Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Il sacrificio del cervo sacro: trama, sinossi, cast, finale

    Il sacrificio del cervo sacro: trama, sinossi, cast, finale

    “Il sacrificio del cervo sacro” (titolo originale The Killing of a Sacred Deer) è un film del 2017 diretto da Yorgos Lanthimos. Il film è noto per il suo stile surreale / grottesco e la sua trama dotata di uno spaventoso climax narrativo.

    Di seguito, ti forniremo informazioni sulla trama, la regia, il cast, la produzione, lo stile, una recensione e una possibile spiegazione del finale del film.

    Trama

    Sulle prime il film si muove su un registro standard, apparentemente prevedibile: possiamo vedere un chirurgo di successo all’opera, mentre la prima sequenza si incentra su un’operazione a cuore aperto da cui capiamo che si tratta di un professionista di altissimo livello. Steven Murphy (Colin Farrell) vive in una grande città, ha una moglie (Nicole Kidman) anch’essa medico e due figli a cui sembra non mancare nulla. L’elemento perturbante è  Martin, un ragazzino che si vede periodicamente con il chirurgo, al quale vengono fatti regali costosi mentre la natura della loro relazione non viene esplicitata. La regia non fa capire di che tipo di rapporto si tratti, tanto più che la madre del ragazzo sembra essere attratta dal chirurgo, il ragazzo sembra emotivamente coinvolto dall’uomo e scopriamo che ha perso il padre: solo in un secondo momento sapremo che la responsabilità è stata dal chirurgo, in quanto è morto durante un’operazione.

    Si muove su questa falsariga Il sacrificio del cervo sacro, traendosi spunto dalla tragedia di Ifigenia, uccisa dal padre per soddisfare l’ira implacabile di un dio. Non era semplice inserire questo elemento mitologico in una trama ambientata ai giorni nostri ed è esattamente questo il quid che rende il film unico: anche a costo di non dare troppe spiegazioni e di sbatterlo in faccia allo spettatore senza troppi preamboli, determinando così uno dei più colossali “patti” tra regia e pubblico mai comparsi sullo schermo. Di per sé la storia del film è coinvolgente, e viene resa sostanziale da una regia solida quanto a suo modo distaccata: i vari momenti tragici del film vengono sottolineati da campi lunghi, e si tratta quasi sempre di una violenza che deriva dall’ordinario, dal familiare, come già in Funny games (che viene probabilmente omaggiato dalla sequenza delle federe del cuscino in testa ad alcuni personaggi, come vedremo). L’innesto nella trama dell’elemento mitologico “ifigenico” è accennato esclusivamente dal fatto che uno dei due ragazzi ha studiato questa tragedia a scuola, ma per il resto si tratta di un perturbante puro di cui nel pubblico nei protagonisti sembrano riuscire a capacitarsi. La potenza del film risiede proprio in questo accenno che non viene esplicitato: i personaggi non lottano contro un villain focalizzato, né tantomeno contro un’epidemia o un altro elemento a cui è possibile dare un nome: la tragedia ineluttabile è proprio nel non saper dare un nome ad un male che forse, come viene più volte accennato, è più psicologico che fisico, e che richiama all’eterna, ambigua questione se siano le malattie organiche a provocare problemi mentali o viceversa.

    Recensione

    Di per sé il film evoca diversi diversi temi: c’è il tema del patriarcato, esplicitato dal fatto da un genitore possa voler generare quanto voler distruggere la propria prole, avendo di fatto pieno controllo su entrambi gli aspetti. c’è anche il fatto non indifferente della presa di responsabilità, dell’etica professionale legata alla professione del medico, che viene posta in maniera controversa e raggelante. Queste cose è talmente lampante che viene anche detta, ad un certo punto, dalla figlia del protagonista, quando invita con toni umili e melodrammatici il proprio padre a fare “ciò che deve”. E in ballo c’è pure il topic dell’eugenetica: lo vediamo dalla sequenza di Steven che va a parlare con il preside della scuola, per sapere quale dei due abbia un migliore rendimento (o, per altri versi, quale dei vada sacrificato).

