Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • 31: Rob Zombi reinventa lo slasher, ancora una volta

    31: Rob Zombi reinventa lo slasher, ancora una volta

    USA, Halloween 1978: cinque persone vengono rapite da un gruppo di sconosciuti per partecipare ad un sadico gioco di sopravvivenza.

    In breve. Trama un po’ scarna e sulla falsariga dei suoi precedenti di inizio 2000; piuttosto violento, ricco di colpi di scena e di personaggi deformi, folli e caricaturali. Un horror che riprende il “già visto” pur facendo riferimento ad un immaginario del tutto inedito: da vedere.

    I presupposti di questo nuovo film di Rob Zombi sono se non altro curiosi, in quanto basati sulla singolare statistica che ad Halloween scompaiono più persone di qualsiasi altro giorno dell’anno: girato in soli 20 giorni, sembra un film all’insegna del “flusso di coscienza” del regista, in grado di catapultare protagonisti borderline dell’America anni ’70 in un inferno senza via d’uscita apparente. Nel farlo propone una sequela di villain da fumetto horror, tutti accomunati da un “head” nel nome (Doom-Head, Sex-Head, Sick Head e così via) e dal provenire dallo staff di un circo.

    Non è la prima volta che Zombi caratterizza i suoi personaggi in questi termini, ed è impossibile non notare il suo, ormai inconfondibile, stile di regia: solido, nitido, brutale e attento ai dettagli. Si tratta anche di un film finanziato in crowdfunding, per cui le aspettative di massima libertà artistica sono in effetti rispettate: chi non ha apprezzato il film, d’altro canto, non ha potuto che notarne la sostanziale somiglianza con i lavori precedenti, cosa vera ma, a mio avviso, nel caso specifico non un vero e proprio aspetto negativo. A fare la differenza rispetto a molti horror contemporanei, e anche di molto, c’è la componente attoriale: molto curata, infatti, la scelta degli interpreti e le rispettive interpretazioni, sempre decisamente teatrali e sopra le righe. Come di consueto, e a differenza del sulfureo Le streghe di Salem, punta quasi esclusivamente sulle dinamiche slasher (Non aprite quella porta), concentrandosi su un immaginario del tutto proprio e senza alcun riferimento a culture, leggende urbane o altro. Un inferno personale nel quale tre individui (vestiti grottescamente da vetusti signori dell’800 imparruccati) scommettono sulla morte delle vittime contattando dei killer, in un panottico dell’orrore che saprà appassionare nella misura in cui saremo disposti a cedere alle sue lusinghe. Nel farlo, non risparmia dettagli sanguinolenti e, anzi, sembra insistere sulla componente violenta più del consueto, con trovate a sorpresa che faranno rabbrividire.

    Zombi evoca un feeling già noto nei suoi precedenti La casa dei mille corpi e La casa del diavolo per ricostruire un’atmosfera settantiana, tanto exploitation da sembrare quasi da snuff, cosparsa di spirito hippy e ben caratterizzata, fin dai primi fotogrammi, dai consueti personaggi grotteschi. Non è nulla di clamoroso, probabilmente, ma l’approccio è quantomeno molto azzeccato, per quanto determinati riferimenti passeranno soltanto per i più accaniti fan del genere (vari classici che passano sulle TV inquadrate, il genere naziploitation per il personaggio Sick Head, una citazione molto specifica del Rocky Horror Picture Show). Se il vero colpo di classe del film è il finale – che chiude la storia con un doppio finale, che rimane comunque parzialmente aperto – il labirinto squallido, le vittime trattate come marionette e le sadiche trappole che li aspettano non sono certo una novità, a partire da Cube di Vincenzo Natali (1997) fino ad esempi più evoluti come The experiment del 2001 (e senza contare che un analogo Sick Head si era già visto nel sottovalutato Eaters).

    Del resto si tratta di uno di quei film da cui dovresti sapere bene cosa aspettarti, e che devi gustarti nella loro essenza senza farti troppe domande, e – per noialtri – chiudendo un occhio sul doppiaggio italiano (la traduzione di certe espressioni gergali e delle canzoncine perde un po’ di efficacia). Zombi sembra volersi liberare di qualsiasi pretesa contestualizzante o ideologica (almeno in apparenza, anche se apre citando Kafka con l’aforisma A first sign of the beginning of understanding is the wish to die), e si limita a regalare al suo pubblico una perla di horror moderno ricco di ritmo, citazioni, interpretazioni di buon livello ed alcuni punti volutamente non chiariti: su tutti, il reale ruolo dei tre feroci aguzzini – forse fuori dal tempo, sempre esistiti, quasi una sorta di demoni – Father Murder, Sister Serpent e Sister Dragon, che a quanto pare colpiscono ad ogni Halloween. Figure grottesche che hanno scommesso sulle vite delle vittime, ed è tutto quello che sappiamo: viene in mente a riguardo, per chi lo avesse visto, uno dei corti di The ABC’s of Death 2.

