in seguito sarebbe diventata di natura politica e sociale.
L’umorismo dei Griffin deve molto a quello dei Monty Python, che era quasi sempre colto, raffinato, spesso brutale e mai inintellegibile o fine a se stesso. Lo dimostrano questi frammenti di Flying Circus in cui parodizzano un film d’essai e l’idea di deja-vu.
Griffin vs Fritz the cat
Non si tratta ovviamente del primo cartone per adulti a sfondo esplicitamente violento o sessuale: basterebbe ricordare anche solo Le nove vite di Fritz il gatto, per convincersene, il quale pero’ deriva dalla cultura beat e hippy anni 70, mentre i Griffin sembrano prendere spunto da ciò che fa ridere gli americani oggi (l’esempio più eclatante mi sembra ad esempio Borat: un comico criticato, amato o odiato senza mezzi termini).
Griffin vs Simpson
Si sono sprecati negli anni i parallelismi tra Griffin e Simpson, ad esempio, per quanto ognuna delle due serie presenti peculiarità che li rendono difficilmente paragonabili: ed un celebre mashup che mescola i personaggi di entrambi le serie di qualche tempo fa (l’episodio E alla fine si incontrano della tredicesima serie) rende omaggio proprio a questo aspetto.
Questo è un altro esempio di contrapposizione modello Simpson in cui si satireggia sia il raffronto Peter – Homer che, soprattutto, la figura del belloccio George Clooney al quale si perdona qualsiasi cosa.
Che i Griffin siano una serie longeva, del resto, è confermato dal grande successo e popolarità che si sono ritagliati in questi anni, arrivando (a partire dalla prima serie del 1999) a ben 17 stagioni e la bellezza di 329 episodi ad oggi.
Un altro frammento significativo è, a mio avviso, quello in cui si ironizza profeticamente su una pandemia.
Lo slapstick dei Griffin
Nei Griffin lo slapstick è comico quanto portato alla realtà, come è possibile notare da molte gag tipiche dei cartoni classici della Disney in cui la fisicità dei personaggi diventa organica – non più pupazzi animati bensì esseri umani che si sfracellano tuffandosi in un deposito di monete.
In questo la presenza dello splatter a sorpresa, inserito cinicamente anche in contesti in cui non te lo aspetteresti, è una caratteristica tipica di molte gag dei Monty Python: ad esempio nella gag del Signor Creosoto, oppure quando il personaggio volante di Terry Gilliam viene abbattuto con un colpo di fucile.
Peculiarità di Family Guy
I Griffin, peraltro, sono molto abili a sceneggiare l’attualità e a ridicolizzarla, come nel frammento in cui Peter era “nella polizia di Instagram” per censurare i bikini bridges in voga, generalmente, d’estate.
Credo che i Griffin siano una serie assolutamente innovativa e ricca di pregi ed originalità, per quanto sia dotata di una discontinuità di fondo: i primi episodi hanno ceduto il passo alla demenzialità fine a se stessa, soprattutto nelle ultime stagioni, in cui la trama è diventata poco più di un fatto incidentale. Ed in cui la parodia dell’action movie e della violenza insistita di certe pellicole evidenzia, già da sola, un paradosso.
Non è raro che mi sia capitato di vedere episodi dei Griffin molto divertenti, alternati con puntate francamente difficili da seguire e, alla lunga, meno umoristiche di quanto si vorrebbe pensare.
L’amore per il cinema di questa serie
Che gli autori dei Griffin amino il cinema è fuori discussione: moltissime trovate come quella della lotta eterna tra il pollo gigante e Peter sono tipicamente Pythoniane e, al tempo stesso, ironizzano sulla durata e la plausibilità delle scazzottate degli action movie USA, ridicolizzandoli e omaggiandoli al tempo stesso.
Questa tendenza cinematografica è stata esaltata all’ennesima potenza in un costossissimo e folle episodio: quello in cui una storia banale come il licenziamento di Peter dalla fabbrica di birra viene virtualmente riletto da tre registi, tra i quali figura anche Quentin Tarantino. Un esercizio di stile in piena regola, insomma: l’episodio omaggia Kill Bill Vol.1 e Peter torna a vendicarsi del capo vestendosi, per l’occasione, non da Bruce Lee ma da clown di Mc Donald’s. E lo splatter, ovviamente presente, richiama quello del violentissimo epilogo nel ristorante, con la Sposa circondata dai feroci assassini.
C’è poco da aggiungere, a riguardo: la puntata è un piccolo capolavoro della serie, un autentico spasso per qualsiasi cinefilo che, peraltro, assisterà alla stessa storia girata da Wes Anderson (con tanto di spocchia ottocentesca, voce fuori campo e lustrini) e naturalmente da Michael Bay, in cui Peter è un operaio muscoloso e sciupafemmine e tutto l’episodio è caratterizzato da personaggi muscolosi e situazioni tipiche di film anni novanta come Giorni contati.
https://www.youtube.com/watch?v=3tGwD-0zDso
Umorismo sopra le righe
Sia Griffin che Monty Python, in certi passaggi, non riesci a coglierli: nei Griffin succede perchè quel tipo di umorismo si lascia, a mio avviso, travolgere dalla sua stessa foga, nella smania di mostrare cose sempre originali certi passaggi, semplicemente, sono non sense puro. Nei Pythons invece succede perchè facevano satira su personaggi dell’epoca, e sarebbe come se tra 30 anni provassimo a vedere le imitazioni di Fiorello senza conoscere gli originali a cui si riferisce. Col tempo, poi, ci si stanca e la serie perde mordente, è inevitabile – e fisiologico se vogliamo. Stesso problema che presentano buona parte degli episodi dei Griffin e gli ultimi del Flying Circus dei Monty Python, ad esempio, che non riescono più a sorprendere come prima (per quanto l’umorismo colto del quintetto inglese rimanga comunque una spanna superiore, a mio umile avviso, a qualsiasi trovata folle presente in Family Guy).