    La regia di Lanthimos è fredda, ispirata quanto spietata, riprende ogni scena con gelida lucidità, spesso e volentieri in campo lungo, e sembra farsi beffe di certo scientismo: il fatto che due medici non riescono a capire perché i figli stanno male rasenta ad un certo punto il grottesco, e appare come messaggio critico all’eccessiva “sicurezza di sè” di certa parte della scienza e della medicina. Il sacrificio del cervo sacro è sicuramente un unico nel suo genere, anche perché è un thriller senza cause esplicite, c’è ovviamente l’espiazione del senso di colpa del medico ma non c’è un villain o una causa identificabile (la stessa attribuzione di ogni male al giovane Martin sembra ad un certo punto coerente, ma non è corretta: il mondo è pervaso da un maligno generalizzato, letteralmente, e il male non è espiabile in altro modo). Quest’ultimo aspetto probabilmente può cozzare con i gusti di parte del pubblico e disorientarlo, specie quello meno abituato agli orrori irrazionali in cui l’elemento narrativo tende a disperdersi nella trama, nei quali non è agevole attribuire un effetto ad ogni causa.

    In questo senso l’operazione di Lanthimos è azzardata, anche se il successo del film e i premi vinti sembrano avergli dato ragione.

    Il sesso nel film (ispirato alle teorie di Michael Bader)

    Il soddisfacimento degli istinti sessuali ne Il sacrificio del cervo sacro è quasi sempre represso, rinviato, male articolato e solo in alcuni casi soddisfatto. Questo serve alla regia per mostrare il lato oscuro di ogni personaggio, e farci comprendere meglio il rispettivo vissuto. Come evidenziato dal saggio Eccitazione dello psicologo Michael Bader, del resto, ogni persona ricerca nelle fantasie sessuali un ambiente safe, libero da sensi di colpa, in cui potersi eccitare liberamente. Anche a costo di ricorrere a scenari bizzarri o spaventosi, sulla base delle proprie esperienze e del proprio vissuto.

    Kim è un’adolescente che ha appena avuto le mestruazioni, ad esempio: la sua relazione con Martin dovrebbe essere una sorta di “prima iniziazione” al sesso, ma vediamo che il suo offrirsi al partner non ottiene l’effetto desiderato, probabilmente perchè il ragazzo è rapito dal proprio mood di vendetta e, in qualche modo, non dispone di condizioni sicure in cui potersi eccitare. È altresì significativo che le modalità di dimostrarsi disponibili della ragazza siano analoghe a quelle della madre del personaggio, Anna, che presenta una singolare modalità di relazionarsi in camera da letto col marito: si spoglia, si stende sul letto e finge di essere una paziente totalmente anestetizzata, fantasia che si ricollega al lavoro dei due personaggi e che evoca indirettamente, anche qui, una sorta di sacrificio rituale. Questo roleplay sembra verosimile nel contesto in cui si muovono i due coniugi, e ancora una volta vediamo la teoria di Bader all’opera: la fantasia può funzionare solo se se – nel mentre – non emergono sensi di colpa. Non appena il chirurgo viene “smascherato” dai fatti (ha mentito sull’incidente al padre di Martin, perchè la morte l’ha causata lui e vorrebbe subdolamente addossarla all’anestesista) la fantasia si spegne, e il rapporto non può più avere luogo. Per ottenere la verità su quanto accaduto nell’operazione al padre di Martin, poi, Anna richiede l’informazione all’anestesista che ha lavorato con lui, Matthew, che racconta pero’ una versione invertita della storia rispetto a quella di Steven. L’informazione ha un costo, in questo caso, che è quello di soddisfare sessualmente Matthew (scena della masturbazione in macchina), sulla base di un desiderio represso che l’uomo, secondo Anna, avrebbe espresso durante una cena tra colleghi. In tutti questi episodi sembra piuttosto chiaro che la sessualità sia più un mezzo che un fine, in quanto viene utilizzato per definire l’essenza del rapporto tra i personaggi e per finalizzare i loro scopi (al limite provare a finalizzarli).

