Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Un gruppo di militari italiani durante la seconda guerra mondiale finisce in un’isola greca, e decide di rimanerci per diversi anni, perdendo ogni contatto con il mondo esterno. Nel frattempo la guerra finisce e il gruppo viene a saperlo solo a cose fatte: non tutti, a quel punto, decideranno di tornare, e chi tornerà non rimarrà pienamente soddisfatto.

    Parlare oggi di un film del genere, uscito nel 1991 e ambientato in piena seconda guerra mondiale – un periodo storico con cui l’Italia non è riuscita a pacificarsi nemmeno oggi, dato che rappresenta una delle memorie storiche più divisive di sempre – è un’operazione tutt’altro che banale. Ne possiamo cedere alla malsana tentazione di considerare Mediterraneo un film romantico o una commedia come tante, a dispetto di alcune locandine che all’epoca forse suggerivano questo, quantomeno a livello iconografico. Certo, l’aspetto relazionale è al centro della trama, e la regia è abile a delinare fin da subito una serie di rapporti e relazioni tra commilitoni puramente umane, in tensione al punto giusto e mai macchiettistiche. Ma il punto del film è la fuga di qualcuno da qualcosa, ed è il tema che attraversa l’intera pellicola.

    Per quanto possa sembrare secondario, in effetti, ciò che fonda Mediterraneo è il saggio Elogio della fuga scritto dal medico e filosofo Henri Laborit, sulle parole del quale si apre il film: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare“. È questo il tema portante del film, e la narrazione vuole sembrare puramente metaforica in tal senso, senza peraltro sforare nel didascalico. Il riferimento è a tutti gli aspetti essenziali della vita umana, che vanno dalla ricerca dell’amore al lavoro che siamo costretti a svolgere per sopravvivere, per i quali la fuga – intesa come necessità di cambiamento – è spesso l’unica via d’uscita possibile.

    I soldati protagonisti non sembrano credere pienamente in ciò che fanno, e progressivamente smantellano le proprie certezze alla ricerca della propria identità di fondo: cosa che alcuni non troveranno mai, o continueranno a cercare, mentre il mondo continuerà a girare a modo proprio e nostro malgrado. Sembra anche interessante notare come si tratti dell’ennesimo film ambientato in un isola deserta, un po’ come travolti da un insolito destino in grande, con la comunanza narrativa di protagonisti che prima sembrano essere nel panico all’idea di restare su un’isola che sembra ostile e scollegata dalla civiltà, salvo poi prenderci gusto e cambiare opinione. In un certo senso Mediterraneo è anche un saggio sul cambiamento d’opinione, sulla modifica di una prospettiva solida o cristallizzata, ed è un film che sa affrontare la tematica del cambiamento politico-sociale con una lucidità che pochi altri possono vantare. Molte sequenze sono peraltro potentissime evocativamente: basti citare quella in cui i militari incontrano lo spacciatore di oppio, lasciandosi andare a considerazioni beffarde contro il regime fascista, facendosi rubare le armi poco dopo, per poi arrivare a concludere che il mondo sarebbe migliore se si trovasse dell’oppio al posto degli arsenali da un giorno all’altro. Siamo nel pieno degli anni Novanta, del resto appena un anno dopo l’uscita di Mediterraneo avremmo scoperto Tangentopoli – neanche il tempo di riprendere fiato dal tragico periodo terroristico. Quello di Salvatores non è un film spezzettabile o “memetico” (visionarlo a spezzoni, come proposte da alcune pagine social di cinema, rischia di essere particolarmente inefficace): va visto dall’inizio alla fine, rinviando ogni considerazione all’ultima, tragica eppure bellissima conclusione del film. E se vi state chiedendo come si inseriscono l’amore in tutto questo e subito detto: l’amore è l’emblema del desiderio, per soddisfare il desiderio bisogna bisogna seguire le linee di fuga, o forse quelli che Deleuze e Guattari chiamavano flussi. Ci attiviamo in base a ciò che viviamo, siamo creature interiormente “situazioniste” e siamo in grado di ricostruire l’esistenza anche da un piccolo villaggio abbandonato, emblema di un paradiso terrestre (oggi devastato dal turismo, sembra suggerire quel meraviglioso finale). Sono insomma i flussi del cambiamento e delle nostre esistenze ad essere in gioco: fanno parte anch’essi della politica (e dello sconforto che ingenera periodicamente), e ci costringono a deviare dai percorsi safe proprio perchè, come suggeriva Laborit, la fuga è anche sinonimo di coraggio.