Creare momenti memorabili, del resto, nel bene o nel male non è una dote di chiunque, ma spesso non basta per scatenare la forza effettivamente comica di un episodio.
L’effetto collaterale è che molte delle gag dei Griffin – ed è l’unica sostanziale critica che mi sento di fare, ad oggi – fanno ridere esclusivamente di riflesso, ma in molti casi risultano poco comprensibili e quasi contorte nel loro incedere.
Un umorismo dissacrante
In genere, i Pythons erano attentissimi a scegliere i bersagli della propria satira, e provocando in modo borderline ed avendo l’astuzia di ricorrere alle meta-battute per sdrammatizzare. Un esempio che tutti conoscono è tratto dal Royal Episode 13, uno dei più popolari in assoluto dei comici nel quale si incentrano molti passaggi sul fatto che addirittura la regina d’Inghilterra debba guardare lo show. Dopo aver caricato i vari episodi, la parte finale vira su uno humour più macabro della media: nello sketch del becchino (Undertakers sketch, che non è non quello dei becchini che si rinchiudono nella bara a vicenda, bensì un altro con i soli Idle e Cleese), un figlio annuncia alle pompe funebri della madre appena scomparsa. Per tutta risposta, non solo gli viene suggerito di mangiarsela, ma anche di scavare una fossa per vomitarci dentro nel caso in cui dovesse pentirsi in futuro di averlo fatto. L’episodio si conclude con la reazione (molto probabilmente simulata) da parte del pubblico, che era effettivamente presente in studio durante lo show e che protesta duramente per quelle battute, arrivando ad inscenare una rissa con gli attori: a quel punto, titoli di coda.
Ci sarebbe potuto stare anche nei Griffin, dove viene dissacrata letteralmente qualsiasi cosa: l’uso di marijuana e di droga in genere, gli stereotipi sulle razze, il sessismo (quasi sempre dal punto di vista del maschio medio americano USA, peraltro), il provincialismo, il cinismo (spesso del tutto gratuita, c’è da dire), le controversie politiche. Ci sono anche la sospensione del tempo in momenti interminabili (il ginocchio di Peter), i flashback quasi sempre scollegati dalla trama (e a volte un po’ stravolti dal doppiaggio, purtroppo), la parodia di film e serie celebri (negli USA) con il sottofondo rassicurante dei musical anni 60 e del lounge di Frank Sinatra.
Quella che segue è una tipica gag riuscita dei Griffin, ad esempio: una gag in cui viene evidenziata l’incapacità latente del protagonista a sapersi districare nelle situazioni difficili, e viene inoltre parodizzato il feeling tipico (esagerato quanto impropabile) dei film d’azione alla Steven Seagal.
Un umorismo controverso
Non mancano momenti più criticabili, ovviamente: la gag (considerata sacrilega dal comico Daniele Luttazzi, non a torto) evidenzia quanto possa essere insidiosa certa comicità demenziale: che in questo caso, per inciso, banalizza un orrore reale (i rastrellamenti nazisti) contrapponendolo all’innocente fame di patatine di Peter.
https://www.youtube.com/watch?v=RB1BQvDx6Kw
La questione si potrebbe risolvere in questi termini: su cosa si può fare umorismo o satira che sia? Su qualsiasi cosa, verrebbe da dire: pero’ la tua scelta, soprattutto nella nostra tradizione culturale, dice molto di te, quasi tutto. Perchè se fai umorismo sulle vittime del nazismo è un conto, decisamente un altro è se lo fai sui nazisti (prendo l’esempio politico perchè, tra quelli controversi, mi sembra il più chiaro da esporre).
Mettere tutto sullo stesso piano come fa l’autore, alla fine, porta su una strada scivolosa, in cui la direzione del qualunquismo è quasi obbligata, soprattutto in tempi in cui certa politica pericolosa si è appropriata di termini come “buonismo”. E non è che, in definitiva, basti essere cinici e senza pietà verso chiunque per far ridere: perchè quello, al massimo, è un criterio che potrebbe garantirci popolarità sui social networ.
Bisogna capire, in definitiva, cosa faccia ridere noi, perchè in genere quello che ci fa ridere (una gag su Anna Frank, su un omosessuale o su un politico americano) finisce per dire parecchio di noi stessi.
Quello che è sicuro è che, ad oggi, i Griffin si sono insidiati nella cultura pop, uscendo dalla nicchia che li caratterizzava nelle prime serie (disegnate in modo più approssimativo rispetto ad oggi, ovviamente), e cedendo il passo ad episodi di qualità altalenante: a volte riusciti, riuscitissimi e quasi perfetti, altri semplice giustapposizione di frammenti scollegati tra di loro, dall’effetto spiazzante quanto fine a se stesso.
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