    Se Zombi ha insegnato qualcosa al suo pubblico, in questi anni, è proprio che un buon horror non deve per forza spiegare tutto, e può ritenersi godibile (e ancora più spaventoso) anche lasciando qualche ombra oculatamente sparsa.

  • The signal: un horror fuori norma da riscoprire

    Film dai toni post-apocalittici diviso in tre parti, raccontato da altrettante prospettive diverse, ed incentrato su un misterioso segnale audio, diffuso mediante radio, TV e cellulari, in grado di trasformere le persone in killer.

    In breve. Discreto horror dalla narrazione non lineare, capace di tenere alta la tensione fino alla fine. Da vedere.

    The signal, horror del 2007 (da non confondersi con l’omonimo, di genere fantascientifico uscito nel 2014) è stato ideato da tre registi che vantano una collaborazione dal 1999 e girato con un budget di soli 50.000 dollari, in 13 giorni. Parliamo del trio David Bruckner, Dan Bush e Jacob Gentry, che sono anche autori della sceneggiatura, ed hanno girato seguendo i dettami dell’ horror indie americano: nessun risparmio sul livello di efferatezze e colpi di scena, ed un trama abbastanza semplice infarcita, nonostante tutto, di passaggi notevoli o allucinatori (personaggi che scambiano altri personaggi) e flashback (personaggi che ricordano, o credono di ricordare, il passato).

    Se tutto questo potrebbe appartenere alla tradizione lynchiana del genere, The signal non si perde in simbolismi, e strizza più pesantemente l’occhio all’horror crudo anni ’70, fin dalle prime immagini: una sequenza da exploitation modello Non aprite quella porta / L’ultima casa a sinistra, che pero’ rimane come una specie di trailer autoreferenziale (alla Tarantino / Rodriguez per intenderci) per introdurci nel film, a malapena collegato alla trama principale (in realtà è uno spezzone di The Hap Hapgood Story di Gentry). Ed è proprio al regista di Pulp Fiction, con le dovute proporzioni, che sembra richiamarsi la dinamica della storia, suddivisa formalmente in tre parti – ricca di flashback e colpi di scena, in cui nessuno è quello che sembra ed i personaggi vivono, loro malgrado, in una sorta di incubo ad occhi aperti.

    Il film è suddiviso in tre parti – che avrebbero dovuto essere di più, almeno stando a quanto pubblicato su Vimeo da uno dei tre registi (assolutamente consigliato, tra l’altro, il video linkato per avere un’idea del film, senza “dire troppo” o spoiler vari), e si basa su un’idea semplice ed efficace: un triangolo amoroso tra la protagonista, il marito di lei ed il rispettivo amante, ed il progetto di rivedersi nella stazione di Terminus, binario 13. Peccato che, nel frattempo, uno strano segnale radio/TV inizierà a plagiare le menti di chi ascolta, giustificandone le efferatezze ed arrivando a rendere chiunque un feroce omicida, e trasformando la città in un deserto in cui la maggioranza cerca di uccidere il prossimo. Non è troppo chiaro, peraltro, quale sia il livello massimo di esposizione al signal senza impazzire, visto che molti personaggi si muovono brillantemente senza farsene condizionare – ma questo è volere essere pignoli, e questo non è il genere di horror declinato sulla precisione. Se i presupposti di The signal non sono nuovi (Essi vivono, forse addirittura Videodrome) la narrazione non lineare e l’uso di riprese multiprospettiva cercano di rendere adeguato, riuscendoci, quel tocco di originalità tale da rendere il film interessante, oltre che scorrevole.