    A questo punto l’analisi del film potrebbe proseguire dal finale, che ci sentiamo liberi di spoilerare dopo tutti questi anni (chiunque non abbia mai visto Mediterraneo dovrebbe farlo prima di continuare a leggere, in teoria): partiamo dalle parole pronunciate dal personaggio interpretato da Diego Abatantuono (il sergente Lo Russo) il quale, ormai vecchio e disilluso, scopriamo aver abbandonato l’Italia in cui desiderava ardentemente rientrare, il tutto perchè “non me l’hanno fatta cambiare“. Quasi come il soldato sopravvissuto di Nato il quattro luglio, Lo Russo diventa l’emblema di ciò che in Italia non cambia, del favoritismo cristallizzato e del conservatorismo sopravvissuto a due guerre. Perchè nulla non può cambiare, sembra suggerire una sconsolata narrazione, e perchè già nel dopoguerra si era deciso di annettere l’Italia ad una esclusiva e auto-referenziale comfort zone. Ed è riavvolgendo a ritroso il film che ci rendiamo conto in maniera limpida del senso della storia, delle scelte che sono state fatte dai soldati italiani finiti per caso su un’isola (quella di Megisti, nella realtà): dopo aver perso i contatti con il centro di comando, e superato il panico iniziale, si adeguano allo stile di vita posto. Non solo: scoprono usi e tradizioni del posto, fanno nuove amicizie, fanno nascere amori e relazioni che li segneranno.

    Ma i loro sforzi sembrano vanificati dal mondo in cui viviamo, da un lato simboleggiata della morte improvvisa inaspettata dell’ex prostituta che si era sposata con uno di loro (come a dire: nulla dura quanto vorremmo), dall’altro con un’Italia che secondo il regista non cambia non cambierà mai, e che Lo Russo – inizialmente ombroso e ligio al dovere, poi progressivamente più “libertario” – rappresenta come metafora vivente a pieno titolo. Si tratta anche una delle interpretazioni di Diego Abatantuono più lontane dagli stereotipi dei personaggi a cui siamo abituati, e che conferisce un’ulteriore nota di merito ad un lavoro che, per inciso, è stato tratto dal romanzo Sagapò di Renzo Biasion.

    Salvatores è un regista attivo e prolifico anche oggi, peraltro. E tutte le volte che diciamo che il cinema italiano è morto, a questo punto, ci facciamo forse trascinare da un’enfasi astratta, continuiamo a predicare nel deserto che il vero cinema è finito e che ormai vanno di moda solo le commedie. Probabilmente solo quest’ultimo aspetto è vero, ma è anche possibile che si tratti di un riflesso di noi stessi, di ciò che noi vogliamo vedere. Vediamo commedie perchè vogliamo farlo! Del resto, le alternative non mancano.

    Nessuno ci impone di vedere commedie romantiche ad ogni costi, eppure sembra che ogni volta nelle discussioni non si parli d’altro, o peggio ancora, non si voglia parlare d’altro. Questo probabilmente era vero anche nel 1991, anno in cui Salvatores finisce di girare Mediterraneo e lo distribuisce nei cinema (verrà trasmesso in TV alla fine dell’anno successivo), per cui facciamo i conti con questo effetto collaterale ma guardiamo la sostanza, che ci suggerisce che Mediterraneo non è “il” capolavoro ma è sicuramente un gran film. E ciò che rende Mediterraneo una piccola gemm è proprio questo suo porsi in maniera antagonista, come critica sostanziale al mondo in cui viviamo, quasi in senso primitivista, sottendendo che la politica non è un’astrazione, fa parte della vita di ognuno di noi, o se preferite: chi non fa politica, alla fine, semplicemente la subisce.