    Regia

    Il regista Yorgos Lanthimos è noto per il suo stile cinematografico unico e spaventoso, caratterizzato da dialoghi monocordi, situazioni surreali e freddezza emotiva ostentata da vari personaggi. “Il sacrificio del cervo sacro” non fa eccezione: il regista crea un’atmosfera di tensione e inquietudine in tutto il film, sulla base di un non meglio specifico senso di colpa. Questa inquietudine è frutto di un qualcosa di astratto, di una non meglio specificata maledizione, di un Dio malvagio che pervade l’esistenza degli esseri umani pur senza mostrarsi, senza avere un nome, quasi un ente innominabile lovecraftiano. Il finale evoca più una tragedia surreale o una piece di teatro sperimentale, la resa dei conti con cui i protagonisti vanno incontro al loro destino senza poter fare nulla per opporsi. Il finale dell’opera evoca l’esorcismo del senso di colpa, il senso di impotenza assoluto da parte dell’uomo di fronte a determinati orrori.

    Il film è stato prodotto da Element Pictures e A24, ed è stato presentato in concorso al Festival di Cannes del 2017.

    Cast

    Il cast principale include Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Alicia Silverstone, e Raffey Cassidy. La scelta non poteva essere più felice, e in molti casi sembra di assistere a un film tipo Eyes Wide Shut, per altri a uno come Saltburn, visto che curiosamente il giovane personaggio si trova ad assolvere un ruolo molto simile di potenziale destabilizzatore della famiglia, per quanto in modo indiretto.

    Sinossi

    Il film segue la storia di Steven Murphy (interpretato da Colin Farrell), un cardiochirurgo di successo che ha una vita apparentemente perfetta con la moglie Anna (interpretata da Nicole Kidman) e i loro due figli. La vita di Steven prende una svolta inquietante quando Martin (interpretato da Barry Keoghan), un ragazzo giovane e problematico, inizia a inserirsi nella sua vita. Si scopre che il padre di Martin è morto durante un’operazione chirurgica effettuata da Steven e Martin crede che la morte di suo padre sia stata causata da un errore medico. Martin inizia a esercitare un’influenza oscura sulla vita di Steven e della sua famiglia, minacciando di infliggere loro una serie di maledizioni, inclusa la paralisi e la morte, a meno che Steven non prenda una decisione terribile riguardo a uno dei suoi familiari.

    La situazione si sviluppa in modo surreale, e Steven si trova costretto a prendere una tragica, ineluttabile decisione.

    Spiegazione del finale

    Il finale del film può essere visto come una rappresentazione allegorica del conflitto morale e delle conseguenze delle azioni dei personaggi. Non si tratta ovviamente di un finale aperto, perchè la scelta della vittima è stata brutalmente effettuata (nell’unico modo possibile per il protagonista: scegliendola a caso). Nel momento culminante Steven prende una decisione randomica per porre fine alla maledizione di Martin: mette a sedere i tre familiari i salotto, e – dopo averli legati – estrae a sorte chi dovrà morire, bendandosi e girando su sè stesso un paio di volte prima di sparare. Lo fa perché non può scegliere diversamente, e perchè è l’unico modo per espiare la propria colpa (molto probabilmente ha operato il paziente da ubriaco).

    Quando i superstiti si ritroveranno all’interno del locale dove è iniziato il film fanno finta di non vedere Steven, che chiaramente fa lo stesso nei loro confronti. il cerchio si è chiuso, e la storia può dirsi conclusa.

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  • Il talento di Mr. Ripley: cast, trama, significato, produzione

    “Il talento di Mr. Ripley” è un film del 1999 diretto da Anthony Minghella, basato sul romanzo omonimo di Patricia Highsmith.

    Sinossi e genere

    Si tratta di un thriller psicologico che segue le vicende di Tom Ripley, interpretato da Matt Damon, un giovane ambizioso e affascinante che viene incaricato di convincere un ricco playboy, interpretato da Jude Law, a tornare negli Stati Uniti dalla sua vita spensierata in Italia.

    Trama

    Tom Ripley viene inviato in Italia per convincere Dickie Greenleaf a tornare negli Stati Uniti. Dickie è un ragazzo ricco e disinvolto, e Tom inizia ad ammirarlo. Si stabilisce un legame tra loro, ma quando Dickie inizia a stancarsi della compagnia di Tom, questo sviluppa un’ossessione crescente per lui. L’amicizia si trasforma in qualcosa di oscuro e pericoloso quando Tom inizia ad adottare l’identità e lo stile di vita di Dickie.