    Del resto non si tratta di un post-apocalittico vero o proprio, ma di una storia che è quasi un mashup di tre feeling diversi. Le tre trasmissioni o episodi di cui si compone la trama, infatti, sono incentrati su tre sotto-storie dallo stile ben distinto: Crazy In Love di Bruckner è quello più visceralmente horror e sinistro, The Jealousy Monster di Gentry e strizza l’occhio alla dark comedy ed allo humour nero (il che aiuta a spezzare e non appesantire la trama), mentre Escape from Terminus di Dan Bush conclude con la parte (relativamente) romantica della storia, ovviamente declinata in modo post-apocalittico. L’intero film si rifà chiaramente alla tradizione horror più allucinatoria ed esplicita, con spudorati richiami a certo torture porn (sopratutto il secondo episodio) ed ai classici di ogni tempo del genere (da Shining a Resident Evil, passando per 28 giorni dopo): questo, di suo, tenderebbe a renderlo un prodotto di nicchia, anche se uno spettatore medio potrebbe comunque lasciarsi trascinare positivamente dal film che, in fondo, è una love story declinata in modo grottesco e noir.

    Questo, a mio avviso, mette in secondo piano, come tradizione vuole in questi casi, l’intero scenario in cui si ambienta il film, lasciando il focus attivo su sogno di due amanti, neanche a dirlo, di vivere assieme – nonostante il marito di lei, violento ed imprevedibile e letteralmente ossessionato dal tradimento. Il tutto con il rischio di disinnescare la trama (i personaggi sembrano “dimenticare” l’apocalisse in corso, in più momenti), intreccio di suo rinforzato da un ambiguo (e forse non troppo comprensibile) doppio finale, in cui non è chiaro cosa sia sogno e cosa, invece, sia (la dura) realtà.

    Nel frattempo il signal – di cui non conosciamo l’origine, ed in fondo poco importa – continua a mietere vittime, e a causare atti di violenza sempre più feroci, scatenati dopo l’esposizione al segnale e giocando su una paranoia molto diffusa anche nelle varie urban legend che circolano da sempre sul web (le onde radio o wireless utilizzate per controllare le persone, o capaci di provocare malattie). In questo senso il film è abile a leggere e rielaborare la realtà, attualizzarla e focalizzarsi sulle paure e le psicosi moderne.

    Anche questo, del resto, dovrebbe saper fare un buon horror.

  • Mio caro assassino: il giallo all’italiana che lasciò il segno

    Un giallo piuttosto appetitoso per gli amanti del genere, condito da trama intrigante, vaghi elementi sexploitation ed una trama piuttosto intricata: l’inquietante colonna sonora, dai richiami dichiaratamente argentiani (come del resto l’intero intreccio) è stata firmata da Ennio Morricone.

    In breve: una storia incalzante, poco ed intenso splatter, qualche sbavatura sparsa ma tutto sommato pienamente godibile. Per amanti del giallo all’italiana e dell’exploitation.

    Inizialmente vediamo un uomo (che si scopre essere un investigatore privato, Umberto Paradisi) che si aggira nei pressi di uno stagno, dando indicazioni al manovratore di una scavatrice: l’uomo viene decapitato dalla benna della macchina, senza che si veda il volto dell’asssassino. La polizia inizialmente indirizza le indagini sull’operaio che sarebbe dovuto essere al lavoro sul posto, ma dopo poco lo stesso viene trovato impiccato: si tratta, neanche a dirlo, di un suicidio simulato. L’attento poliziotto Peretti (George Hilton, volto noto dei 70) indaga quindi su un caso di omicidio piuttosto complesso: un personaggio perfetto, impeccabile sul lavoro, ma con più di un problema con la compagna (una poco convincente, a mio parere, Helga Linè). Dopo l’inizio di una catena di omicidi, che ricollegano il caso ad un precedente di una bambina rapita assieme al padre e morta di inedia nel covo dei sequestratori, verrà a galla la verità in un finale tutto da gustare.

    Dario Argento aveva creato uno stile, che si era delinato attraverso quelli che sarebbero diventati gli archetipi di cui fu artefice (su tutti, l’assassino dai guanti neri): in questo film di Valerii non si tratta, per la verità, di semplici richiami stilistici. Il film è totalmente immerso nello spirito delle opere del regista argentiano, visto che c’è quasi tutto quello che ha inventato il primo argento: il disegno infantile risolutore, la nenia inquietante a sottolineare i momenti topici, il passato torbido di uno dei protagonisti, i familiari della vittima che nascondono un orribile segreto, addirittura i personaggi-macchietta che intervallano i momenti di tensione del film. Del resto a chi sarà venuto un colpo pensando ad una squallida scopiazzatura di Profondo rosso o Quattro mosche di velluto grigio, posso dire di stare tranquillo: ci sono infatti almeno due elementi originali e di rilievo in “Mio caro assassino” (senza contare, forse, la banalità del titolo).