    L’analisi del film sarebbe incompleta se non citassimo la critica sullo stereotipo sugli “italiani, brava gente” che il film sembra (forse inconsciamente) promulgare: i soldati sono infatti insolitamente buoni, non hanno parvenza da militari indottrinati al fascismmo e, anzi, in molte fasi il film strizza l’occhio allo spettatore puntando sull’empatizzazione – rischiando, secondo alcuni, di sminuire la tragica realtà della Seconda Guerra Mondiale. Da qui a parlare di revisionismo probabilmente ce ne passa, anche solo per la scena dell’oppio di cui dicevamo. L’accusa di revisionismo, in sostanza, è quantomeno rivedibile, anche perchè i presupposti del film suggeriscono che i soldati siano stati abbandonati dall’inizio e che credano molto poco in ciò che fanno (Ci stavano mandando in missione a Megisti, un’isola sperduta nell’Egeo. La più piccola, la più lontana. Importanza strategica: zero. Era una missione OC, di osservazione e collegamento. Eravamo stati incaricati di prendere l’isola e segnalare eventuali avvistamenti. Mi avevano dato un gruppo di uomini presi qua e là. Superstiti di battaglie perse, vagabondi di reggimenti sciolti, un plotone di coscritti, come me, che erano sopravvissuti fino a quel momento per puro caso.“). Senza dimenticare che il tenente si augura di non dover sparare in arrivo nell’isola, ciò dovrebbe ricordare che Mediterraneo non è un film propriamente di guerra, ma ricorda più una via di mezzo tra i toni di Train de vie e (viene in mente) Underground di Emir Kusturica (anche in quel caso si tratta di un gruppo di persone che si isolano durante una guerra, e non vengono a sapere per tempo della sua conclusione). Senza contare la figura quasi mitologica di Corrado, disertore dichiarato (Claudio Bisio), che si allontanerà in barca seguendo, anche qui, il flusso del desiderio che lo caratterizza dall’inizio, e del quale non conosceremo nè l’esito del viaggio nè se sia ancora vivo in seguito. Sembra insomma che, come si diceva all’inizio, il film sia più filosofico che materialistico, e che offra un solido patto regista-spettatore da rispettare.

    Non bisogna dimenticare che la direttiva principale ed il nucleo tematico del film è incentrato sulla fuga, sull’allontanamento volontario dalla comfort zone, utilizzando il linguaggio autentico e privo di fronzoli del cinema nostrano, quello più vicino al cinema verità, quello che rappresenta eroi ben lontani dall’ideale e, in modo forse paradossale, umanamente anti-eroici. Le storie dei soldati sono vicine a quelle che ognuno di noi, nella vita, potrebbe essersi trovato a vivere. Ed è questo che rende totalmente di culto questo film di Salvatores, e mai abbastanza visto e lodato.

  • Hot shots!: Jim Abrahams crea il film parodico-demenziale seminale

    Il tenente Topper, cacciato dalla Marina degli Stati Uniti, viene richiamato per una missione di vitale importanza…

    In breve. Un cult degli anni 90, girato sull’onda di una demenzialità esasperata, ormai fuori moda, ed ereditata in parte da serie TV come “I Griffin”. Risate continue e riferimenti ad altre pellicole (tra cui Top gun) da  veri intenditori. Per inguaribili nostalgici.

    Infermiera, gli controlli il pene per vedere se ce l’ha più lungo del mio.