    Cast:

    • Matt Damon – Tom Ripley
    • Jude Law – Dickie Greenleaf
    • Gwyneth Paltrow – Marge Sherwood
    • Cate Blanchett – Meredith Logue
    • Philip Seymour Hoffman – Freddie Miles

    Produzione e Regia: Il film è stato prodotto da Miramax Films e diretto da Anthony Minghella, che ha ricevuto anche crediti per la sceneggiatura. La pellicola ha ottenuto diverse nomination e riconoscimenti per le performance degli attori e la regia di Minghella.

    Storia e Significato

    La storia si concentra sulla complessa psicologia di Tom Ripley, un giovane ambizioso e problematico che cerca di sfondare nel mondo della ricchezza e del lusso adottando identità e comportamenti non suoi. Il film esplora temi come l’identità, la manipolazione, l’invidia e la ricerca ossessiva del successo, mettendo in luce il lato oscuro e torbido della natura umana. È una storia che analizza la dualità dell’essere umano e le sfumature morali che emergono quando si è disposti a tutto pur di raggiungere il proprio scopo.

    Sinossi

    In breve, il film segue il percorso di Tom Ripley mentre si insinua sempre più nella vita di Dickie Greenleaf, finendo per adottarne l’identità in un gioco pericoloso di bugie, manipolazioni e oscuri segreti.

    Significato

    Il film esplora le sfumature della personalità umana, la ricerca dell’identità e l’ossessione per la vita altrui. Rappresenta anche una critica nei confronti di una società ossessionata dalla ricchezza e dalle apparenze, mettendo in luce le conseguenze psicologiche della ricerca disperata del successo e della felicità a qualsiasi costo.

  • Terrore nello spazio è la fantascienza futuristica di Mario Bava

    Da non confondersi con il successivo Terrore dallo spazio profondo, Terrore nello spazio di Mario Bava è un film classico del puro fanta-horror.

    Ambientato interamente durante una missione spaziale, racconta di un equipaggio di venti persone dentro due navicelle, i cui astronauti si imbattono in una civiltà aliena ostile. Questo almeno è ciò che intuiscono dalle prime battute: la nave viene attratta da un pianeta sconosciuto ricoperto di nebbia, la gravità diventa quattro volte più del normale e fa perdere i sensi all’equipaggio, come se non bastasse – non appena atterrati – gli astronauti iniziano ad azzuffarsi tra loro senza una ragione apparente. Solo l’intervento di autorità del comandante riesce a evitare il peggio, mentre l’altro equipaggio è meno fortunato. Si prosegue la storia di un gruppo di sopravvisuti costretti a lottare contro alieni ostili (per quanto poi il finale suggerisca che non si trattava di terrestri, grazie a un piccolo colpo di genio della sceneggiatura), mentre l’eterna lotta tra Bene e Male è in realtà una lotta intestina, a causa della tendenza maggioritaria ad autodistruggersi da parte dell’uomo.

    Non è difficile accorgersi fin dalla prima visione che l’orrore di cui si parla in questa gemma della fantascienza italiana è puramente psicologica, interiore, accennata, ossessiva – tant’è che a un certo punto una delle persone dell’equipaggio afferma che l’alieno parassita è come se ingaggiasse una “lotta interiore” dentro se stesso. Questo naturalmente serve anche a compensare la scarsità di effetti speciali per un film che riesce, con pochi mezzi e tante idee, a risultare comunque visionario: il pubblico viene sorpreso alle numerose trovate che vengono tirate fuori, inclusa la presenza di corpi posseduti da alieni parassiti che si comportano di fatto come zombie (La notte dei morti viventi, vale la pena ricordarlo, uscirà solo tre anni dopo questo film). Come ulteriore nota di merito si può rilevare che i protagonisti seguono una sorta di religione materialista, ispirata ai principi di natura scientista e che parla degli atomi delle particelle come se fossero espressione di volontà divina (scena del funerale degli astronauti), con preghiere che sembrano tratte da uno scritto di Deleuze e Guattari. Questo dettaglio non è un vezzo, ma possiede una funzione specifica all’interno della storia – come sarà possibile osservare visionando il film per intero. In tal senso ci sentiamo di dire che terrore nello spazio sia sicuramente uno dei film di sci-fi più avanguardistici mai girati, sia per lo svolgimento della storia che per le conseguenze tutt’altro che ovvio della conclusione della stessa. La sceneggiatura sempre guardare a un futuro prossimo in cui bisognerà liberarsi dell’ottica e egocentrica che caratterizza gli esseri umani, in favore di una sorta di internazionalismo spaziale che sembra peraltro possedere vaghi spunti accelerazionisti (civiltà aliene che cercano posti in cui poter sopravvivere, più rapidamente possibile e per evitare di estinguersi).