    Il primo è che il commissario di polizia (Hilton), sicuro di sè e figlio dei detective razionalisti dei gialli classici, è costretto a risolvere ben due casi collegati tra loro, e questo lo porta a considerare una ragnatela insolitamente fitta con almeno dieci personaggi sospetti, eliminati poco per volta dalla mano crudele dell’assassino. I personaggi sono tutti ben caratterizzati e preziosi per l’intreccio, anche se diventa facile perdersi nei dettagli, in certi casi. Il secondo aspetto secondo me “cult” di “Mio caro assassino” riguarda alcuni inserti davvero originali, come il killer che agisce in soggettiva e “in diretta”: noi non riusciamo a capire chi sia, ma in almeno due momenti decisivi “vediamo” con i suoi occhi. Questo avviene anche, ad esempio, nella scena in cui uccide con la fresatrice. Questo secondo me è un elemento notevole, che conferisce uno spessore insolito rispetto alla sostanziale exploitation presente nel film (lo splatter da manuale della scena appena citata, i nudi belli ma totalmente gratuiti di Helga Linè e della maestrina Mary Shepard, il criticatissimo nudo della bambina-modella dello scultore pedofilo)

    Del resto si tratta di un giallo “puro”, condito da elementi extra non sempre molto coerenti: del resto, ci vorrà ancora una decina di anni perchè giallo ed horror possano unirsi con gran classe, e declinarsi in una delle migliori opere italiane di sempre. Non voglio abusare delle citazioni di Argento perchè è possibile che il regista abbia avuto diversi pugni allo stomaco dalla visione di questo film, che per molti versi ne ricalca fedelmente scenari, ambientazioni e stilemi. Mi pare inoltre ci sia stato un piccolo errore da parte del regista probabilmente in fase di montaggio, che consentirà allo spettatore più “cattivello” di capire subito chi sia l’assassino: basta fare caso alla macchina ed al  suo brand che viene esposto più volte. Un peccato, lo dico senza sarcasmo ovviamente, perchè in fondo dato il contesto, l’epoca ed il confronto con film piuttosto discutibili diffusi in quel periodo, va bene anche  così. Non male il finalone alla Agatha Cristie, con il poliziotto che passa in rassegna tutti i potenziali indiziati svelando il dettaglio rivelatore soltanto nell’ultimo fotogramma, creando una tensione ed un’aspettativa nello spettatore secondo me senza pari.

     

  • La tarantola dal ventre nero: il giallo all’italiana di Cavara del 1971)

    Maria Zani, ex moglie di un assicuratore romano viene brutalmente uccisa da un assassino dall’impermeabile nero, che usa degli aghi da agopuntura per immobilizzare le sue vittime.

    In breve. Cavara gioca con i film inventati da Argento, a cominciare dal titolo “animalesco” : qualcosa di già visto, già fatto e già sentito, ma l’importante in questi casi è mantenere vivo l’interesse, cosa che avviene con grande eleganza.

    Ispirandosi alla lotta tra una vespa ed una tarantola, nella quale la prima usa paralizzare l’altra con il suo pungiglione lasciando che siano le larve deposte nella ferita a fare il resto, Cavara presenta un assassino atipico che imita tale modalità. Egli infatti uccide le vittime paralizzandole con un ago nel collo, facendole rimanere coscienti (ed inermi) mentre le finisce con un coltello. Un particolare agghiacciante che rende l’idea di un sadismo – per la verità piuttosto consueto – da parte di molti killer visti sullo schermo all’epoca, mentre la presenza di un cast davvero di livello (Sandrelli, Giannini, Bouchet, Falk) garantisce che non si tratti di uno sterile trattato sul gore come se ne vedevano troppi all’epoca.

    L’ennesimo giallo all’italiana, quindi, basato su ambigui doppi giochi, forse un po’ troppo evocativo  dei capolavori argentiani ma sostanzialmente diverso da questi ultimi come forma e sostanza: la regia è di grande livello, la fotografia incanterà gli appassionati del genere e si conferma la triade tipica del genere: momenti di violenza insana, storie di personaggi quotidiani e macchiette teatrali. Il commissario dal volto umano (Giancarlo Giannini) indagherà sull’omicidio della bellona ambigua di turno (Barbara Bouchet), trovando lentamente l’identità di un insospettabile assassino dall’impermeabile nero e guanti, su cui probabilmente Argento potrebbe un giorno esigere i diritti d’autore. Tra le curiosità, un errore di inquadratura che permette di vedere uno dei membri della troupe – in maglietta blu – durante le movimentate riprese del secondo omicidio.