    Chicca dei primi anni 90, simbolo di una generazione di film-maker fuori dalle righe, che hanno fatto della parodia demenziale un autentico manifesto: Abrahams ha scritto (e diretto, in alcuni casi) Una pallottola spuntata, Hot Shots!, L’aereo più pazzo del mondo nonchè il recente Scary movie 4. Il tenente Topper, lo strabico “Sguardone” e “Carne morta” (nomen omen) sono solo alcuni dei protagonisti di questo demenziale, a tratti cartoonesco, film che è ben noto agli spettatori italiani per essere passato svariate volte sulle reti private. Situazioni surreali, umorismo a volte privo di logica e giocato su non-sense parodistici, battute che sbeffeggiano film famoso e che mette in ballo anche il papa, protagonista di un incontro di boxe.

    Il tenente Topper, interpretato da Charlie Sheen e scelto per l’evidente somiglianza con Tom Cruise, firma la parodia ufficiale del celebre film ottantiano “Top Gun“: un mix di situazioni che riprendono il film originale, e battute che meritano di essere ricordate: il protagonista è un solitario (ma non gioca a carte), l’ammiraglio (Lloyd Bridges) che ammette di non aver capito “un beneamato cazzo” anche se vuole “mettere i puntini sulle A”. La sua rivalità con un commilitone si riduce ad una mitica battuta che gli viene rivolta all’inizio del film: “se non ci fosse la signora presente, ti farei a pezzi come o’ capitone e natale“. Impressionante la media di gag del film: ne ho contate circa quattro al minuto, una sequenza continua di risate nettamente superiore a qualsiasi parodia possa venirvi in mente oggi.

  • The divide: l’horror distopico che riflette sulla socialità e la solitudine

    In un futuro prossimo New York è devastata dal nucleare, ed otto persone si ritrovano nel sotterraneo di un palazzo, allestito a mo’ di rifugio antiatomico. Poco dopo qualcuno inizia a forzare l’ingresso…

    In breve. Ottimo saggio di Gens di genere post-apocalittico (dopo il deludente, e vagamente pretenzioso, Frontiers), visto in un’ottica introspettiva – insolita, quanto apprezzabile – e soprattutto concreta e poco spettacolarizzata. Merita, senza dubbio, una visione: tra i migliori del genere degli ultimi anni.

    Con “The divide” Xavier Gens, dopo aver scomodato la critica a blaterare ripetutamente di new horror “alla francese”, vira quasi completamente genere, e si dedica al post-apocalittico: un genere spinoso, storicamente difficile da rappresentare sullo schermo, che raramente ha visto prodotti di reale qualità – se non per le notissime eccezioni (Carpenter in primis: Fuga da New York, e soprattutto Fuga da Los Angeles).

    Se è vero che di esempi del genere non mancano, neanche nei mai troppo osannati anni ottanta italiani (dove era soprattutto l’artigianalità a farla da padrone), resta un dato di fatto che gli sceneggiatori Karl Mueller e Eron Sheean abbiano prodotto un intreccio avvicente, perchè coglie nel segno, mostrando “quel tanto che basta” a fare un buon film. Niente inutile spettacolarizzazione delle trama, niente effetti speciali o eccessi di digital art (se non negli splendidi attimi conclusivi), ed un’idea fissa in mente: mescolare le dinamiche del cinema di genere claustrofobico (alla Wes Craven degli esordi, per capirci) con quelle post-apocalittiche (ed annessa sociologia pessimista), e tirare fuori un nuovo lavoro originale. Che risulta originale perchè, alla fine, “The divide” porta una ventata di aria fresca al genere, a dispetto delle varie esalazioni tossiche di cui è disseminata la trama.

    Non era agevole farlo, vista la sovra-abbondanza di emuli che, alla fine dei conti, puntano quasi sempre un nemico preciso (si veda Cloverfield, o il più recente The Gerber Syndrome), e quasi sempre – aggiungerei – inserendo qualche morto vivente e/o un novello Godzilla a guastare i piani dei protagonisti. La prevedibilità del post apocalittici è ben nota, ma “The divide” è diverso da quei film per una varietà di ragioni: la più importante è legata al fatto che è incentrato sui caratteri dei protagonisti, a formare un campionario di esseri umani tra cui sarà difficile non immedesimarsi. Un post-apocalittico di genere, introspettivo e profondamente umano (quanto feroce, a suo modo).