    Visto negli anni successivi, gran parte della critica ha suggerito che questo film possa aver grandemente ispirato Ridley Scott, e questo sia per Alien (1979) che per Prometheus (2012). Non ci sentiamo di dar loro torto: per quanto i film di Scott brillino l’uso di effetti speciali e per la componente smaccatamente horror, è assodato che questa caratteristica sia archetipica di già di questo film, ricordando che siamo nel 1965, tre anni prima che uscisse un film avvenieristico come 2001 Odissea nello spazio. Gli elementi narrativi sono del resto analoghi: si tratta sempre di missioni di astronauti alla ricerca di vita su pianeti sconosciuti, nei quali troveranno resti di antiche civiltà – e soprattutto alieni parassiti. Quest’idea del parassitismo come villain della storia è naturalmente comune a un altro cult del periodo come l’invasione degli ultracorpi, con la differenza che il clima claustrofobico viene costruito all’interno di una angusta astronave e, soprattutto, come poi farà John Carpenter ne La cosa, il pubblico non sa quale degli astronauti sia infetto dal parassita quale invece no.

    Gran parte del film viene girato all’interno di un teatro di posa in condizioni proibitive – Bava ebbe a dire, in una celebre intervistaVorrei che la gente, la critica, si rendesse conto delle condizioni nelle quali sono costretto a girare i miei film.
    Per Terrore nello spazio non avevo nulla, ma realmente nulla a disposizione. Dico, c’era il teatro di posa, tutto vuoto e squallido, perché mancavano i soldi: avrebbe dovuto rappresentare un pianeta. Che ho fatto allora? Nel teatro affianco c’erano due grosse rocce di plastica, residuato di qualche film mitologico, le ho prese e messe in mezzo al mio set, poi per coprire il pavimento ho seminato quegli zampironi fumogeni e ho oscurato lo sfondo, dove c’era solo la parete bianca. Poi, spostando quelle due rocce da un posto all’altro ho girato il film. Le sembra possibile?” – costringendo il regista a ricorrere a stratagemmi di vario genere.

    La fantascienza pre-ballardiana come questa sa essere un genere decisamente complesso dal punto di vista scenografico, chiaramente, ma il fatto che si noti poco la mancanza di mezzi depone per far credere che si tratti, a ragione, di uno dei migliori film di fantascienza italiani mai girati. Tanto più che si tratta dell’unico esperimento di Mario bava nel genere, da lui molto amato eppure prodotto soltanto in questo unicum. Una tradizione che in Italia non ha mai mai preso troppo piede, in effetti, e sicuramente le prime avvisaglie si vedevano già allora: motivo per cui questo film rimane un piccolo gioiello del genere, ricco di trovate creative e sottile ironia (il finale del film è l’apoteosi in tal senso: per non rischiare di perdersi nello spazio, l’equipaggio alieno decide di atterrare proprio sul pianeta Terra).

    Distribuito negli USA con il titolo Planet of the vampires, incassa 251 mila dollari dell’epoca (per un film di fantascienza del 1965 sembra ancora più notevole), mentre la sceneggiatura è tratta da un racconti di Renato Pestriniero (Una notte di 21 ore, disponibile integralmente su altrimondi.org). Il film viene coprodotto da AIP e Italian International Film, con il finanziamento della spagnola Castilla Cooperativa Cinematográfica.

    La locandina dell’edizione americana, per inciso, promette senza mantenere: si vedono gli astronauti combattere con le creature di cui, nel film, vediamo solo gli scheletri (probabili esseri di altri pianeti non scampati al peggio).

    Immagine tratta da https://hotcorn.com/it/film/news/alien-40-terrore-nello-spazio-mario-bava-film-cult-ridley-scott/
  • Le colline hanno gli occhi è l’orrore sociologico di Wes Craven

    Una famiglia con l’auto in panne si ritrova casualmente in una zona desertica: poco dopo si imbatte in un gruppo di criminali cannibali. Les jeux sont faits.