    Imprevedibilità ed una storia che diventa avvicente a partire dalla sua spiegazione biologica  fa diventare “La tarantola dal ventre nero” una piccola chicca del suo genere, capace di proporre un insolito parallelismo tra il comportamento della razza umana e quella animale, e proponendo nel finale l’identità di un assassino del tutto insospettabile e dal movente imprevedibile. Ma questo in fondo si sa: l’importante è che non annoia, intriga, diverte e non sfigura neanche oggi. Favolosa la colonna sonora di Morricone, e da segnalare la tela di ragno che si sovrappone all’immagine nei titoli di coda. Da vedere.

  • Zombi 3 di Lucio Fulci non è così brutto come dicono

    Un pericoloso virus sviluppato in un laboratorio viene rubato, ed inavvertitamente si diffonde trasformando le persone in esseri mostruosi: clinicamente morti e dall’aspetto deforme, ma con capacità di muoversi, uccidere, divorare altri uomini e parlare. Il gruppo dei soliti survivor cerca di combatterli…

    In breve. Criticatissimo apocrifo con pretese romeriane, carente sotto vari punti di vista ma capace, se visto con lo spirito giusto, di suscitare qualche sensazione positiva. Ogni bravo recensore di horror trash si è fatto le ossa descrivendo tutti gli aspetti negativi del “ghiottissimo” Zombi 3, trascurando così quel poco di positivo che il film vorrebbe possedere. Per i fan dell’orrore è, a mio parere, un capitolo imperdibile, nel bene e nel male.

    Quella videoteca… Un po’ di anni fa, con l’ausilio di una piccola connessione 56k, scoprii un favoloso sito di film dell’orrore (che, se ricordo bene, doveva essere questo) che non conoscevo. Fermo a considerare, prima di allora, che gli unici horror esistenti fossero quelli di Carpenter e di Romero, quelli insomma che ad orari improponibili la TV si degnava di passare, scoprii Hooper, Fulci, Fragasso, e tutto il resto dell’universo. E quella locandina, con la donna che urla e la gigantesca mano contaminata, mi rimase impressa: ricordo perfettamente era presente nella videoteca assieme ad altre chicche del terrore come la videocassetta di Lucio Fulci de “…L’aldilà!”, che finii per fittare più di una volta. Forse mi impressionò, probabilmente quella locandina riuscì ad impressionarmi e questo vale anche adesso, nonostante i fiumi di parole spesi contro questa pellicola, che ne hanno decretato il sostanziale fallimento.

    E, tanto per metterlo nero su bianco, credo che questo film non sia (badate bene) la schifezza totale che ci hanno presentato per anni, anche se di fronte a certi errori non posso che sparare sulla crocerossa. Sul film.Zombi 3” è stato girato nelle Filippine, e sceneggiato da Fragasso/Mattei sulla base di una rielaborazione del notissimo “Virus – L’inferno dei morti viventi” (come spiega l’autore stesso negli speciali del DVD): si tratta di uno script prettamente basato su azione, sparatorie e scazzottate, che deve qualcosa al capolavoro “Zombi” di George Romero, e dal quale evoca (e presumibilmente omaggia) il celebre finale. Il film è attribuito a Fulci, ma è plausibile che non sia affatto tutta farina del suo sacco e che gli sceneggiatori abbiano messo più di uno zampino dietro la macchina da presa: contrariamente alla leggenda che abbiamo letto sui vari siti, il DVD Nocturno attesta che il nucleo principale dell’opera è di Fulci, ed è stato semplicemente allungato, non rimaneggiato, da Fragasso in seguito. Il livello di splatter è discreto ma neanche esaltante, e per qualche motivo si indugia sui dettagli macabri molto meno del previsto: personalmente non avevo mai visto uno zombi movie in cui si inquadrano le scene clou così da lontano (escludendo il primo O’Bannon, ma quello è decisamente un’altra storia).