    Questo film è in fondo la storia di un viaggio estremo che rappresenta l’evoluzione dei caratteri, delle condizioni (fisiche e psicologiche) vissuto sulla pelle di otto tipi umani: personaggi che lottano per la sopravvivenza, con le consuete speranze malriposte e le immancabili conseguenze negative, degne degli esperimenti sociali visti in The experiment (Hirschbiegel, 2001).

    Gens resta un fan dell’horror e non risparmia sulla dose di terrore del film, inserendo innesti che sembrano ispirati a veri e propri snuff e, soprattutto, costruendo un crescendo che culmina in un finale memorabile, che colpisce e affonda per quanto, per forza di cose, potrà non piacere a tutti. La claustrofobia diventa la sintesi del vero orrore di “The divide“: essere costretti in una cantina angusta, razionando cibo e aria, mentre il mondo attorno finisce per andare letteralmente a rotoli.

    Certo, “The divide” non è privo di difetti: il ritmo del film non è uniforme, e spesso il voler indagare sui cambiamenti dei protagonisti (o della natura umana, se vogliamo metterla sul piano generale) in presenza di condizioni estreme rischia di sconfinare in quel cinema “da intellettuali” interessante, forse, ma a forte rischio di appensantire inutilmente la visione, anche per via degli eccessi presenti in più parti del film. Gens è stato comunque attento sia alla forma che alla sostanza, per cui il rischio di restare insoddisfatti dalla visione è limitato rispetto alla media.

  • It’s the Arts. È il mondo dell’arte, non puoi capire. Parola dei Monty Python

    Episodio: It’s the Arts (or: The BBC Entry to the Zinc Stoat of Budapest) 1.6 (“Monty Python”, 1969)

    Trasmesso il 23 novembre 1969 e registrato nel mese precedente dello stesso anno, l’episodio numero sei del Flying Circus, subito dopo l’introduzione rituale con il consueto “It’s…” (affidato al naufrago Palin), mentre l’intero episodio registra un ennesimo, sostanziale successo – cosa che può dirsi valida per tutti e cinque gli episodi precedenti. Un caso davvero notevole, del resto, di TV elaborata, mai banale e – non per questo – inintellegibile o per “pochi eletti” – in fondo i Monty Python sono la prova concreta che spesso è la tecnica dell’attore o della regia ad intrattenere e far ridere, non i contenuti in sè. La verbosità dell’episodio, la negazione della sintesi, l’eccesso voluto e ostentato di parole per esprimere concetti semplici riesce a rendere il tutto spassoso nonchè archetipo di umorismo moderno, se si pensa ad esempio allo stile unico di Mel Brooks o ad alcune trovate surreali dei Griffin.