    La seconda opera di Craven, che focalizza ancora una volta un horror “sociologico” estremo e molto disturbing, incentrato sul comportamento di una famiglia ordinaria trovatasi in una situazione molto rischiosa, e capace di diventare crudele per sopravvivere. Se state pensando di averla già sentita: quasi certamente avete visto qualche clone di questo film.

    Suggestioni simili a quelle del precedente L’ultima casa a sinistra (non manca la solita citazione “fallica” di Freud) di cinque anni prima: Craven rimescola le carte del rape ‘n revenge e crea “Le colline hanno gli occhi“, un film in cui il regista si autocita con una certa classe, riproponendo l’idea del gruppetto di cannibali nascosti, in modalità forse improbabile nella realtà, nel deserto californiano. Non mancano personaggi stereotipati, tra cui la famiglia puritana, il poliziotto in pensione che la sa lunga e gli umani deformi che vivono lontano dalla civiltà. C’è da dire che la qualità audio e video non è certo elevata, del resto stiamo parlando di un low-budget puramente settantiano e forse qualcuno potrebbe trovare più interessante guardare il remake del 2005: personalmente non ci riesco, è più forte di me, rifare i classici è una trovata a mio avviso oscena nella quasi totalità dei casi.

    Questo film è, peraltro, il progenitore di una trafila di b-movie assai su questa falsariga, tanto che (ad esempio) Skinned Deep ne ricalca fedelmente più di una dinamica; inoltre è possibile, a mio parere, qualche parallelismo con Funny Games, anche se lì il regista ha ribaltato completamente l’assunto di Craven, mostrando vittime inermi nelle mani dei cattivi, completamente incapaci di reagire. Il concetto di fondo non cambia: lotta per la sopravvivenza tra mondi differenti, e forse la nota sociologica più curiosa si registra nell’inquietante parallelismo tra due mondi diversi solo in apparenza. Non il top dell’originalità e dello spunto di discussione, considerando le sassate scagliate anni prima già da Hooper (e forse da qualche altro regista indipendente), ma alla fine si tratta di un buon horror e questo dovrebbe essere messo in primo piano rispetto al resto. Tra le curiosità, i nomi dei “cattivi” che corrispondono a quella degli dei della mitologia classica (Plutone, Mercurio, Giove e Marte); probabilmente cult anche solo per il ferocissimo finale, da vedere senza esitazione anche oggi, ma non per tutti gli stomaci.

  • Corti di fantascienza degni di nota: “Pathos” (2009, Dennis Cabella, Marcello Ercole, Fabio Prati)

    In un futuro post apocalittico la Terra è un deserto inospitale e sommerso di spazzatura: gli uomini vivono in squallide stanze chiuse, nelle quali pagano mediante carta di credito anche per sognare…

    In breve. Corto “mordi e fuggi” all’italiana, che cita apertamente il tema distopico alla Verhoeven, si fa contaminare sia da “The cube” che da “Matrix”, ha certamente considerato la crudeltà di qualche post-apocalittico cult (pur senza svilupparla, di fatto) ed esce fuori in assoluta autonomia, senza poter essere tacciato di citazionismo o scopiazzatura.

    Mentre viviamo, il Grande Fratello ci osserva, e ci suggerisce come vivere, come pensare e cosa sognare: i cinque sensi non sono più gratuiti, nel futuro esiste un vero e proprio abbonamento da rinnovare. Chi ritarda per qualsiasi motivo l’abbonamento periodico, si ritroverà a perderne l’uso. Film forse troppo breve (a volergli trovare un difetto) e sostanzialmente privo di un vero e proprio intreccio (ma questo, in fondo, non è un problema): forse avrebbe potuto essere maggiormente arricchito da dettagli di vario tipo, caratterizzazioni dei personaggi, interazioni.

    Probabilmente il tutto, confinato tra inquietanti schermi televisivi alla Videodrome e squallide stanze semi-vuote, finisce per accentuare il senso di isolamento degli individui e, in tal senso, è una mossa molto azzeccata. Inquadrature e fotografia cyberpunk da brivido: un ottimo prodotto, in definitiva, per chi ama l’essenzialità e la fantascienza classico-complottistica.

    L’interpretazione di Fabio Prati, vittima della macchina “pathos”, è davvero convincente ed intensa, e merita certamente una citazione finale.

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