    Zombi 3 è l’ennesima variazione sul tema che, tutto sommato, avrebbe avuto tutte le carte in regola per diventare decisamente accattivante, anche perchè il cast non è affatto male e nemmeno la storia fa così schifo (…se solo si fossero decisi a scriverla decentemente). Cult. Se non fosse per l’elevata dose di improbabilità del film stesso, e per il suo richiamare in modo piuttosto pesante un altro horror molto sottovalutato negli anni (mi riferisco a “Il giorno degli zombi”), staremmo a dire che sì, Zombi 3 è stato fatto in modo confuso, ma nel frattempo è potuto diventare un cult. E invece no: la storia viene considerata giustamente incoerente, caotica e ai limiti del penoso, così come alcune sequenze ricadono nel ridicolo involontario: vedi la testa umana che sbuca fuori dal frigo (dal frigo?) seguendo una linea orizzontale (!), sfidando buonsenso e gravitazione newtoniana, e facendo sembrare che sia la cosa più normale del mondo averne una lì, manco fosse una lattuga. Ha ragione chi sostiene che si tratta di un film raffazzonato, girato forse in assenza del buon Lucio (purtroppo malato già all’epoca), ed in cui ad es. la pianificazione della lavorazione giornaliera avveniva spesso su iniziativa degli attori stessi.

    Difficile anche dare torto a chi fa notare che la spiegazione stessa dell’intreccio sia contraddittoria: se il virus è fatto in laboratorio ed “si dissolve nell’aria” come ci viene detto, come mai ‘sto benedetto flagello ha contagiato gli uccelli fuoriuscendo da una ciminiera? E poi il contagio non avveniva forse tramite il sangue e le ferite, come ci dicono dopo circa mezz’ora? Perchè qualche personaggio prima di diventare zombi mostra di avere sete ed altri invece no? Questo ed altri dilemmi affliggono sadicamente lo spettatore, il quale dirà senza esitazione che “Zombi 3” è un film da scansare come la peste, ammesso che riesca a finirlo di vedere. Tutto sommato. Ora pero’ liberiamoci della spocchia tipica dei recensori, e notiamo ora i lati positivi. Probabilmente fisica e chimica non erano materie troppo avvezze agli sceneggiatori, ma se riuscite a guardare oltre tutto questo (e ci vuole uno sforzo titanico per farlo, me ne rendo conto), esistono realmente: ebbene sì.

    Prima di tutto la caratterizzazione quasi perfetta di militari e scienziati, oltre l’idea ecologista alla base del racconto ed il clima sanamente complottista che lo avviluppa. Non mancano spunti originali come l’esperimento iniziale di rianimazione, gli uccelli-zombizzati (!) e soprattutto la bella idea del DJ, che informa la popolazione su quello che accade e commenta in stile noir la catastrofe (voce fuori campo). Ciò cita probabilmente la sequenza analoga de “I guerrieri della notte” (nowhere to run, nowhere to hide…), e meriterebbe un “pollice su” anche solo per questo. Abbiamo poi la conferma che gli zombi che schizzano velocemente sono un’invenzione tutt’altro che americana, così come l’idea del neonato morto vivente appare piuttosto originale (riproposta senza citazione ne “L’alba dei morti viventi” del 2004, l’apocrifo zombi-movie di Zack Snyder). La conclusione – che mi permetto di “bruciare” in questa sede – vede lo speaker che è diventato anch’egli un mostro, ed annuncia una sorta di “Anno Zero” nel quale gli zombi domineranno il mondo. La scena viene contrapposta all’etica dei sopravvissuti che, di rimando, giurano resistenza ad oltranza, ed il film si conclude su questo curioso mood battagliero. È forse la prima volta in vita mia che recensisco un bel finale, seppur con tutti i limiti del caso, che fa da appendice ad un film dotato di così scarso potere attrattivo.

    Conclusioni. Si vive felici senza aver visto questo film, ma di certo non danneggia la salute mentale più di altri suoi epigoni (spesso tacciati di “cultismo” un po’ a vanvera). C’è da puntualizzare che i deformi esseri di Zombi 3, esattemente come in Lenzi, non sono esattamente morti viventi ma vittime di un contagio che ne altera le funziona vitali: la cosa irritante è che la malattia contamina a casaccio, nel senso che su certi umani scatena un istinto di violenza e cannibalismo, mentre su altri fa solo venire voglia di camminare come gli zombi di “Thriller“. Misteri della fede: Zombi 3, con i suoi piccolissimi pregi ed i suoi grossolani difetti, fa venire un po’ di tristezza per quello che sarebbe potuto essere, se solo fosse stato girato in modo più organico e se ci avessero risparmiato tante chiacchiere sul presunto significato di alcune scene.

    È una tristezza equiparabile a quella che provo adesso, molti anni dopo, quando ripasso da quella videoteca “magica” e scopro che ne è rimasto nient’altro che un magazzino vuoto.

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