    Dopo un breve corto animato di Gilliam (con uno scarabocchio autografato prende vita e cerca di nascondersi tra grafici, elenchi telefonici e fotografie), Johann Gambolputty inaugura un impronunciabile gioco di parole, nel quale i Python si cimentano con grandissima capacità recitativa: durante una trasmissione di approfondimento sui compositori classici, si parla di uno poco noto e che andrebbe tributato degnamente – ed il cui nome completo è Johann Gambolputty de von Ausfern-schplenden-schlitter-crasscrenbon-fried-digger-dingel-dangel-dongel-dungel-burstein-von-knacker-thrasher-apple-banger-horowitz-ticolensic-grander-knotty-spelltinkle-grandlich-grumbelmeyer-spelterwasser-kurstlich-himbeleisen-bahnwagen-gutenabend-bitte-ein-nürnburger-bratwurstl-gerspurten-mitz-weimache-luber-hundsfut-gumberaber-schönendanker-kalbsfleisch-mittler-aucher von Hautkopf of Ulm. Riuscire a fare ridere solo per la lunghezza del nome (e per le circostanze che ne derivano) non era da tutti, ed i Pythons ci riescono ancora una volta. Non-Illegal Robbery è un ennesimo classico della comicità “ad inversione”, in cui un gruppo di gangster organizza un piano elaboratissimo per acquistare un semplice orologio, sketch che poi degenera in un climax delirante. Climax che si affianca, subito dopo, con l’opinione immancabile dell’uomo della strada, a cominciare da ovvietà ridondanti (“If there were fewer robbers there wouldn’t be so many of them, numerically speaking“) a messaggi insospettabili affidati ad innocenti vecchine (“I think sexual ecstasy is over-rated“). Poco dopo inizia Crunchy Frog, un richiamo esplicito alla Whizzo Chocolate Company (pubblicità fake del primo episodio) nonchè piccolo capolavoro di satira portata all’eccesso mediante il disgusto: da un lato, un poliziotto irreprensibile ed il suo collega in preda alla nausea, dall’altro il raffinato proprietario di una fabbrica di cioccolatini che descrive in grande stile gli ingredienti più disgustosi che utilizza per prepararli. Uno sketch puramente corporale, quindi, che possiede un possibile richiamo alla parodia de “La grande abbuffata” che i nostri proporranno nel film Il senso della vita. The Dull Life of a City Stockbroker presenta ancora una volta la vita dello stereotipato agente di borsa Michael Palin, preda di una vita monotona che in realtà non vuole o non sa vedere: non solo, infatti, non nota gli amanti della moglie nascosti in casa sua, ma nemmeno bada agli omicidi che avvengono a fianco a lui, arrivando a ritrovarsi dentro un conflitto a fuoco tra militari, ovviamente (nel perfetto stile straniante dei Python) nel bel mezzo della periferia di Londra. Red Indian in Theatre gioca sul personaggio di un indiano nativo d’America appassionato di teatro, mentre cerca di esprimere complesse critiche di genere, utilizzati i pochi vocaboli che il suo stereotipo gli permette. A Scotsman on a Horse ricorda una parodia ultra-accelerata del finale del film Il laureato, con ambientazione scozzese (anche qui la capacità di sintesi dei nostri è stata pregevole), mentre il conclusivo Twentieth-Century Vole (il logo della Twentieth Century Fox è stato sostituito da un’arvicola, vole) presenta una satira hollywoodiana: un produttore molto ricco, idolatrato dai suoi sceneggiatori, propina idee banali per film secondo lui fantastici, ricevendo l’approvazione a prescindere e liberandosi, uno per volta, di tutti. Nella disperazione del momento, messi sotto pressione (la consueta, delirante pressione a cui era sottoposto l’esaminando durante il colloquio di lavoro dell’episodio precedente) uno dei poveretti si inventa la parola splunge per uscire dall’imbarazzo (il suo significato è it’s a great-idea-but-possibly-not-and-I’m-not-being-indecisive). Si tratta anche di uno dei rari episodi in cui l’animatore e regista Terry Gilliam compare in veste di attore.

    Le 45 puntate del Flying Circus sono disponibili, in inglese sottotitolato in italiano, all’interno di un bel cofanetto in 7 DVD, che trovate facilmente su Amazon: Monty Python’s – Flying circus (complete series).

  • Salon Kitty: il film erotico più politico che ci sia

    Kitty Schmidt, tenutaria di un bordello berlinese, in occasione dell’inizio della guerra viene costretta dal Reich ad assumere un gruppo di prostitute di fede nazista. L’idea è quella di compromettere i clienti che lo frequentano (ufficiali delle SS) spiandone di nascosto i comportamenti e le affermazioni.

    In breve. Tinto Brass gira un film politico-satirico, anche a costo di attenuare un po’ la componente erotica e quasi nella tradizione di Aristofane: il sesso per mettere in ridicolo (e combattere) il nazismo. Ne risulta un capolavoro assoluto del genere.

    Prima del controverso Caligola, Brass si occupa lucidamente del Potere e delle sue declinazioni, mostrandole come pure perversioni ai danni dei più deboli. Mostrando un Salon Kitty realmente esistito, la storia si sviluppa secondo canoni estetici felliniani, e mostra un’atmosfera festosa, eccessiva, decadente, in cui ogni ufficiale finisce per lasciarsi andare di fronte a fascino delle prostitute, peraltro molto curate dal punto di vista delle movenze e dei costumi.

    Dopo aver consumato sesso in qualsiasi forma e variante immaginabile (viene anche mostrato un ufficiale che si traveste da donna ed un altro che utilizza un pane a forma di fallo), le parole iniziano a pesare sempre di più: le prostitute (in realtà donne selezionate dalle SS su base nazionalistica) raccolgono informazioni sui clienti, stendono rapporti dettagliati ed il regime punisce chiunque venga considerato potenziale disertore, o non abbastanza fedele alla patria. Gli intenti satirici sono lampanti: mostrando il lato sessuale e fisico degli ufficiali (che normalmente vedremmo uccidere e dare ordini in divisa), Brass li riporta (come da tradizione del genere satirico) ad una dimensione umana, tangibile, ed usa questo strumento per mostrarne il degrado.

    La vera storia di ciò che accadeva al Salon Kitty sembra risalire al diario dell’ufficiale Walter Schellenberg (Il labirinto), pubblicato nel 1956, ed al quale seguì un’estensione della storia a cura di Peter Norden nel libro Madam Kitty (1973). Il fatto che il bordello fosse utilizzato come misura di spionaggio per svelare l’identità di ufficiali infedeli al regime, peraltro, è un fatto realmente accaduto nella Germania di quegli anni. Durante la guerra il bordello venne molto frequentato dai nazisti, per poi essere definitivamente abbattuto da un attacco inglese nel 1942. La Schmidt, proprietaria del luogo, non svelò mai l’identità di nessuno dei suoi datori di lavoro, fino alla sua morte (1954).

    Diversamente da altri film di Brass, in cui la componente erotica è schiacciante (tanto da sembrare forzata, in certe circostanze), in questo film è presente quanto misurata: non mancano scene di sesso ed i soliti nudi frontali, ovviamente, oltre alla predilizione del regista per i fondoschiena femminili a regola d’arte, e la rappresentazione di perversioni di ogni genere, sempre funzionali a mettere in ridicolo le smanie di potere di certuni. Kitty Kellermann (alter ego della reale Kitty Schmidt), protagonista della storia nonostante il suo professarsi apolitica, sarà il punto focale per risolvere la trama assieme alla prostituta e passionale Margherita (Teresa Ann Savoy), innamorata di un ufficiale vittima del tranello architettato dal regime. Se quest’ultima love story assume connotati digressivi, non lo fa con particolare insistenza – per cui resta funzionale a giustificarne la scelta.

    Salon Kitty, se non è il miglior film di Brass, è sicuramente uno di quelli che ha conferità dignità al genere erotico, forse il più maltrattato in assoluto dopo l’horror, al quale nulla puoi chiedere se non di riscaldarti un po’ la serata (in fondo questo puoi chiederlo anche ad un buon horror, ma questa è un’altra storia). Brass dimostra semplicemente che, se hai qualcosa da dire e possiedi i mezzi per girare, il film è fatto e anche i soliti moralisti dovranno, per una volta, rassegnarsi all’idea. Tra le curiosità del film, un gran numero di riprese in presenza di specchi, il che richiede una certa perizia registica che valse a Brass, secondo IMDB, il nomignolo di “re degli specchi“.

    Salon Kitty, dove vederlo?

    Il film è disponibile in noleggio online su Apple iTunes.

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